Buongiorno lettrici, per chi come me ama leggere i romanzi che parlano di donne coraggiose, ecco il romanzo che fa per voi.
L’ otto Aprile 2019 in tutte le librerie sarà disponibile il sequel “E’ tempo di ricominciare”.
Buona lettura!
Marzo 1919
Henny tese l’orecchio. Le sembrava di aver sentito salire dal cortile, fino al secondo piano, un suono venuto dal passato, come un rintocco di campana o il verso di un merlo. Le vennero in mente i sabati della sua infanzia. Sabati estivi. L’acqua che scintillava nella cisterna. Il ribes bianco che le lasciavano cogliere dai rovi addossati al muro di cinta, il profumo della torta che sua madre aveva già messo in forno per la domenica. Suo padre, appena tornato dall’ufficio, che fischiettava mentre si liberava della cravatta e si sbottonava il colletto della camicia.
Henny andò alla finestra, l’aprì e stette ad ascoltare il suono che aveva risvegliato in lei quella serie di immagini. Il cigolio della vecchia altalena.
L’estate era ancora lontana. Il bambino sull’altalena di sotto portava ghette spesse e ruvide e una corta mantellina, il cielo sopra di lui era grigio e i cespugli ancora spogli. Però si vedevano già gli amenti sui rami del salice e le campanelle al margine del prato, e anche la luce sembrava dare un poco di speranza in più rispetto ai giorni passati. I mesi più duri dell’inverno erano alle spalle, così come gli anni bui della guerra.
«Sei ancora in camicia da notte e te ne stai lì al freddo». Henny si voltò verso sua madre, che era appena entrata in cucina e ora la raggiungeva alla finestra. «Non sono nemmeno le otto e quella già manda il figlio in cortile». Else Godhusen scosse la testa. «E tu muoviti, forza. Ho ancora un po’ d’acqua calda nel bollitore. Te la verso nel catino».
Il bambino, sceso dall’altalena, era scomparso dalla vista. Doveva essere entrato in casa passando per la cantina. Il cigolio seguitò per diversi secondi. Henny voltò le spalle alla finestra e si avvicinò al lavello, aprì il rubinetto dell’acqua fredda, ne versò un po’ nel catino smaltato che già scottava e poi tirò la tenda di robusto cotone bianco, il cui orlo ricamato finiva a un dito dal pavimento di linoleum. Gli anelli scivolarono lungo il bastone di ferro e la tela di cotone si aprì come un séparé in mezzo alla cucina.
Il bastone lo aveva installato suo padre poco dopo il dodicesimo compleanno di Henny. «Guardala, come s’è fatta grande», aveva detto quella volta Heinrich Godhusen. «Da un giorno all’altro la vedremo che fa il bucato in piedi davanti all’acquaio». Ora Henny, di anni, ne aveva appena compiuti diciannove e suo padre era morto da un pezzo. Caduto nella Grande Guerra.
Si sfilò la camicia da notte e prese il sapone al profumo di violetta dalla scodella in cui era riposto. Non un ruvido pezzo di sapone rimacinato con la polvere di mattoni o con quel che si trovava. Immerse per qualche istante la preziosa saponetta e se la lasciò scivolare di mano in mano con devozione, finché non ne uscì un po’ di schiuma. Poi cominciò a lavarsi da capo a piedi.
«Il profumo si spande per tutta la cucina», osservò sua madre raggiante di orgoglio. La saponetta era il suo regalo di compleanno, insieme a una valigetta da ostetrica usata ma ben tenuta. Else Godhusen aveva sacrificato una discreta quantità di margarina per far risplendere a dovere il cuoio scuro. «La nostra futura ostetrica!», aveva esclamato. «Meglio ancora che infermiera. Quanto sarebbe stato orgoglioso tuo padre!».
Madre e figlia avevano fatto tutto il possibile per dissuaderlo da un precipitoso arruolamento volontario alla rispettabile età di trentotto anni.
