Dalle mie, no. Difficile incrociare banchi di ostriche in questa sovraffollata cittadina del New Jersey. Immagino che non se ne trovino molti neppure in Afghanistan, visto che non ha sbocchi sul mare.
In compenso, qui dove abito io di ghiaietto ce n’è a palate, grazie al cemento che si sgretola dal camino e dal cornicione del palazzo, perciò gli uccelli sul nostro tetto stanno alla grande. Io mi occupo dell’acqua fresca: gliela porto e la cambio ogni due giorni. A volte ci pensa la pioggia al posto mio.
Alzo lo sguardo. Un aereo si è lasciato dietro un esile filo di cotone bianco. Dovete sapere che a mia mamma è sempre piaciuto sfidarmi a risolvere gli indovinelli su cui si cimentava lei da bambina, in Afghanistan. Tanti piccoli misteri che io mi diverto a svelare. Chiudo gli occhi e me ne torna in mente uno.
Cosa perlustra i cieli senza neppure lasciare la propria dimora?
Avevo capito la risposta più in fretta di quanto si fosse aspettata.
Lo sguardo, ricordo di aver detto.
Ma torniamo a noi. Non dovrei trovarmi qui. Sul tetto, intendo. Proprio no. Mia madre non sarebbe per niente contenta se sapesse che vengo quassù quasi ogni giorno per addestrare piccioni. Il nostro palazzo è vecchio, e qua e là il tetto ha dei punti un po’ instabili. Oltretutto non ci sono ringhiere o parapetti o simili, e quindi devo stare molto attento a rimanere lontano dai bordi. Però, se lo conosci, è sicuro, e io lo conosco come le mie tasche. Ci salgo ormai da quasi un anno, vale a dire da quando mamma mi ha raccontato quello che facevano alcuni suoi vicini in Afghanistan, secoli prima che si trasferisse in New Jersey.
«Lascialo in pace, Billy!» Dei nove piccioni che vivono sul nostro tetto, Billy è il peggiore, sempre a spintonare i compagni per accaparrarsi lui tutto il cibo, come se ne avesse più diritto di loro. Non è proprio niente di speciale, e invece si crede chissà chi. Tra gli altri ce n’è uno che si nota perché è più marroncino che grigio. Secondo me è il più vecchio (o vecchia) di tutti. Ha una cicatrice su un lato della testa e si muove lentamente. Gli altri in genere danno poca confidenza. C’è voluto un pezzo perché la smettessero di volare subito via non appena mi vedevano sbucare dalla botola che porta sul tetto, ma ora finalmente mi si radunano intorno, perché sanno che sono lì per dargli cose buone da mangiare.
Poi se ne vanno, però tornano sempre. Non sono ancora riuscito a fargli eseguire nessuno dei numeri che insegnano gli addestratori afghani, ma ci sto lavorando. Mamma mi ha raccontato che il suo vicino riusciva a fargli fare un giro intero tipo cerchio della morte, e pure a farli volare a pancia in su. Percorrevano chilometri e chilometri per consegnare messaggi segreti che venivano legati alle zampe, ma tornavano sempre a casa. I miei piccioni non si sognano neanche di compiere imprese del genere, ma non vedo perché non dovrebbero riuscirci un giorno, se tanti loro fratelli afghani hanno imparato.
Sto giusto per sparpagliare dei bei bocconi di pane imburrato quando una voce mi gela sul posto.
«Cosa ci fai qui sopra?»
Lasciando cadere il sacchetto, mi giro di colpo.
Dalla botola sbuca la testa della signora Raz, nostra padrona di casa nonché vicina.
«Ecco, stavo solo…»
La signora Raz non è certo la classica nonnina. Non sferruzza né guarda i giochi a premi in televisione né si lamenta del mal di schiena. Non la vedo mai arrivare, e tanto meno la sento, eppure me la ritrovo sempre intorno, diffidente e scorbutica.
«Scendi immediatamente! Non dovresti stare qui!»
Neanche lei, in verità, a meno che non voglia una protesi pure all’altra anca.
«Mi scusi, signora Raz» mormoro mentre faccio in modo di sottrarre la ciotola d’acqua e il riso al suo sguardo strabico.
