Matsumoto Seicho
Casa editrice: Adelphi
pagine: 206
prezzo: 18,00
Trama
In un mattino di primavera una giovane donna entra nello studio di un illustre penalista di Tokyo. È Kiriko. Ha appena vent’anni, il volto pallido dai tratti ancora infantili, ma qualcosa di inflessibile nello sguardo, «come fosse stata forgiata nell’acciaio». Non ha un soldo e ha attraversato il Giappone dal lontano Ky?sh? per arrivare fin lì, a implorare il suo aiuto. Il fratello, accusato di omicidio, è appena stato arrestato, e Kiriko è la sola a crederlo innocente. L’avvocato rifiuta il caso: non ha tempo da perdere, tanto meno per una difesa che dovrebbe assumersi senza essere retribuito. Kiriko si scusa con un piccolo inchino, esce dallo studio e così come è arrivata scompare. Il fratello verrà condannato e morirà in carcere qualche mese dopo, poco prima che l’esecuzione abbia luogo. È solo l’antefatto da cui prende il via questo gelido noir di Matsumoto. Dove un caso-fantasma, ripercorso nei minimi dettagli, lascia spazio a una vendetta esemplare che si fa strada da lontano. E mentre ogni colpa – consapevole o inconsapevole – viene pesata accuratamente, come su una bilancia cosmica, una tensione impalpabile, un «rumore di nebbia» accompagnano questa storia da cima a fondo. Finché lei, Kiriko, la ragazza del Ky?sh?, non otterrà ciò che le spetta.
Estratto
Capitolo I
Kiriko lasciò la pensione di Kanda alle dieci del mattino.
Sarebbe voluta uscire prima, ma aspettò fino a quell’ora, perché aveva sentito dire che gli avvocati famosi non arrivano mai troppo presto in ufficio.
Il nome dell’avvocato per cui era venuta appositamente dal Kyūshū era Ōtsuka Kinzō. Una ventenne come lei, impiegata presso una ditta come dattilografa, non avrebbe certo avuto motivo di conoscere la sua fama di penalista se, in seguito all’incidente che le aveva sconvolto la vita, non avesse sentito tante persone fare il suo nome.
Kiriko era partita dalla città di K., nel nord della regione, e dopo due giorni di viaggio era arrivata a Tokyo la sera prima, sul tardi. Era andata dritta dritta in quella pensione perché c’era già stata ai tempi delle medie, in gita scolastica, e questo la rassicurava. Inoltre, aveva pensato, se ci andavano delle scolaresche, non doveva costare molto.
Anche se non conosceva Ōtsuka, si sentiva piuttosto fiduciosa ed era sicura che alla fine avrebbe accettato di seguire il suo caso. Dopotutto si era fatta venti ore di treno per vederlo, e incontrandola per la prima volta, l’avvocato non avrebbe potuto ignorare la sua determinazione.
Quando aprì gli occhi il cielo si era appena schiarito. Se era riuscita a svegliarsi così presto, dopo tutto quel viaggio, non era soltanto per via della sua giovane età, ma per l’eccitazione che provava.
La pensione era in cima a una collina e Tokyo, a quell’ora, era straordinariamente silenziosa. Questa volta le sembrava diversa, perché aveva dormito da sola. Proprio sotto alla sua finestra c’era una scuola elementare, ma quando si alzò per affacciarsi sul cortile non si vedeva ancora nessuno. Poi, lentamente, due o tre alla volta, come piccoli fagioli di soia nera, i bambini cominciarono ad arrivare, e quando la cameriera entrò nella stanza per rimettere a posto il futon, si sentiva già un gran baccano.
«Buongiorno» la salutò l’anziana cameriera, stringendo gli occhi segnati dalle rughe. «Dev’essere molto stanca. Perché non riposa ancora un po’?».
«Ormai sono sveglia, e poi non ho sonno» disse Kiriko, spostandosi verso la sedia di vimini nella veranda.
«Beata lei che è giovane. Se lo facessi io…».
La cameriera aveva saputo la sera prima che Kiriko veniva dal Kyūshū. Le avvicinò del tè e un piattino con delle prugne rosse in salamoia. Erano piccole e raggrinzite al punto giusto. Kiriko le guardò per un attimo con aria distratta.
«Mi piacerebbe visitare il Kyūshū una volta. Beppu dev’essere bella, vero?».
Kiriko annuì.
La cameriera strofinò energicamente il tavolo con un panno bianco.
«È la prima volta che viene a Tokyo, signorina? È qui per vedere la città?».
In effetti una donna giovane che dormiva da sola in una pensione non poteva avere né famiglia né amici a Tokyo. Dunque o era una turista o cercava lavoro.