«Non fare l’eroe», gli aveva detto Else. Ma Heinrich Godhusen era stato preda facile dell’ebbrezza patriottica dell’agosto del 1914. Era partito sventolando il cappello. Non un cappello rigido, ma una paglietta, che agitava allegramente al vento. Viva la Germania! Viva il Kaiser!La banda suonava, dalle canne dei fucili spuntavano fiori.
Trascinato in guerra, ucciso, sepolto in una fossa comune. Il secondo reggimento della milizia territoriale era stato schierato subito sul fronte orientale. «La guerra è l’inferno», aveva scritto Heinrich a Else. Ma Henny non ne sapeva niente.
«Käthe mi è parsa un po’ invidiosa della tua valigetta», disse Else Godhusen. «Chissà con che borsaccia si è presentata alla Finkenau! Strano che l’abbiano presa, tra l’altro. Spesso è così sciatta. Ho fatto caso che le sue unghie non erano proprio pulite…».
«Smettila, mamma», l’ammonì Henny da dietro la tenda.
La sua più cara amica d’infanzia aveva esitato a lungo prima di fare domanda per un posto da apprendista. Ostetrica alla Finkenau! La clinica che negli ultimi cinque anni era diventata una delle più rinomate della regione sembrava una mira troppo ambiziosa per Käthe, una modesta assistente sociale.
«Käthe la conosci da quando aveva sei anni, eppure a volte ho la sensazione che non la sopporti». Prese la camicia che aveva appeso al bastone della tenda.
«Puoi anche uscire nuda. Non ti vergognerai mica di fronte a tua madre! E in cucina c’è caldo».
Henny tirò la tenda da una parte e ne uscì in maniche di camicia. «Hai sentito o no, cos’ho detto?».
«Non ho forse preso dalla cantina l’ultima bottiglia di vino di tuo padre, per berla insieme a te e a Käthe?».
«Ma lei non ti piace, vero?».
La madre di Henny si prese del tempo per rispondere. «Ma sì, sì che mi piace Käthe», concesse alla fine. «È solo che la migliore sei tu».
«Tua madre mira in alto», aveva detto Käthe la sera prima, mentre lei e Henny si salutavano sulla porta. «E non farmi dire niente delle sue idee politiche…».
All’inizio era stato un compleanno lieto. Avevano vuotato una bottiglia di Oppenheimer Krötenbrunnen del 1912 e bevuto anche dello spumante, vecchio e torbido. Avevano levato i calici alla salute di Henny e di suo padre, che riposasse in pace, poi avevano brindato anche alle due future ostetriche. Avevano mangiato panini con cipolle a fette e cetriolini sott’aceto, l’ultimo barattolo scovato da Else in una credenza piena di contenitori vuoti.
«Una volta io e Heinrich abbiamo ordinato del brodo con vere foglie d’oro», aveva ricordato con aria sognante. «In una di quelle trattorie di Colonia dove si mangiano ostriche. A tuo padre le ostriche non piacevano. Sapevano troppo di pesce, diceva».
«Al Reichshof hanno dei pasticcini francesi con la glassa rosa e le mandorle zuccherate. Sono tutti luccicanti. Purché non abbiano il marchio di fabbrica».
«Hai sempre avuto un debole per i dolci», aveva detto in tono blandamente severo la madre di Henny, che avrebbe preferito indugiare ancora un po’ nei bei ricordi di prima della guerra. «È incredibile che si trovino ancora i petit four. Solo ieri eravamo in guerra contro i francesi… e tu come ci sei capitata, esattamente, al Reichshof?».
«C’è sempre la torta marmorizzata, però», s’era affrettata a dire Henny per portare il discorso in una zona meno pericolosa.
«Ma è piccola. Gli ingredienti non bastavano per farne una grande. Basta appena a stuzzicare l’appetito a Käthe».
«Non ne parliamo», aveva replicato Käthe. «Perché farsi del male?».
Forse il vino le aveva dato alla testa. Henny era disposta a imputare a ciò il fatto che a un certo punto sua madre si fosse messa a cantare il Rheinlied: «Nonprenderanno il Reno, fiume libero di Germania anche sestrillano come corvi avidi».