Quando scendo dalla scaletta della botola, la trovo lì ad aspettarmi. Mi si mette alle calcagna mentre mi avvio, spalle basse, all’appartamento in cui viviamo io e mia madre, al terzo piano. Qui ogni piano è costituito da un appartamento, le finestre danno sulla strada oppure sul parcheggio dell’alimentari che sta qui dietro. Il tetto è l’unico posto da cui si riesce ad allungare lo sguardo su tutta Elkton. Da lì vedo la mia scuola a est e la stazione ferroviaria a sud, la strada che porta alla lavanderia a gettoni e il parchetto dove mi sono fratturato un braccio arrampicandomi sul castello di tubi.
Mamma è in casa, mi aspetta. Ci rimarrà proprio male per quel che ho combinato. «Signora Raz…» dico, cercando una via d’uscita. È ottobre, tra un paio di mesi sarà inverno. Potrei offrirmi di spalare di nuovo la neve dal marciapiede e dalla scala esterna del palazzo.
«Non ci provare neanche! Apri quella porta, così racconto a tua madre dove ti ho trovato.» Tiene gli occhiali al collo, dondolano appesi a una sottile catenella. Mi sta fissando, aspetta che mi muova. Le tavole dell’assito scricchiolano mentre sposto il peso da un piede all’altro, prendendo tempo.
In quell’istante si sente la voce di mamma. «Shah-jan, sei tu? Spicciati, dai, così possiamo tagliare la tua bellissima torta!»
Ma certo, la torta! Non è male come idea. Perché funzioni, però, bisogna sperare che la signora Raz abbia un cuore.
«Signora Raz, mamma mi sta aspettando. Oggi è il suo compleanno, sa? Ho risparmiato un po’ di soldi e le ho comprato una torta al cioccolato. Ne gradirebbe una fetta anche lei?»
La padrona di casa si mette a braccia conserte e bofonchia qualcosa sul fatto che deve riportare dentro le piante dal balcone.
«Ma se ti ripesco là sopra, vi sbatto fuori in men che non si dica!»
Annuisco tutto serio e aspetto che sparisca prima di aprire la porta. Non voglio che mamma la veda alle mie spalle e capisca che ho fatto una deviazione mentre andavo a recuperare la posta.
«Salaam, Madar!» Mia madre è nella nostra piccola cucina, mi volta le spalle. Vedo i suoi jeans azzurro chiaro, la coda di cavallo increspata dall’umidità della lavanderia a gettoni in cui lavora. In sottofondo trasmettono il notiziario. Mamma vive con il canale delle notizie perennemente acceso, come se ne stesse aspettando una in particolare.
Sinossi:
«I romanzi di Nadia Hashimi sono uno specchio della gloriosa ed enigmatica bellezza dell’Afghanistan di oggi e delle sue battaglie.» KHALED HOSSEINI, autore de Il cacciatore di aquiloni, su Due splendidi destini
Hai dodici anni e sei nato in America. Tua madre è afghana e tutto ciò che sai di tuo padre è che una guerra stupida l’ha ucciso. Poi un giorno arriva la polizia, e vedi tua madre presa di forza e portata via, perché immigrata clandestina. La sua presenza è “illegale” nel paese dove tu sei nato, cresciuto, l’unico paese che puoi chiamare “casa”.
Comincia così la fuga di Jason, improvvisamente straniero a casa propria, per sfuggire alla polizia che ha preso sua madre, e per raggiungere New York, dove una zia è tutto ciò che gli resta della famiglia che credeva di avere.
Una vera e propria avventura, per un ragazzino, nella giungla di una città che si rivela molto più amichevole del previsto. Soprattutto grazie a Max: conosciuta per caso in una corsia d’ospedale, dove Jason finisce per uno svenimento, Max è una ragazzina molto speciale, pronta ad aiutarlo e a dargli saggi consigli.
Tra incontri bizzarri, nuove amicizie, paura e speranza, Jason riuscirà a ricongiungersi con la zia, e soprattutto a rivedere sua madre e a compiere quella che ormai è la sua missione: ricominciare daccapo, in America, con lei, che nel frattempo ha chiesto asilo politico. Perché nessuna legge può avere il potere di distruggere una famiglia.
Dall’autrice dei bestseller internazionali Due splendidi destini, Quando la notte è più luminosa e La casa senza finestre, amata anche da Khaled Hosseini, un libro urgente, vero, che affronta uno dei temi più tragici e spinosi del nostro tempo con una scrittura cristallina ed emozionante.