«Veramente no» rispose Kiriko, sedendosi sulla sedia di vimini.
La cameriera cominciò a sistemare le stoviglie sul tavolo. Il bianco delle tazze si rifletteva sulla lucida superficie laccata di rosso. Poi si piegò sulle ginocchia e dispose ordinatamente i piatti, ma dal suo sguardo era chiaro che stava ancora pensando alla risposta della ragazza.
Kiriko prese l’agenda, dove aveva annotato l’indirizzo dell’ufficio dell’avvocato Ōtsuka. Lo lesse ad alta voce: «Tokyo, quartiere di Chiyoda, Marunouchi2, edificio M. Sa dove si trova?».
«È proprio accanto alla stazione, di fronte all’uscita Yaesu» rispose la cameriera. Quindi le spiegò come arrivarci in tram e, curiosa, le domandò: «Lì però ci sono solo uffici, conosce qualcuno?».
«Più o meno. Vado nello studio di un avvocato».
«Un avvocato?».
La cameriera spalancò gli occhi dalla sorpresa, convinta com’era che fosse a Tokyo per cercare un impiego.
«Ed è venuta qui apposta per incontrarlo?».
«Proprio così».
«Però!» disse la cameriera, guardando la ragazza con più attenzione. Era così giovane, eppure sembrava portare un grosso peso sulle spalle. Avrebbe voluto farle qualche altra domanda, ma si trattenne.
«Conosce bene quella zona?» le chiese Kiriko.
«Sì, ci passo spesso. Ci sono tanti edifici di mattoni rossi tutti uguali, ognuno con la sua insegna davanti. Come si chiama l’avvocato?».
«Ōtsuka Kinzō».
«L’avvocato Ōtsuka?» fece la cameriera, trattenendo il respiro. «È un uomo molto importante, sa?».
«Lo conosce?».
«Non di persona, ma vede, quando si fa un lavoro come il mio si incontra tanta gente e a lungo andare si finisce per imparare qualche nome» disse accennando un sorriso. Poi guardò Kiriko con aria preoccupata e riprese: «Caspita. Per cercare un avvocato così importante deve trovarsi in guai seri… Dalle sue parti non ce ne sono di bravi?».
«Per esserci ci sono» rispose Kiriko abbassando lo sguardo. «Ma ho pensato che fosse meglio rivolgersi a un grande avvocato di Tokyo, ecco tutto».
«Non avrebbe potuto scegliere di meglio».
La cameriera osservava con aria lievemente sorpresa quella giovane donna venuta da così lontano.
«È un caso molto complicato?» domandò, desiderosa di saperne di più, ma Kiriko si limitò a dire qualcosa di vago, troncando di netto la conversazione. Poi si alzò e andò a inginocchiarsi davanti al tavolino su cui erano state disposte con cura le tazze. Il suo viso, dai tratti ancora infantili, appariva ora inaspettatamente freddo, e un’improvvisa distanza si frappose tra lei e la cameriera.
L’edificio M di Marunouchi si trovava su una strada fiancheggiata su entrambi i lati da alti palazzi di mattoni rossi, e a camminarci sembrava quasi di essere in una vecchia città straniera. Era un po’ come guardare una cartolina di epoca Meiji, con i suoi palazzi all’occidentale, e al sole di inizio estate gran parte degli edifici restava nell’ombra. L’ingresso era angusto e l’interno appariva buio. Se non fosse stato per il verde brillante degli alberi ai lati della strada, l’intera scena sembrava uscita da un’incisione, pesante e cupa.
Su ogni facciata c’erano insegne nere, con incisi a caratteri dorati i nomi delle compagnie. Ma era un oro spento, che si distaccava appena dal tono scuro delle insegne e si confaceva all’atmosfera generale. Se in strada, invece delle automobili, avesse visto delle carrozze con i cavalli, non le sarebbe parso così strano.
Dopo aver chiesto a vari passanti, Kiriko riuscì a individuare l’insegna dello studio di Ōtsuka. Se era così famoso da essere conosciuto anche in Kyūshū, pensava, a Tokyo chiunque avrebbe capito subito di chi si trattava, ma contrariamente alle sue aspettative nessuno ne sapeva niente. Le persone a cui chiese sembravano interdette, o erano troppo occupate, oppure sorridevano, facendo segno di non sapere e se ne andavano.
Dopo cinque tentativi falliti, fu uno studente universitario ad aiutarla. L’accompagnò fino al palazzo e glielo indicò con il dito: «È qui». Un’altra di quelle insegne ossidate, del tutto anonime.