«La guerra è stata un crimine!», era scattata Käthe al secondo verso. «Un crimine contro tutti i popoli. E il Kaiser è un farabutto!».
«Ma è stato anche un atto di grande coraggio! I tuoi discorsi comunisti valli a fare fuori da casa mia, Käthe!».
Ormai la serata era rovinata.
Mentre Käthe tornava all’appartamento di Humboldtstraße, appena dietro l’angolo, dove viveva coi suoi genitori, figlia unica dopo la morte dei fratelli, Henny si era concessa di sognare una stanza tutta sua. Una stanza alla quale sua madre non avesse accesso.
Lei e Käthe erano cresciute così, facendo su e giù fra le rispettive case. I genitori di Henny si erano trasferiti in quella parte del quartiere, verso Brambeck, poco dopo l’inizio delle elementari. Henny l’aveva notata subito, nel tragitto da casa a scuola, la ragazzina con le trecce nere e il grembiule allacciato di sghembo. Così come Henny, Käthe aveva in mano una bustina di zucchero. Dalle loro cartelle pendevano due stracci, per pulire la lavagna. Gli stracci e le trecce, bionde e brune, si agitavano al vento. Il cielo prometteva pioggia.
«Ma guardati! Non ti sei allacciata bene il grembiule», la sgridava spesso Else Godhusen. Già allora aveva quello sguardo severo, quel tono ostile, quando si rivolgeva agli altri.
Anche la sera prima Else aveva cantato tre strofe di quel canto patriottico che Henny detestava, e il cui ultimo verso le era tornato in mente subito al risveglio.
«Fino a quando la piena seppellirà le ossadell’ultimo uomo…».
L’aveva tormentata finché non era stata rimpiazzata definitivamente dal cigolio dell’altalena.
Henny si mise il tailleur di pettinato grigio chiaro, che Else le aveva ricavato da un completo del padre, con la camicetta bianca a pieghe, infilò i piedi negli stivaletti e se li allacciò.
«Fatti bella e divertiti», le disse Else. «Ma devi essere qui per mezzogiorno, intesi?».
Henny le baciò distrattamente la guancia e si chiuse la porta alle spalle. Arrivata in strada, si fermò un attimo a fare un cenno di saluto alla madre che, come di consueto, si era affacciata alla finestra. Poi si chinò per riallacciarsi uno stivaletto.
Nella vetrina di Salamander aveva visto delle décolleté. Morbida pelle scamosciata. Non vedeva l’ora di cominciare il tirocinio alla Finkenau. Iniziare con leggerezza una nuova vita. Lontano da Else.
«Si comincia!», aveva esclamato la sera prima Käthe col pugno levato, mentre Henny, in piedi sull’uscio, la guardava andare via. Da bambine avevano appurato che potevano volerci da sei a otto salti per andare dalla casa di Henny all’angolo della Schubertstraße a quella di Käthe sulla Humboldt, proprio lì di fronte. Quella che faceva i salti più lunghi era Käthe.
Una stanza tutta sua. Una porta che si chiudesse. Col suo stipendio da infermiera avrebbe potuto permetterselo. Ma Else non aveva voluto saperne, e perfino il trasloco dalla camera dei genitori, dove dall’inizio della guerra Henny dormiva sul lato paterno del letto, invece che nel lettino a ribalta che usava prima, aveva richiesto una discreta prova di forza.
Henny aveva espugnato il piccolo salotto, che attendeva pulitissimo occasioni più degne, e si era preparata il letto sulla chaise-longue, finché sua madre, datasi per vinta, non le aveva tirato giù dalla soffitta la vecchia brandina. Da allora la chiave della stanza non s’era più trovata.
Quella mattina, mentre ascoltava con attenzione il cigolio dell’altalena, le era tornato alla mente un altro ricordo. Il bombo morto che aveva trovato un giorno in cortile. La piccola Henny era sconvolta dal fatto che anche in estate i bombi potessero morire. Suo padre lo aveva racchiuso nella sua grossa mano, poi erano andati in mezzo al campo per dargli sepoltura.
