Quando sarò grande andiamo via in treno.
Fino a dove si può. Guardare fuori dal finestrino montagne e laghi e città, parlare con gente di paesi stranieri. Stare insieme tutto il tempo. Non arrivare mai.
Legge tre libri alla settimana, spesso quattro, cinque. Le piacerebbe leggere tutto il tempo, seduta a letto sotto la coperta con il caffè, molte sigarette e una camicia da notte calda. Potrebbe fare anche a meno della televisione, non la guardo mai, pensa, ma non andrebbe bene per Jon.
Sterza da un lato per evitare una vecchia signora che barcolla tirandosi dietro un carrello portaspesa sulla strada ghiacciata. È buio, ci sono i muri di neve lungo la strada che fanno ombra, pensa Vibeke. Poi si rende conto che ha dimenticato di accendere i fari e ha guidato per quasi tutta la strada di casa al buio.
Li accende.
Jon prova a non strizzare gli occhi. Non ci riesce. Sono i muscoli attorno agli occhi che hanno i crampi. È in ginocchio sul letto e guarda dalla finestra. Tutto è immobile. Aspetta che Vibeke torni a casa. Prova a tenere gli occhi aperti e rilassati, fissa uno stesso punto fuori dalla finestra. C’è almeno un metro di neve. Giù in fondo, sotto la neve, vivono i topi. Hanno strade e canali. Si cercano, pensa Jon, forse si portano del cibo.
Il rumore della macchina. Quando sta aspettando che arrivi non riesce a farselo tornare in testa. Me lo sono dimenticato, pensa. Ma poi arriva, spesso quando lui ha smesso per un momento di aspettarlo e non ci pensa. Lei arriva e lui riconosce il rumore, lo sente, nella pancia, è la pancia che si ricorda il rumore, non io, pensa, e appena dopo che ha sentito la macchina, la vede, da quell’angolo della finestra, la macchina blu gira la curva dietro il cumulo di neve in fondo alla strada, lei sterza per entrare in casa e sale la piccola rampa verso l’entrata.
Il rumore è forte e si sente benissimo da dentro la stanza prima che lei spenga. Poi lui la sente chiudere la portiera della macchina e aprire il portone d’ingresso, Jon conta i secondi prima che si richiuda.
Gli stessi rumori ogni giorno.
Vibeke spinge i sacchetti nell’ingresso e si china per slacciare gli stivali. Le mani sono gonfie per il freddo, il riscaldamento della macchina è guasto. Una collega che ha accompagnato a casa dopo la spesa la settimana scorsa ha detto che conosceva uno che lo può riparare a poco prezzo. Vibeke sorride quando ci pensa. Non ha tanti soldi e comunque non ha intenzione di usarli per la macchina. Finché cammina a lei va bene.
Tira su la posta dal tavolo sotto lo specchio. Si sente le spalle un po’ rigide, com’è normale dopo un giorno di lavoro, rimane in piedi e scioglie le spalle e allunga il collo prima di piegare la testa
all’indietro e lasciare andare un ah.
Si sta spogliando, pensa lui, la immagina nell’ingresso, davanti allo specchio, che appende il cappotto al gancio e intanto si guarda. È sicuramente stanca, pensa. Apre una scatola di fiammiferi e ne prende due. Si mette un fiammifero in ogni orbita per tenere le palpebre al loro posto e non strizzare gli occhi. Ti passerà quando sarai grande, dice Vibeke quando è di buon umore. I fiammiferi sono come due bastoni, è difficile vedere. Pensa al trenino, non può farne a meno, qualunque cosa stia pensando arriva un treno nei suoi pensieri, inclinato in una curva a sirene spiegate, a tutta velocità. Forse può farle un massaggio alla faccia, pensa, massaggiarle la fronte, le guance, l’hanno imparato a ginnastica, fa bene.
Lei porta i sacchetti in cucina, posa la posta sul tavolo e mette la spesa in frigorifero, qualche libro su uno scaffale. L’ingegnere del dipartimento tecnico, il bruno con gli occhi marroni, era seduto di fronte a lei quando hanno presentato il piano cultura. Il suo primo incarico come nuova consulente culturale. Aveva insistito perché fosse stampato con la copertina a colori, un quadro suggestivo di un artista locale.