Kiriko fece un profondo respiro e si ricompose. L’obiettivo per raggiungere il quale aveva viaggiato venti ore in treno si trovava davanti ai suoi occhi: un ingresso buio e di forma rettangolare.
Due giovani che scendevano in fretta le scale le lanciarono un’occhiata. Poi uno dei due gettò via la sigaretta fumata a metà e si allontanarono insieme.
L’avvocato Ōtsuka era in fondo allo studio e parlava con un cliente, che non sembrava una persona particolarmente gradevole.
A dividere l’ambiente non c’erano pareti, ma librerie. La parte più grande era occupata da cinque giovani avvocati suoi assistenti, un vecchio impiegato con un passato di stenografo in tribunale, e una ragazza che dava una mano per le altre faccende. Le scrivanie degli avvocati erano disposte a ferro di cavallo, in modo che tutti potessero parlarsi agevolmente. Anche il tavolo dell’impiegato, come le sedie su cui si facevano accomodare i clienti in attesa, si trovavano in questa parte dell’ufficio.
Dall’entrata, però, non si riusciva a vedere tutto. La parte più piccola era occupata da Ōtsuka e ospitava una grande scrivania, una comoda poltrona girevole, un tavolino di cortesia e la sedia per il cliente. Le pareti avevano un’aria consunta.
Il cliente, seduto sulla sedia, continuava a parlare senza sosta, e se la rideva di gusto. Per molti anni aveva occupato un’alta posizione come pubblico ministero, e Ōtsuka non poteva liquidarlo sbrigativamente. L’avvocato, cinquantadue anni, tempie brizzolate, bel colorito, volto pieno e doppio mento, aveva l’aria di saperla lunga.
Ōtsuka, in realtà aveva una bella gatta da pelare. Si trattava di un grosso e difficile caso prossimo alla conclusione, ma per il quale non era ancora riuscito a mettere insieme tutti i documenti necessari, e che perciò continuava a tormentarlo. Era soprattutto questo il motivo che gli impediva di interessarsi al discorso del suo interlocutore. Tuttavia non era un cliente con cui si poteva mostrare scortese, e così Ōtsuka si sforzava di sorridere e annuire.
Smettila di pensare al caso, si ripeteva, mentre il discorso del suo cliente gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro. Finché all’improvviso si ricordò che quel pomeriggio, alle due, aveva una partita di golf a Kawana. Era stato invitato da Michiko, ma siccome all’inizio aveva rifiutato, poi gli era passato di mente. Era un po’ tardi, ma se fosse partito subito avrebbe fatto in tempo, e così cominciò a guardare l’orologio.
Il cliente, a sua volta, notando che Ōtsuka controllava l’ora, si alzò dalla sedia. L’avvocato lo accompagnò alla porta e si sentì sollevato. In quel momento vide una giovane donna seduta alla scrivania di Okumura, il segretario, intenta a parlare con lui. Portava un vestito bianco, che non la faceva passare inosservata. Vide solo due dei giovani colleghi, di spalle, ciascuno con un pesante faldone aperto sulla scrivania. Quando fece per tornare nella propria stanza, Okumura gli lanciò un’occhiata.
Pregando in cuor suo che non venisse, Ōtsuka cominciò a raccogliere le proprie cose dalla scrivania, ma Okumura arrivò con il suo passo lento.
«C’è una persona che vorrebbe vederla» disse guar dandolo infilare nella valigetta nera i documenti che erano sulla scrivania.
«Ah sì?» replicò Ōtsuka ricordandosi la giovane vestita di bianco che era seduta nell’altra stanza.
«Vuole incontrarla?».
«E gli altri, dove sono finiti?» chiese Ōtsuka chiudendo a chiave la valigetta piena zeppa di fogli.
«Tre sono fuori, gli altri due sono occupati».
Di regola l’avvocato voleva sempre incontrare i clienti di persona, e quando aveva troppo da fare i suoi assistenti lo facevano al posto suo. Quindi adesso toccava a lui.
«Di che si tratta?».
«Ma non stava uscendo?».
Okumura, vedendo che Ōtsuka si apprestava ad andarsene, aveva già assunto l’aria di chi era pronto a occuparsi di tutto.
«No, posso restare ancora un po’».
Il pensiero di lasciare lo studio per andare a incontrare una donna lo faceva sentire un po’ in colpa, e si accese una sigaretta.
«Si tratta di un omicidio. La signorina è la sorella dell’imputato» disse Okumura rileggendo gli appunti che aveva preso, senza mostrare particolare entusiasmo.
«Dove sarà successo?» si domandò l’avvocato, passando in rassegna nella sua mente gli ultimi articoli che aveva letto.
«È avvenuto in Kyūshū, nella città di K.».