Il dolce padre, che era stato poi risucchiato in quella guerra assurda. «Forte rocca è il nostro Dio», canticchiava radendosi davanti allo specchio quell’ultima mattina che si era svegliato nel suo letto. Heinrich Godhusen mancava molto a sua figlia.
«Dovrai lavarti per bene le mani adesso che vai a imparare il mestiere di ostetrica», disse Karl Laboe rivolto alla schiena di sua figlia.
«Ricevuto», gli disse lei. «Mani pulite». Raccolse dell’acqua nelle mani e si lavò la faccia. Tutto il resto lo avrebbe fatto dopo, una volta che il vecchio si fosse allontanato.
«Sembri un gatto che si lava».
«Preferisco andare in un bagno pubblico, piuttosto che avere addosso le tue occhiate lascive».
«Non essere impertinente, Käthe. Dormi sempre sotto il mio tetto e sarà così ancora per un bel pezzo, almeno finché non finisci il tirocinio». Karl Laboe poggiò le mani sul tavolino e si alzò dal divano. Aveva una gamba rigida da quell’incidente al cantiere navale. Certo, la zoppia lo aveva salvato dal fronte, ma anche in patria la vita non era stata certo una passeggiata. Gran penuria di cibo e quelle due sempre sul groppone.
«Tua madre arriva dopo. Fa le pulizie in una casa nuova. Gente piena di soldi, sulla Fährstraße. Tua madre gli lava i pavimenti».
«Lo so. Allora, te ne vai?».
«Piano, non ho mica le ali ai piedi», disse Karl Laboe prendendo il bastone che era appoggiato al tavolo.
Sentendo finalmente la porta di casa chiudersi, Käthe lasciò andare un gran sospiro. Se fosse andata a lavorare in fabbrica, avrebbe cominciato a guadagnare subito e si sarebbe potuta permettere una casa sua. Adesso invece l’aspettavano due interminabili anni di apprendistato. Ma va bene così, si disse. Aveva ragione Henny: aveva diciannove anni, era il momento di coltivare delle ambizioni. Suo padre non sembrava d’accordo e lei non capiva perché: era l’unica figlia che gli fosse rimasta.
Si tolse la sottana e ricominciò a lavarsi. L’acqua nel catino era fredda da un pezzo e il sapone era ruvido, le sembrava di rigirarsi tra le mani un pezzo di pietra pomice.
«È bello che tu voglia fare qualcosa», le aveva detto Rudi, il ragazzo che aveva conosciuto da poco, apprendista tipografo all’«Hamburger Echo». Neanche un anno meno di lei. Le leggeva sempre le sue poesie. Be’, non proprio sempre. Però negli ultimi due mesi a partire da gennaio ce ne erano state almeno quattro. Probabile che quel giorno gliene leggesse un’altra, mentre Käthe mangiava un pasticcino nel caffè del Reichshof. Non gli aveva ancora chiesto dove prendesse i soldi per concedersi certi lussi.
Lina prese dall’armadio il grosso telo di lino con su ricamate le iniziali della madre. Uno dei pochi oggetti di buona fattura che si erano salvati dalle grinfie del mercato nero. Peccato che la rinuncia a gran parte dei loro beni non fosse bastata a salvare tutti e quattro i membri della sua famiglia dalla fame durante l’inverno delle rape, tra il 1916 e il 1917. Il padre era morto due giorni prima di Natale e sua madre lo aveva seguito il gennaio successivo. Come causa della morte di entrambi il medico aveva scritto «insufficienza cardiaca», ma sapevano tutti cos’era stato a ucciderli. Ricordava bene la disperazione di Lud, che allora aveva solo quindici anni, e la consapevolezza, che solo per i primi tempi erano riusciti a rimuovere, che i genitori erano morti per assicurare loro la sopravvivenza.
I Peters avevano aspettato a lungo prima di avere dei figli, e avevano più di quarant’anni quando era nata Lina, nel 1899, e poi Lud due anni dopo. Amavano Karoline e Ludwig sopra ogni cosa e per loro si erano sacrificati. Era un pensiero intollerabile. Lud ne soffriva ancora molto più di lei.
