Trama
Tutte le famiglie felici si somigliano: nascondono dei segreti
Quando Tessa raggiunge finalmente la piccola casa sul lago che ha affittato per sé e i suoi due bambini, è pronta a iniziare la meritata vacanza. La casa è minuscola, ma tutta per loro per l’intera estate. Il rifugio tanto agognato dove potersi finalmente riposare. Ma l’isolamento che Tessa aveva in mente diventa ben presto un sogno irrealizzabile per via dei vicini. Nella grande casa, infatti, abita una famiglia composta da una mamma – Rebecca, un tipo molto espansivo – e tre bambini. La loro allegria contagiosa non può fare a meno di travolgere Tessa e i figli, che finiscono per fare amicizia con i nuovi vicini. Eppure, Rebecca nasconde un terribile segreto. E Tessa diventa ben presto l’unica persona alla quale chiedere aiuto. Mentre i legami tra le due famiglie si consolidano, alcune scelte potrebbero cambiare per sempre il corso delle loro vite. Infatti una delle due famiglie potrebbe dover pagare un prezzo altissimo per quei segreti. E con la fine dell’estate, nessuno di loro sarà più al sicuro.
Come puoi tenere i tuoi figli al sicuro se non sai proteggere nemmeno te stessa?
«Incredibilmente emozionante, ti tiene inchiodata alle pagine fino alla fine.»
«La storia di amicizia, speranza e altruismo di cui avevo disperatamente bisogno.»
«È facile immergersi in una storia scritta in modo così poetico. Ti spezza il cuore ma ti infonde anche tanto coraggio.»
Prologo
Sei così silenziosa, immobile. Avverto appena il tuo respiro, e so che c’è soltanto perché il petto si alza e si abbassa quasi impercettibilmente, sotto il lenzuolo inamidato dell’ospedale; è visibile solo se mi avvicino e cerco un segno, quel segno così disperato e urgente che sei ancora qui, che ci sei e combatti, nonostante la diagnosi e i dottori che scuotono la testa.
È successo tutto così in fretta: la confusione, il sangue, le urla e lo spavento. Uno spavento tremendo. La mia mente vortica ancora, incredula che questo sia accaduto proprio alla mia bambina, ma se la testa smette di girare, poi sopraggiunge il senso di colpa assieme al terrore. È tutta colpa mia: è questa l’orribile verità, perché io avrei potuto impedirlo, se avessi capito cosa stava succedendo… ti avrei tenuta al sicuro, e non l’ho fatto.
Tutt’intorno a me, il silenzio. Scandisce le lunghe ore di solitudine nella notte di questo ospedale, mentre attendo il verdetto. I dottori dicono che presto sapranno qualcosa di più… se ti sveglierai. Se vivrai o morirai.
Ti fisso, incitandoti con tutta me stessa ad aprire gli occhi. A sorridermi mezzo addormentata, mentre riprendi conoscenza. Lo desidero immensamente; che sollievo indicibile se succedesse davvero. Non riesco a tollerare l’idea che tu non stia bene, che sia bastato solo un momento, un attimo di distrazione, una svista da parte mia.
Perché qualunque cosa provi a dire a me stessa adesso, sono sicura, sono sicurissima che avrei potuto impedire tutto questo se solo fossi stata abbastanza forte.
Se solo fossi stata diversa.
Capitolo uno
Tessa
Sei settimane prima
«Siamo quasi arrivati».
Allungo il collo per guardarmi intorno e stacco lo sguardo dalla strada tortuosa un istante, per rivolgere a Ben e Katherine un sorriso di incoraggiamento, o almeno spero. Ben non mi sta neppure guardando, perché tiene gli occhi incollati al suo tablet Kindle Fire, come sempre; e Katherine fissa fuori dal finestrino, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno a un dito. Mi sembrano entrambi già annoiati, e le nostre vacanze estive sono appena cominciate.
Mi riconcentro sulla strada; non so se la morsa allo stomaco sia scatenata dall’emozione o dal terrore. Lo sto facendo. Lo sto facendo davvero. Tre mesi lontano dalla città, lontano da Kyle, lontano da una vita che alla fine è diventata insopportabile. Tre mesi da sola con i miei figli, immersi nella natura del Nord dello Stato di New York, per ristabilire un rapporto con i miei bambini e con me stessa, o qualsiasi strategia di mindfulness lo scorso marzo mi abbia fatto pensare che questa fosse una buona idea. Ed è una buona idea. Deve esserlo, perché è l’unica che mi è rimasta.