«In Kyūshū?» ribatté Ōtsuka guardando fisso Okumura. «Un bel po’ lontano, eh?».
«Dice che è venuta qui appositamente per affidarle il suo caso».
L’avvocato lasciò cadere un po’ di cenere dalla sigaretta e si massaggiò il collo con le dita. Non erano parole che sentiva di rado. Ma il Kyūshū era davvero lontano.
«E… Che cosa ha intenzione di fare?».
«In che senso? Intendi se voglio incontrarla o meno?».
Okumura, con il suo corpo magro, si avvicinò all’avvocato, si chinò e disse sottovoce: «Pare che non abbia denaro».
Silenzio.
«Si chiama Yanagida Kiriko e lavora come dattilografa in una piccola azienda della città di K. Il fratello, cioè l’accusato, fa l’insegnante, e i due vivono insieme. Han no uno zio, ma a quanto ho capito non è nella condizione di prestargli dei soldi».
«Le hai parlato della nostra parcella minima?» Ōtsuka smise di massaggiarsi il collo e cominciò a tamburellare con le dita sul bordo della scrivania. Improvvisamente si materializzò davanti a lui la visione di Michiko illuminata dal sole su una collinetta verde con la mazza da golf tra le mani. Accanto a lei c’erano altri uomini, le parlavano, e lei sorrideva…
«Sì, gliene ho parlato. Le ho detto delle spese di viaggio, che trattandosi del Kyūshū includono viaggi in aereo. Poi ci sono le spese per l’alloggio, naturalmente in un buon albergo, e le indagini, la raccolta del materiale, le fotocopie. A tutto ciò si somma la parcella, che nel nostro caso è di cinquecentomila yen per una prima udienza. Inoltre, trattandosi di una trasferta, si deve preventivare una diaria, che ammonta all’incirca a ottomila yen. Senza dimenticare che se le dovesse far vincere il caso, ci sarebbe anche una gratifica extra…».
Ōtsuka prese un’altra boccata di sigaretta.
«Sembrava piuttosto sorpresa. Mi ha domandato quanto denaro sarebbe necessario per arrivare alla fine del processo. Le ho spiegato che dipende dalla natura del caso ma che, lasciando da parte eventuali udienze successive, e considerando le trasferte in Kyūshū, avrebbe avuto bisogno di almeno ottocentomila yen – naturalmente ho precisato che si tratta solo di un mio calcolo sommario. Le ho detto anche che la parcella va pagata in anticipo. E a quel punto sa cosa ha fatto? Mi ha chiesto se non potremmo scendere fino a un terzo della somma, perché lei tutto quel denaro non ce l’ha. È vero, è giovane, ma sa il fatto suo».
«Un terzo?».
Ōtsuka fece un sorriso ironico.
«Inoltre chiede di pagare in anticipo soltanto la metà della parcella. Insiste che è venuta fin qui solo per rivolgersi a lei e vuole a tutti i costi che accetti di occuparsi del suo caso».
«Non le scuciremo neanche un soldo, vero?» domandò Ōtsuka, memore di esperienze passate.
«Ho l’impressione di no» rispose il segretario. «A meno che lei non ritenga il caso così interessante da accettare di occuparsene gratuitamente».
«La gente viene da me senza neanche immaginare quanto denaro ci voglia. Si preoccupano solo di assicurarsi un buon avvocato. È sempre la solita storia».
«Pensa di rifiutare, quindi?» domandò Okumura. «In fondo ha molto da fare, forse non è il momento di assumersi impegni come questo».
«In passato mi sono occupato di casi del genere, ma adesso non ho né il tempo né l’entusiasmo per farlo. Figuriamoci poi senza guadagnarci nulla. Meglio lasciar stare».
Ōtsuka si sistemò l’orologio.
«Allora la mando via».
«No, aspetta un momento. Si è fatta tutta quella strada… Lascia che sia io a dirglielo, falla entrare».
Okumura si fece da parte e al suo posto fu la giovane donna a entrare nella stanza. Era quella vestita di bianco che aveva visto di sfuggita poco prima. Osservandola da vicino, notò che il suo abito era di un tessuto scadente.
La giovane guardò Ōtsuka e chinò il capo educata mente. Aveva un volto delicato e tratti ben definiti. C’era qualcosa di stranamente intenso nei suoi occhi, e più volte nel corso della loro conversazione Ōtsuka ne fu colpito.
«E così viene dal Kyūshū?» le domandò sorridendo.
«Dalla città di K. Mi chiamo Yanagida Kiriko». Scandiva bene ogni parola e il suo sguardo non tradiva la minima emozione di fronte all’avvocato. La linea del viso, dalle guance al mento, aveva un che di infantile.