Lina si scosse, come se fosse possibile liberarsi di certi pensieri, e aprì la porta della stanzetta adiacente alla
cucina dove suo fratello aveva installato una doccia. Era bravo, Lud. Forse avrebbe fatto meglio a imparare un lavoro da artigiano invece di fare l’apprendista in un negozio. Voleva diventare un commerciante, perché era stato il lavoro di suo padre. Tanta fatica per onorare un ricordo. A che scopo? Erano solo relitti di un tempo passato.
Si spogliò, poggiò i vestiti sullo sgabello e si mise sotto il getto. All’inizio non scendeva che qualche goccia. Lud aveva usato la tubatura della cucina, in quello sgabuzzino che un tempo fungeva da dispensa. Non era l’ideale, ma era sempre meglio che lavarsi sopra e sotto nel lavandino, e comunque di provviste da mettere in dispensa non ne avevano più da un pezzo. Il cibo che riuscivano a procurarsi stava comodamente nella credenza in cucina e sul davanzale della finestra
La saponetta era ruvida, e dovette far scorrere molta acqua. Lina si lavò le membra intirizzite e poi si asciugò con vigore fino ad arrossarsi la pelle. Le cadde l’occhio sui vestiti. Che sciocchezza usare un bustino, quando le si potevano contare le costole una a una. Sarebbe bastato il semplice vestito con la cintura stretta in vita.
Nell’estate del secondo anno di guerra il suo insegnante di disegno aveva esortato le allieve a non lasciarsi più torturare da quegli abiti stretti e rigidi, che ostacolavano il passo. Pronunciava l’espressione “stecche di balena” come fosse un’oscenità. Era un seguace di Alfred Lichtwark e del suo metodo pedagogico e Lina, allora sedicenne, si era presa una sonora cotta per il giovane insegnante. Anni dopo era venuta a sapere che era morto in Francia, il Paese dove avrebbe tanto desiderato vivere.
Le era rimasto quest’amore idealizzato per lui nonché la determinazione a sostenere l’esame per diventare anche lei insegnante alle superiori, così da poter contribuire in futuro a trasformare le scuole del suo Paese. Per Lina non era esagerato affermare che anche la vecchia pedagogia aveva la sua parte di colpa in quella guerra terribile. Era stato tirato su un esercito di sudditi.
Gli ultimi mesi di guerra li aveva vissuti nel terrore che Lud fosse richiamato al fronte. Ma suo fratello, già allora apprendista nel reparto commerciale della Nagel & Kaemp, che costruiva gru per cantieri navali, fu risparmiato e non conobbe mai gli orrori della trincea. Lina aveva promesso a sua madre di badare a lui. Almeno questo era riuscita a farlo.
Si vestì e portò in cucina il bustino. Il coltello, sebbene non venisse usato da tempo perché non c’era niente da tagliare, tagliò il tessuto come fosse stato burro. Lina ci provò quasi gusto. Un piccolo omaggio al suo vecchio insegnante.
Trama:
Uno strano destino, quello delle donne nate nel 1900: avrebbero attraversato due guerre mondiali, per due volte avrebbero visto il mondo crollare e rimettersi in piedi, stravolgersi per sempre sotto i loro occhi. Sono proprio loro le protagoniste di questa storia, quattro donne che incontriamo per la prima volta da ragazze, ad Amburgo, alle soglie degli anni Venti. Hanno personalità e provenienze molto diverse: Henny, di buona educazione borghese, vive all’ombra della madre e ama il suo lavoro di ostetrica più di ogni cosa; l’amica di sempre Käthe, di estrazione più modesta, emancipata e comunista convinta, è un’appassionata militante; Ida, rampolla di buona famiglia, ricca e viziata, nasconde un animo ribelle sotto strati di convenzioni; e Lina, indipendente e anticonformista, deve tutto ai suoi genitori, che sono letteralmente morti di fame per garantirle la sopravvivenza. Insieme crescono e vedono il mondo trasformarsi, mentre le loro vicende personali s’intrecciano in una rete intricata di relazioni clandestine, matrimoni d’interesse, battaglie politiche e sfide lavorative, lutti e perdite, eventi grandi e piccoli tenuti insieme dal filo dell’amicizia. Pagine che ci fanno respirare il fascino d’epoca di un mondo che non c’è più: i cocktail al vermut, i cappelli a bustina, gli orologi da tasca e gli sfarzosi locali da ballo, ma anche le case d’appuntamenti, i ristoranti cinesi e le fumerie d’oppio del quartiere di St Pauli. E poi la lenta, inesorabile disgregazione di tutto, la fine di ogni libertà, il controllo sempre più pressante delle SS, la minaccia nazista…
Quattro donne, un secolo di storia: Figlie di una nuova era è il primo capitolo di una nuova, avvincente trilogia tutta al femminile.