È più di un’ora che sto guidando: prima abbiamo fatto un pezzo in treno da New York a Syracuse, dove abbiamo preso l’auto a noleggio per l’estate, e ora stiamo percorrendo strade di campagna serpeggianti, campi ondulati e boschetti – cosa sono questi alberi? Querce? Aceri? – e ogni tanto si materializza qualche costruzione sporadica: granai bassi e lunghi, simili a capanni, in cui si vendono pezzi di trattori o motoscafi o mangime per animali.
I graziosi negozietti d’antiquariato e le aziende vinicole locali che ho sognato a occhi aperti non si sono ancora visti, ma sono sicura che compariranno presto. In fin dei conti, questa è la regione dei Finger Lakes, chiamati così perché i laghi hanno una forma allungata e ricordano le dita di una mano; una zona d’attrazione turistica, anche se molti newyorchesi probabilmente la considerano al pari dell’Antartide.
Di colpo, Ken lancia il tablet contro il sedile e Katherine si lascia sfuggire un’esclamazione irritata. «Ahi», si lamenta quando le colpisce una gamba; poi Ben si schiaccia contro il finestrino. «Mamma, c’è un campo da paintball laggiù. Possiamo andarci? Per favore? Adesso?».
Immagino mio figlio di nove anni che mi spara addosso le palline di vernice vegetale col fucile ad aria compressa e gli manifesto il mio disinteresse. «Non ora, Ben, siamo quasi arrivati. Magari più tardi. Vedremo».
Ben protesta a gran voce e comincia a scalciare contro il mio sedile. Katherine gli rilancia addosso il Kindle e cominciano a bisticciare; prima che io riesca a dire: “Ehi, ora basta”, Katherine è già in lacrime e Ben ha ripreso a giocare col tablet. Se non fossi al volante chiuderei gli occhi. “Quest’estate andrà tutto bene”, ricordo a me stessa. “Davvero. Deve andare bene per forza”.
È come se gli alberi su ciascun lato della strada si stringessero contro l’auto mentre procediamo lentamente: dopo aver passato gli ultimi vent’anni a New York, non sono più abituata a guidare e forse sono un po’ troppo prudente. Almeno una dozzina di pick-up e SUV mi hanno superato, due autisti mi hanno mostrato il dito, ma non importa. Arriveremo.
E poi, cosa?
Non riesco proprio a immaginare che piega prenderanno gli eventi, ma farò funzionare tutto. L’unica cosa certa è che non potevo più tollerare anche solo un altro giorno a Brooklyn, dove mi sento una specie di fantasma nella mia stessa vita, con tutti che mi stanno addosso, impedendomi di respirare: Katherine e la sua timidezza scontrosa, la vivacità esuberante di Ben, i silenzi pesanti di Kyle, la tensione che riveste ogni cosa con la sua coltre spessa e dannosa. A volte sorprendo Kyle a guardarmi con gli occhi ridotti a due fessure, le labbra strette, e sento il gelo penetrarmi fin nelle ossa. Cos’è successo, cosa l’ha spinto a guardarmi in quel modo? A guardare me, sua moglie, così?
Almeno qui non ci saranno insegnanti accigliati a mettere le note sul registro a Ben perché si è comportato male. E, probabilmente, nemmeno compleanni ai quali Katherine sarà l’unica della classe a non essere stata invitata. Non ci saranno madri compiaciute nel parco giochi della scuola, che alzano furtivamente gli occhi al cielo, convinte che non me ne accorga.
E non ci sarà Kyle. E questo mi dà un gran sollievo. Non ci saranno sguardi accusatori, sospiri soffocati, tensioni infinite che mi lasciano con la sensazione di fare continuamente qualcosa di sbagliato, anche se non so che cosa e ho paura a chiederlo.
La fuga mi è sembrata la soluzione migliore, l’unica soluzione. Così sono andata su internet e ho affittato il primo posto che mi potevo permettere per l’estate intera, Pine Cottage, sulle sponde di uno dei Finger Lakes, tre mesi lontano da Brooklyn, dalla scuola dei miei figli… e da mio marito.
Volevo un posto in cui poter mettere via telefoni e simili, in cui liberarmi di preoccupazioni e paure, un posto in cui poterci ritrovare tra i barbecue e le nuotate a tarda sera e… altra roba divertente. Nella mia testa, era un miraggio sfocato di felicità per noi tre: Kyle non c’era mai in queste mie fantasie. Ora che ci stiamo avvicinando alla nostra destinazione estiva, tuttavia, non sono sicura di come sarà la realtà o, cosa ancora più importante, di come farla accadere.