«Per quale motivo è venuta da me?».
«Perché ho sentito dire che lei è uno dei migliori avvocati del paese» rispose Kiriko senza esitazione.
«Ma devono esserci anche in Kyūshū dei buoni avvocati ». Ōtsuka prese un’altra sigaretta e se la mise fra le labbra. «Non era necessario venire fino a Tokyo».
«Ma solo lei può salvare mio fratello». La ragazza pronunciò quelle parole di getto, continuando a fissarlo con i suoi occhi ardenti.
«Davvero? È un caso così complicato?».
«Mio fratello è accusato di rapina e omicidio. La vittima è una donna di sessantacinque anni. Quando è stato arrestato ha reso piena confessione alla polizia, ma…».
«Ha ammesso il fatto?».
«Sì, davanti alla polizia ha confessato, ma poi, con il pubblico ministero, ha ritrattato tutto. Io credo nella sua innocenza, credo che la verità sia quella che ha raccontato la seconda volta, ma il suo avvocato dice che la situazione è critica… è molto difficile provare che non sia lui il colpevole. Io però non mi sono rassegnata e, quando ho sentito parlare di lei, sono venuta immediatamente».
«Da chi ha saputo il mio nome?».
«Da qualcuno in tribunale, in Kyūshū. Ho sentito dire che in passato lei è riuscito a far cadere false accuse di colpevolezza».
Ōtsuka tornò a guardare con impazienza l’orologio.
«È stato tanto tempo fa» rispose. «Al giorno d’oggi ci sono avvocati eccellenti dappertutto, il livello si è alzato notevolmente, e tra Tokyo e le provincie non c’è poi così tanta differenza».
«Non vuole nemmeno sentire cosa ho da dirle?».
Per la prima volta, dallo sguardo di Kiriko trapelava un’ombra di sconforto.
Ōtsuka dentro di sé sapeva che se le avesse lasciato raccontare tutta la storia avrebbe finito per dargliela vinta. Inoltre era sempre più irritato, continuava a pensare a Michiko sul prato che rideva e scherzava con altri uomini.
«La mia parcella è piuttosto alta. Il mio assistente glielo ha spiegato, vero?».
Kiriko annuì. «Sì. Avevo chiesto anche a lui se non fosse possibile avere un sconto sulla parcella. Purtroppo non ho grande disponibilità di denaro. Il mio salario è misero, ma sono riuscita a mettere da parte gli straordinari, potrei pagarvi con quelli».
«Non credo che lei debba arrivare a tanto» le disse Ōtsuka sforzandosi di risultare convincente. «Vede, le sembrerà strano che sia proprio io a dirglielo, ma una persona con la mia esperienza non può che costarle più di un normale avvocato, uno più giovane. Ci sono molte spese, quelle di viaggio per esempio, la diaria, poi quelle per le indagini: le verrebbe a costare una cifra enorme. Il tutto in aggiunta alla mia parcella. Una vera assurdità. Mi rendo conto di cosa sta passando, ma la pregherei di non insistere oltre».
«Quindi non posso proprio sperare che si occupi del caso?».
Kiriko rivolse uno sguardo duro all’avvocato. Una vena azzurrina le comparve sulla fronte. Le labbra graziose erano serrate.
Ōtsuka cominciava a sentirsi sotto pressione.
«Davvero, non penso che abbia bisogno di me. Nel mio caso pagherebbe anche per il nome, ma quanto a competenze non deve illudersi che sia poi così diverso dagli altri avvocati. Sono certo che anche dalle sue parti ci sono colleghi eccellenti».
«Ma io sono venuta dal Kyūshū apposta per incontrare lei».
«Ed è stato uno sbaglio. Gli avvocati di Tokyo, mi creda, non sono migliori degli altri».
«In poche parole rifiuta perché non posso pagarle la parcella?».
Una domanda piuttosto diretta per una ragazza così giovane: sapeva il fatto suo, Okumura aveva ragione.
«In parte è anche per questo». Ōtsuka aveva capito che gli conveniva essere chiaro. «Comunque sia, sto già seguendo molti casi complicati e non avrei il tempo di andare fino in Kyūshū. Se accettassi l’incarico, dovrei avviare un’indagine approfondita e portare il caso in tribunale. Perché è questo che fa un avvocato. Anche i soldi c’entrano naturalmente, ma la ragione principale del mio rifiuto è che non ho tempo».
Kiriko abbassò lo sguardo e rifletté per qualche istante. In silenzio, senza muovere un muscolo. Malgrado le linee morbide della sua figura, c’era qualcosa di inflessibile in lei, pensò l’avvocato, come fosse stata forgiata nell’acciaio.