«Ci arriva un soffio di malinconia, qualche volta, mentre Carmen Korn racconta dei suoi personaggi e della sua città. Un racconto letterario ampio e accurato sul clima sociale e psicologico di quegli anni… Una saga che pulsa».
«Hamburger Abendblatt»
«Un racconto avvincente sul ventesimo secolo. Il primo libro è un emozionante page-turner da leggere tutto d’un fiato».
«NDR»
«Questo romanzo urla trasposizione cinematografica! Chi ama immergersi nella lettura delle vite di un’altra generazione dovrebbe immediatamente accaparrarsi Figlie di una nuova era».
«Ostfriesen-Zeitung»
«Ci si immerge tanto a fondo nelle vite di Henny e delle sue amiche che alla fine si vuole sapere subito come andrà avanti la storia».
«Hamburger Morgenpost»
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Sequel dall 8 Aprile in tutte le librerie!
È il 1949. La guerra è finita. I nazisti sono stati sconfitti. Come molte altre città, Amburgo è ridotta a un cumulo di macerie e in parecchi si ritrovano senza un tetto sulla testa. Fra questi, Henny, che ha finalmente accettato di sposare Theo e continua a cercare la cara Käthe, che risulta ancora dispersa nonostante l’amica sia sicura di avere incrociato il suo sguardo, la sera di San Silvestro, su quel tram… Nel frattempo, mentre Lina e la sua compagna Louise aprono una libreria in città, Ida si sente delusa dal modesto ménage coniugale con il cinese Tian, pur avendo mandato all’aria il suo precedente matrimonio per stare con lui, e ricorda con nostalgia la sua giovinezza di rampolla di una famiglia altolocata. Sono in molti ad aver perso qualcuno di caro, e sono in molti ad attendere il ritorno di qualcuno, giorno dopo giorno, alla finestra. Ma per i sopravvissuti tornare a casa non è facile, si ha paura di cosa si potrebbe trovare, o non trovare più.
Gli anni passano, i figli delle protagoniste crescono e anche loro hanno delle storie da raccontare. Sullo sfondo, la ripresa dell’economia tedesca e le rivoluzioni sociali che hanno scandito gli anni Cinquanta e Sessanta: lo sbarco sulla Luna, la costruzione del Muro di Berlino, il riarmo e la paura del nucleare, l’arrivo della pillola anticoncezionale, l’irruzione della televisione nella vita quotidiana delle famiglie, l’inizio dei movimenti studenteschi e la musica dei Beatles.
Dopo Figlie di una nuova era, il secondo, attesissimo capitolo di questa fortunata e appassionante trilogia che racconta la vita di quattro amiche nella Germania del Novecento.
«La saga della Korn sa immergerci nella Germania del secolo scorso coi suoi traumi oscuri e le sue zone rimosse…».
Leonetta Bentivoglio, «Robinson – la Repubblica»
«La scrittura di Carmen Korn è fluida, leggera, ma anche attenta a quei particolari che riescono con efficacia a trasmettere il giusto livello di commozione».
Luigi Forte, «TTL – La Stampa»
«Queste quattro donne, diverse tra loro, tessono una trama di grandi sentimenti e forti emozioni che va a incastrarsi perfettamente nel quadro storico e politico degli anni più intensi del Novecento».
Giulia Ciarapica, «Il Messaggero»