In effetti, è stato così sin da quando ho perso mia madre, come se la sua morte mi avesse lasciato alla deriva, e io sono qui che cerco un appiglio per ancorarmi alla realtà, per ristabilire un contatto profondo con i miei figli, che mi sembrano distanti a volte, così da sembrare irraggiungibili. Se mia madre fosse viva mi mostrerebbe come fare, ne sono sicura. Si farebbe una bella risata, mi stringerebbe forte e mi direbbe di non preoccuparmi. Poi mi racconterebbe episodi della mia infanzia per ricordarmi quanto io stessa fossi lunatica e impossibile a undici anni, e a quanti compleanni non venivo invitata. Episodi che ho dimenticato, perché non c’è più lei a raccontarmeli per radicarmi nel mio passato: solo così potrei aiutare Katherine col suo presente.
«Quando arriviamo?», mi chiede Ben mentre sferra un altro calcio al retro del mio sedile, e io mi lascio sfuggire un «uff».
«Presto». La mia risposta dev’essere la parolina magica: all’improvviso la foresta fitta scompare, sbuchiamo su una strada ampia e veniamo accolti dalla distesa infinita e scintillante del lago. Quasi fermo la macchina per ammirare la vista magnifica, l’azzurro sconfinato sopra e sotto, il sole che brilla su ogni cosa, il mondo che luccica di promesse; la cartolina perfetta di come dovrebbe essere la vita. Né Ben né Katherine ne sono particolarmente colpiti, così riprendo a guidare.
Proseguo lungo la strada stretta che abbraccia il lago, supero diverse capanne di tronchi, favolose, e case sul lago a tre piani con i moli e i trampolini privati; case enormi e vivaci, con verande amichevoli, dove sono esposte bandiere americane e sull’erba vellutata sono sparse sedie da giardino Adirondack; sembrano tutti edifici di un servizio fotografico per Eddie Bauer o Abercrombie & Fitch.
Come una sciocca immagino sia il genere di posto che abbiamo affittato noi, anche se ho visto la foto e letto la descrizione online, tre mesi fa, e so che la nostra piccola casa in affitto non c’entra niente con queste ville da sogno.
Abbiamo preso un villino a un piano solo con due camere da letto e una vista sul lago di appena sette metri; una cucina e un bagno verde avocado degli anni Settanta e un portico chiuso con un paio di vecchie sedie di vimini. Era ciò che potevamo permetterci, e a stento, ma almeno sarà tutto nostro.
Kyle ha borbottato che era uno spreco di denaro e che non dovevamo andarci, poi mi ha rivolto uno sguardo cupo che non sono stata in grado di interpretare, né mi sono sforzata di farlo. Sono contenta di allontanarmi da lui per un po’: però rendermene conto, ora che siamo qui, all’improvviso mi angoscia. Sto davvero facendo la cosa giusta a lasciare mio marito per quasi tre mesi? Abbandonando la mia vita?
«Qual è la nostra?», chiede Katherine mentre superiamo una villa a tre piani rivestita di scandole in legno marrone, completa di una torretta stile Raperonzolo. La morsa allo stomaco si fa un po’ più serrata. Come faremo a non restare delusi dalla nostra sciatta realtà, con tutti questi splendidi colossi che ci circondano? Ma non è così che voglio cominciare la nostra estate, con il disincanto invece della speranza. Ne ho già avuto abbastanza.
«Vediamo…», dico sbirciando le insegne conficcate nel terreno davanti a diversi villini, con scritte gioiose e piene di ghirigori, come se ognuna fosse l’ingresso a una fiaba personale. Ten Maples… Cove View… Twilight Shores… «Ah, eccola qua. Pine Cottage».
I miei figli ammutoliscono mentre accosto sul sentiero infangato che funge da vialetto d’ingresso. Pine Cottage, ovvero il villino dei pini, se ne sta rannicchiato sulla riva del lago come se si vergognasse di sé stesso, e forse dovrebbe, considerati gli edifici vicini. Dipinto di uno scialbo verde oliva, che si sta scrostando in vari punti, il villino è accovacciato nell’ombra imponente di un’immensa e favolosa casa sul lago, interamente rivestita di scandole blu, con una solida veranda in legno che si allunga su oltre un centinaio di metri di lungolago e una finestra panoramica a tre piani affacciata sull’acqua scintillante.
Dall’altro lato del nostro villino, poco più lontano, c’è una villa moderna in stucco bianco con tre terrazze diverse e un pontile che si estende fino al lago, e una barca a motore rosso fiammante ormeggiata all’estremità. Come ha fatto il nostro povero e patetico villino a sopravvivere alla comparsa di questi appariscenti ultimi arrivati? Provo un impeto d’affetto nei confronti di questa casetta, semplicemente per il fatto di esistere e di aggrapparsi alla speranza, a un sottilissimo filo di speranza. Un po’ come me.
«Allora, entriamo?», chiedo tutta allegra.