«Capisco».
Con lo sguardo sempre abbassato fece il gesto di alzarsi. Non si mosse di scatto, ma a Ōtsuka sembrò che un’improvvisa raffica di vento lo avesse investito.
«Mi scusi per il disturbo» disse Kiriko accennando educatamente un inchino.
Ōtsuka si sentì improvvisamente a disagio, ma finse che tutto fosse normale e l’accompagnò all’uscita.
Sulla porta, lei aggiunse sottovoce: «Avvocato, mio fratello rischia la pena di morte». Poi scese le scale senza voltarsi indietro e la sua figura candida svanì nella penombra. L’immagine delle sue spalle curve rimase a lungo impressa nella mente di Ōtsuka.
Okumura lo raggiunse. Il solo rumore che riuscissero a udire era quello sordo dei suoi passi mentre scendeva le scale.
Capitolo II
Kiriko si svegliò alle sette del mattino.
Il suo era stato un sonno leggero, pieno di sogni. Sogni frammentari, cupi, confusi. Ricordava di essersi girata e rigirata in continuazione.
Aveva un cerchio alla testa. Era così assonnata da non riuscire ad aprire le palpebre, ma allo stesso tempo sentiva i nervi a fior di pelle. Si alzò e quando aprì le tende il sole inondò la stanza. La luce era così forte da farle bruciare gli occhi.
Non aveva ancora voglia di andarsi a lavare, così si mise a sedere per un po’ sulla sedia di vimini. Due giorni dopo sarebbe dovuta tornare in ufficio e se non avesse preso il treno la sera stessa, non avrebbe fatto in tempo. Fin da quando era arrivata a Tokyo sapeva di dover ripartire quella sera, ma ora si sentiva come svuotata. Infastidita dal calore del sole che le batteva su una guancia si alzò di nuovo.
Si tolse la vestaglia che aveva trovato nella stanza e indossò un vestito. Non riusciva a starsene lì con le mani in mano, e poi pensò che se avesse fatto due passi forse il dolore agli occhi le sarebbe passato.
Uscì in corridoio e incontrò la domestica che portava un vassoio con del cibo.
«Oh, buongiorno» fece la cameriera abbassando il vassoio, il volto rugoso contratto in un sorriso. Era la stessa della sera precedente. «Sta già uscendo?».
«Sì, solo per un po’» rispose Kiriko chinando lievemente il capo.
«Buona passeggiata allora. Intanto le preparo la colazione».
Così dicendo, si avvicinò al fusuma di un’altra stanza.
Kiriko infilò un paio di zoccoli messi a disposizione dalla pensione e uscì.
Era ancora presto e non c’era molta gente in giro. La strada, in discesa, era lastricata di pietre, che formavano un motivo a onde. Negli interstizi fra l’una e l’altra vide un mozzicone di sigaretta annerito e imbrattato di fango. E questo le fece venire in mente suo fratello.
Le foglie umide degli alberi erano di un verde brillante. Il sole a malapena illuminava i tetti delle case e i negozi aperti erano ancora pochi.
Dopo un tratto ripido, la discesa si fece più dolce, poi comparve la stazione. Le uniche già al lavoro erano le vecchie donne che vendevano giornali e riviste. Gli altri negozi erano ancora tutti chiusi. Dalla stazione non usciva nessuno, mentre erano molti gli impiegati che attraversavano i tornelli per entrare. I giornali si vendevano bene, ma Kiriko non aveva voglia di comprarne.
Salì sul ponte, e da lì il marciapiede della stazione che costeggiava il fiume le apparve stretto e lungo. Si affacciò a guardare i treni e i passeggeri che si muovevano veloci come insetti. Solo il paesaggio circostante preservava la quiete del mattino. Il tetto di un grande tempio si ergeva al di sopra degli altri con le sue tegole ornate ricoperte da una patina di verderame.
Agli occhi di Kiriko quella vista era come un’illusione. Le sembrava irreale. Tokyo era coperta da un velo grigio che la faceva somigliare a un modello di cartapesta.
Tornando indietro vide molte più persone di prima, ma i loro volti le parvero tutti uguali.
«Bentornata» disse la domestica, portando la colazione in camera. Le pietanze erano identiche a quelle del giorno prima. Come se quel pasto fosse la prosecuzione del precedente. Lo spiacevole incontro con l’avvocato Ōtsuka le parve soltanto un breve, strano interludio.
«Ha gli occhi stanchi» disse la domestica mentre Kiriko portava le bacchette alle labbra.
«Davvero?».
«Forse ha dormito male?».
«No, non particolarmente».