È in piedi vicino al banco, beve un bicchiere d’acqua.
È andata benissimo, è venuta della gente dopo a dirle che erano contenti di averla lì. Che c’era una visione, avevano visto nuove possibilità. Occhi marroni le ha sorriso in diversi punti della presentazione, durante il riepilogo ha commentato che era estremamente interessato alla prospettiva di un lavoro comune trasversale.
Si toglie un capello dalla faccia, raccoglie tutti i capelli dietro una spalla e li accarezza, contenta che siano finalmente diventati lunghi.
Jon sente i suoi passi sul pavimento sopra di sé. Vibeke mette sempre le scarpe da casa. Scarpe estive con un piccolo tacco. Jon si leva i fiammiferi. Ne sfrega uno sulla scatola, non soffia, vuol tenerlo finché brucia. Gonna e rossetto, al lavoro. Quando torna a casa si cambia in una tuta grigia con la cerniera al collo. Forse si sta cambiando adesso. È così morbida dentro, vieni a sentire. Gli ha regalato delle pantofole quando sono venuti a stare qui. Le ha portate a casa al ritorno dal lavoro, uno dei primi giorni, in una carta da pacchi a fiori. Gliele ha lanciate perché le prendesse al volo. Pantofole di lana che arrivano fino alle caviglie, con le suole di pelle. Si chiudono con una fibbia di metallo. Se non allaccia la fibbia, le pantofole tintinnano quando cammina.
Vibeke posa il bicchiere sul tavolo. Guarda fuori dalla finestra, è buio. I lampioni sono accesi, illuminano la strada tra le case lungo ogni lato. A nord la strada porta di nuovo alla statale. È una specie di cerchio, pensa lei, si può andare nel centro della città, passare davanti al comune e ai negozi, attraversare l’abitato, girare sulla statale più su, seguirla verso sud e tornare di nuovo in centro. La maggior parte delle case ha le finestre del salotto sulla strada. Dobbiamo fare qualcosa sull’architettura olistica. Intorno da tutti i lati c’è la foresta. Vibeke annota qualche parola su un foglio: Identità, amor proprio. Estetica. Informazione.
Va in salotto. C’è un plaid di lana grigio a cerchi bianchi sul divano, dall’altro lato è bianco a cerchi grigi. Vibeke prende una poltrona e la trascina vicino alla stufa sotto la finestra. Raccoglie un saggio dal tavolino rotondo.
Il libro ha la copertina soft touch, è piacevole da tenere in mano. Lo accarezza con la mano sinistra prima di aprirlo. Legge qualche riga. Poi resta seduta con il libro aperto sulle ginocchia, si appoggia allo schienale, chiude gli occhi. Vede le facce del lavoro, gente che passa dall’ufficio, è stato così bello lì ora. Ripassa mentalmente le situazioni, ripete i propri gesti.
Jon resta sulla porta del salotto e la guarda. Cerca di non strizzare gli occhi. Vuole chiederle qualcosa del compleanno, domani compirà nove anni. Ora pensa che può aspettare, lei dorme. Un libro sulle ginocchia. È abituato a vederla così. Un libro, la luce intensa della lampada. Spesso ha una sigaretta accesa, lui segue con lo sguardo il fumo che si arriccia verso il soffitto. I capelli lunghi e neri di lei sono sparsi sullo schienale, una ciocca esce dal bordo, si muove lentamente. Accarezzami i capelli, Jon.
Lui si gira e va in cucina, prende dei biscotti dallo scaffale. Si mette un biscotto intero in bocca e prova a succhiarlo finché è morbido senza che si rompa.
Torna in camera sua, si siede in ginocchio sul letto. Sistema i biscotti in fila sul davanzale della finestra.
Guarda la neve davanti alla finestra, pensa a tutti i fiocchi che ci vogliono per formare un mucchio di neve. Prova a contare quanti sono. Li hanno fatti a scuola oggi. Cristalli di neve, si chiamano. Non ce ne sono due uguali. Quanti ce ne possono stare in una palla di neve. O sulla finestra, in una piccola macchia di neve.
Vibeke apre gli occhi.