Non aveva fame. Sorseggiò la zuppa di miso e non prese altro.
«Non mangia nulla?» chiese allora la domestica con un’espressione leggermente contrariata.
«No, davvero».
«Ma via, una ragazza giovane come lei… faccia un piccolo sforzo».
«Sono già sazia» rispose Kiriko, bevendo un sorso di tè.
«Capisco. È la sua prima volta a Tokyo e forse si è stancata troppo» replicò la donna guardandola in viso.
Silenzio.
«Ha visto qualcosa della città? Ieri sera non ero di turno e quindi non ho potuto domandarglielo».
«No, niente» rispose Kiriko, posando la tazza.
La donna continuò a fissarla insospettita. Quella ragazza non aveva alcuna intenzione di conversare con lei. C’era qualcosa, nei suoi occhi da bambina, che lo diceva in modo inequivocabile, e che la trattenne dall’insistere.
«Allora lo porto via» disse rassegnata prendendo il vassoio con la colazione ancora intatta. Poi, mentre vi disponeva sopra i piattini aggiunse congedandosi: «È un peccato però, no? È arrivata fin qui, e poi…».
Rimasta sola, Kiriko ripeté fra sé e sé le parole della donna: «è un peccato». L’aria fresca del mattino e la vista dei treni non erano riusciti a dissipare il senso di disagio che aveva provato al risveglio e che ora sembrava condensarsi in quelle tre parole. Per quanto cercasse di cancellarle, continuavano a risuonare nella sua mente come un’eco lontana.
Per carattere le risultava difficile insistere dopo un rifiuto. Detestava dover supplicare. Suo fratello maggiore, quello stesso fratello che ora era accusato di omicidio, le aveva spesso detto che era una testarda. E una volta, da piccola, aveva picchiato un bambino, e lo aveva fatto piangere.
Sin dal suo ingresso nella compagnia dove lavorava non aveva mai cercato di ingraziarsi i capi e i colleghi maschi, come invece facevano le altre. Se riceveva un rifiuto non tornava più sulla questione. Per lei era normale, ma gli altri la rimproverano per la sua rigidezza.
Il giorno precedente l’avvocato Ōtsuka aveva rifiutato la sua proposta, lei aveva subito acquistato un biglietto del treno ed era pronta a tornare in Kyūshū.
«È un peccato però, no? È arrivata fin qui, e poi…».
Quelle parole le avevano aperto gli occhi. Non sul fatto che non aveva visto nulla di Tokyo, naturalmente, ma sul perché era arrivata fin lì.
Si sentiva animata da un inatteso coraggio. Era la prima volta che provava un tale desiderio di insistere. Persino il paesaggio, che fino a pochi istanti prima le era parso incolore, sembrò prendere vita tutt’a un tratto.
Decise di uscire. Non poteva usare il telefono della pensione, l’operatore del centralino alla reception, avrebbe potuto mettersi a origliare. I centralinisti della ditta dove lavorava conoscevano i segreti di tutti i dipendenti.
Si erano fatte le dieci e mezzo. Ōtsuka doveva essere già arrivato in ufficio. La strada che aveva percorso la mattina presto si era riempita di gente e, com’era naturale, i negozi ora erano aperti e brulicavano di clienti.
Vide una cabina telefonica e si avvicinò, ma al suo interno c’era già qualcuno. Era un uomo di mezza età che chiaccherava e rideva di gusto. La telefonata andava per le lunghe, e l’uomo sembrava stanco di stare in piedi. Ma proprio quando pareva che stesse per finire, puntualmente ricominciava a parlare.
Finalmente la porta si aprì e l’uomo uscì dalla cabina senza degnare Kiriko di uno sguardo. La ragazza afferrò la cornetta ancora tiepida. Aprì l’agendina e compose il numero dell’ufficio di Ōtsuka.
La voce che udì era quella, bassa e roca, dell’uomo incontrato il giorno prima.
«Posso parlare con l’avvocato Ōtsuka?».
«Chi lo desidera?» replicò la voce immediatamente.
«Yanagida Kiriko. Sono venuta ieri…» mormorò lei. Dopo un istante di riflessione, l’altro domandò: «La signorina venuta dal Kyūshū?».
Kiriko ripensò al viso di quell’impiegato di bassa statura. Se non ricordava male, il suo nome era Okumura.
«Esatto. Se possibile vorrei incontrare l’avvocato di nuovo».
«Si tratta sempre della questione di ieri?» chiese Okumura dopo una breve pausa.
«Sì».
«Ma le ha già risposto».
«Lo so…».
A Kiriko sembrava di vedere Okumura, davanti a sé, che le sbarrava la strada.