Dalle grandi finestre del salotto vede i fari posteriori rossi di un’auto che sparisce giù per la strada. Passa in rassegna tutti quelli che conosce, se può essere uno di loro. L’ingegnere, pensa, forse lui.
Raddrizza la schiena e guarda l’orologio, poi va in cucina e mette su un po’ d’acqua, taglia una mezza cipolla. Quando l’acqua bolle tira fuori una casseruola da sotto il banco e ci mette le salsicce, apre il frigorifero e ripone il resto della cipolla. Accende la radio. C’è un’intervista, non ascolta cosa dicono. Lo scambio di voci fa una specie di melodia. Toglie un piatto sporco dal tavolo. Ci sono briciole lungo il bordo, sul fondo un resto di latte. Lei ha ancora addosso la gonna corta, è vecchia, ma ondeggia tanto morbidamente attorno alle cosce e al sedere. Le calze fini sono un lusso che si concede. La maggior parte della gente si veste a seconda del tempo che fa. Calzettoni spessi, e anche un altro paio che si tolgono in bagno quando arrivano. La vita è troppo corta, pensa lei, per non essere belli. Meglio avere freddo.
Sciacqua il piatto sotto al rubinetto, gratta con la spazzola per tirare via qualche briciola che è rimasta attaccata. È Jon che mangia quando torna a casa da scuola. Biscotti o cornflakes. Spesso
accende la radio quando mangia, poi si dimentica di spegnerla. Qualche volta lei è arrivata nell’ingresso dopo il lavoro e ha sentito voci basse in cucina, ha pensato che ci fossero delle persone.
L’intervista è finita, danno una canzone e lei sa che il gruppo è conosciuto, sa il nome, ma in questo momento non riesce a ricordarselo. Avrebbe voglia di un buon libro, uno bello spesso, di quelli che sembrano più intensi e più importanti della vita stessa.
Me lo merito, pensa, dopo la fatica al lavoro e tutto.
Jon si siede. Il letto è accanto al calorifero sotto la finestra. Quando Jon si sdraia sente il calore lungo un lato del corpo. Vicino alla testiera del letto c’è uno scaffale dipinto di blu dove sono riposti alcuni oggetti, tra cui foglie, un rotolo di scotch, una torcia da tasca e una pistola ad acqua. Jon preme un pulsante della radio che sta sopra allo scaffale e gira la manopola finché non trova della musica. Cerca di distinguere i diversi strumenti. Chitarre ariose, pensa, perché ha sentito qualcuno che lo diceva. Chitarre ariose.
Si sdraia sul letto e chiude gli occhi. Pensa che quando non pensa a niente dev’essere completamente buio nella testa; come in una grande stanza quando la luce è spenta.
Improvvisamente si ricorda come si chiama il gruppo. Ma certo, pensa. La scena di una festa dopo un’esame: un altro studente, più giovane di lei, con la coda di cavallo, avevano ballato proprio su quella canzone; lui aveva dondolato ritmicamente il bacino contro il sedere di lei in una maniera che a pensarci bene era volgare.
Sorride.
Ha preso una busta di lomper1 da un cassetto e una forchetta per tirare su le salsicce. Si affaccia nell’ingresso e chiama Jon. Trova il sottopentola, lo mette sul tavolo. Ha voglia di accendere una candela, la cerca nel cassetto ma non si è ricordata di comprarla. Jon non viene. Lei lo chiama di nuovo, scende le scale fino alla sua camera.
Lui sta sognando di giocare a basket con i suoi compagni, c’è il sole e fa caldo e lui ha segnato molti canestri, è felice e corre a casa per raccontarlo a Vibeke. Lei esce lentamente dalla cucina. Lui comincia a parlarle, ma lei sorride in un modo così strano che lui si gira per scendere le scale e tornare in camera. Dietro l’angolo delle scale c’è una donna che è identica a Vibeke. Gli sussurra piano come se volesse adescarlo. Quando lui sta per appoggiarsi a lei, una terza donna viene su dalle scale. Forse è lei che è Vibeke. Lui rimane immobile.
Si sveglia perché Vibeke è sulla porta, c’è luce attorno a lei, dice che è pronto da mangiare.
Jon la segue su per le scale, si siedono al tavolo della cucina. Vibeke spegne la radio. Guarda la posta mentre mangiano. Jon vede che sono brochure pubblicitarie di mobilifici e grandi casalinghi. Su un foglio è stampato un titolo: Luna Park. Chiede che cos’altro dice. Vibeke legge ad alta voce che è arrivato un Luna Park al campo sportivo vicino al comune, hanno ufomachines e seggiolini volanti. Il Luna Park non fa per te Jon, dice. Jon chiede se hanno giochi 3D. Vibeke non sa che cosa sono. Astronavi, dice Jon, un gioco elettronico dove ti siedi in una macchina e guidi nello spazio e devi superare degli ostacoli. Vibeke guarda di nuovo il foglio, non trova niente del genere.
Lui la guarda, lei continua a mangiare e sfogliare, lui sente lo scrocchio quando lei morde la pelle rigida della salsiccia.
Jon prende un’altra salsiccia. Gli si accatastano nella pancia come tronchi nel bosco, è sempre possibile infilarcene un’altra.
C’è un sentiero nel bosco, nascosto e segreto.
Trovalo, seguilo, se vuoi essere lieto.
Oltre gli alberi e i fiori e le felci, c’è una vecchia dimora,
dove stanno tre donne, la brutta la bella e la mora.
Aspettano un principe, chissà se verrà,
e cantano un canto di triste beltà.
Com’è lì, chiedeva sempre Vibeke quando la principessa era arrivata a un castello sconosciuto. Racconta, Jon. Ricorda che era seduto sulle sue ginocchia e descriveva grandi stanze vuote con finestre aperte e tende lunghe e leggere. Candele accese e morbidi tappeti. Tu sai come dev’essere, Jon, diceva lei. Mi piacciono tanto le stanze grandi e luminose.
Lui guarda dalla finestra. Nella casa dall’altra parte della strada abita un vecchio. Il suo vialetto d’ingresso non è spalato in tutta la larghezza, perché non ha la macchina. Il vecchio si scava un sentiero nella neve con una pala. Quando deve andare al negozio usa lo slittino. Ci mette molto tempo, Jon l’ha visto fermarsi e sedersi sulla panchina per riposare. Non l’ha visto uscire di casa negli ultimi giorni. Ha fatto sicuramente troppo freddo. Il sentiero non è quasi per niente spalato. La signora del supermercato è venuta con il furgoncino. Ha lasciato il motore acceso mentre caracollava nella neve su fino alla casa. Jon l’ha vista infilare un paio di sacchetti attraverso la porta socchiusa e fare una corsetta per tornare in macchina. Vibeke si guarda la mano quando la allunga per prendere un altro lompe. Le dita sono lunghe, segue il tendine sul dorso con lo sguardo. Il riscaldamento secca la pelle, l’unica cosa che funziona è lo Spenol. E poi le unghie. I capelli. Il freddo li brucia.
La città non è lontana, eppure sembra tanto che non c’è andata. Cerca di ricordarsi quando è stato. Smettila, Jon. Poco più di una settimana. Sabato scorso. La libreria, naturalmente. Lei e Jon hanno mangiato un dolce in un posto per non fumatori. E poi. Che posto, una pasticceria di plastica. In città manca un caffè con un arredamento curato, è come una casa senza un ingresso come si deve. Stai fermo, Jon. È davvero molto tempo che non compro niente da mettermi, pensa. Avrebbe bisogno di un nuovo vestito, se l’è veramente meritato per come ha retto al trasloco. Non puoi smettere di sbattere gli occhi tutto il tempo, Jon, sembri un topo. …
Hanne Ørstavik è nata a Tana, nel nord della Norvegia, nel 1969. Il suo primo romanzo è del 1994 e ha dato inizio a una carriera di scrittrice e intellettuale tra le più interessanti del panorama norvegese ed europeo. Da allora ha pubblicato tredici romanzi, ha vinto numerosi premi ed è stata tradotta in ventisei lingue. Amore, uscito nel 2018 negli Stati Uniti, è stato finalista al National Book Award e ha vinto il Pen Award per il miglior libro in traduzione. Per Ponte alle Grazie ha pubblicato A Bordeaux c’è una grande piazza aperta (2018). Dal 2017 vive a Milano.