«Ma non posso accettare la sua risposta. Sono venuta dal Kyūshū solo per affidare il mio caso all’avvocato. Lasci che lo incontri un’altra volta. Mi dica qual è l’orario migliore per lui».
«L’avvocato non c’è. Non so se oggi passerà allo studio».
Kiriko sentì che le sue le gambe si irrigidivano.
«Devo assolutamente incontrarlo entro oggi. Se questa sera non prendo il treno avrò problemi al lavoro. Dove si trova l’avvocato? La prego di dirmelo».
Se avesse saputo dov’era, si sarebbe presentata lì.
«A Kawana» rispose Okumura. Quel nome le era sconosciuto. Sentendola tacere, Okumura aggiunse: «È lontano, fuori Tokyo. A Izu, nella prefettura di Shizuoka».
Kiriko aspettò per sei ore, andando in giro per le strade di Tokyo. Uno spreco di tempo insensato, noioso e frustrante.
Ginza era tutta un caos di edifici e persone. In passato aveva provato a immaginarsela, ma ora che ci si trovava non le faceva alcuna impressione. Solo gente che camminava e che non aveva niente a che fare con lei. Gente ricca, priva di preoccupazioni. Le donne sorridevano spensierate. A giudicare dalle loro facce e dagli abiti che indossavano, se mai ne avessero avuto bisogno, avrebbero potuto pagare senza difficoltà una parcella da ottocentomila yen a un avvocato.
Si lasciò alle spalle la zona più affollata e arrivò in un ampio spazio verde. Vi crescevano pini dagli splendidi rami. Da un lato della strada, con tutti quei palazzi, sembrava di guardare la fotografia di una città occidentale, dall’altro si vedeva un antico castello. Le automobili circolavano ininterrottamente, come la corrente di un fiume. Comitive di turisti, ciascuna con la sua bandierina, camminavano in file ordinate in direzione del Palazzo imperiale.
Mentre guardava distrattamente quel monotono spettacolo, Kiriko pensò tra sé e sé che non sarebbe rimasta ancora a lungo a lavorare per la sua compagnia. Quanto era accaduto aveva scioccato la cittadina in cui abitava. Un giorno erano arrivati i poliziotti e si erano portati via suo fratello, come se nulla fosse, come amici venuti a prenderlo. Ma da quel momento la loro vita insieme era finita, e quella di Kiriko era irrimediabilmente cambiata. Le persone ora la trattavano con freddezza.
Si erano fatte le quattro e mezzo. Era stanca, soprattutto si sentiva giù di morale. Ma quando, passata una tabaccheria, vide una cabina telefonica rossa, quel colore acceso le ridette improvvisamente forza.
Mentre si avvicinava alla cabina una persona le passò accanto e per poco non si scontrarono.
L’uomo, alto di statura, si fece da parte e, porgendole la cornetta, disse con un sorriso: «Prego». «Mi scusi» sussurrò Kiriko, quindi inserì una moneta da dieci yen nella fessura.
«Parlo con lo studio di Ōtsuka Kinzō?».
La voce roca di Okumura rispose affermativamente.
«Sono Yanagida» disse Kiriko dando le spalle all’uomo in attesa.
«L’avvocato si è fatto sentire?».
Quella mattina Okumura le aveva detto di provare a richiamare alle quattro e mezzo.
«Sì, ha chiamato» rispose con tono neutro.
«E cosa le ha detto?» chiese Kiriko, emozionata.
«Mi dispiace, non ha cambiato idea». La sua voce era inespressiva. «Come le ha detto ieri, non può accogliere la sua richiesta».
Kiriko sentì che le forze le venivano meno. Faceva fatica anche a reggere la cornetta, ma una vampata di calore la rianimò.
«Quindi non accetta per via dei soldi, è così?».
«Mi pare che ieri le abbia spiegato quali siano i motivi».
«C’è un uomo accusato ingiustamente che rischia di essere condannato a morte e lei mi sta dicendo che l’avvocato non lo difenderà, perché non ho abbastanza denaro?» ripeté.
Okumura restò in silenzio per qualche istante, spiazzato dal tono tagliente di quella domanda.
«Ecco… È una decisione dell’avvocato. Non so cosa dirle, io non posso farci niente».
«Senta, io sono povera, non posso pagare la parcella, e so di chiedere qualcosa di assurdo. Ma credevo che mi avrebbe aiutato, ho chiesto quattro giorni di ferie e ho speso i pochi soldi che avevo per il viaggio».
«È inutile che continui a insistere. Capisco quello che dice, ma la prego di rassegnarsi. Sono certo che anche in Kyūshū potrà trovare dei buoni avvocati.