Il coraggio e la forza delle donne nel nuovo romanzo dell’autrice “La metà di niente”
Un appuntamento tra due donne in un caffè di Dublino, che segnerà per sempre il loro futuro. Tess non ha idea di chi sia Maeve, questa donna che l’ha cercata dicendole di avere informazioni importanti su uno dei suoi figli, Luke, quello scapestrato, quello che a tutti i costi deve distruggere la serenità dei genitori e del fratello Aengus, spesso costretto suo malgrado a coprirlo. Che cosa avrà fatto questa volta Luke? Ma se veramente Maeve è una sconosciuta, perché Tess ha la vaga impressione di averla già vista? Dall’incontro tra Tess e Maeve si dipanano le storie delle loro famiglie, che si scopriranno legate in un intreccio indissolubile. Tess è cresciuta in una famiglia numerosa nell’Irlanda degli anni Settanta, troppe responsabilità hanno gravato precocemente sulle sue spalle perché avesse voglia di diventare madre a sua volta, e ha faticato a calarsi in quel ruolo. Invece Maeve è rimasta incinta troppo presto, ha rischiato di vedersi sottrarre sua figlia, e solo il coraggio di una zia che aveva subito quel feroce destino è riuscito a salvarla da un istituto per ragazze madri molto simile a una prigione. Tess e Maeve sono due facce della maternità in un’Irlanda che, attraverso le generazioni, sembra negare alle donne la possibilità di scegliere. Un filo sottile lega le protagoniste di questo romanzo corale – e le loro madri, e i loro figli –, un filo simile a quello delle coperte patchwork che una di loro realizza, metafora dell’inesauribile capacità femminile di tessere, creare, rammendare e rinnovare sentimenti e relazioni.
Estate 2019
Incespico sul secondo gradino mentre cerco di salire sull’autobus. L’autista mi guarda storto. Camicia azzurra. Puzza di dopobarba. Di chewing gum alla menta e sudore.
Mi si torce lo stomaco e distolgo lo sguardo. Lui smette per un attimo di masticare.
Tutto bene? mi chiede in tono secco, accusatorio. Non avrà mica intenzione di vomitare, vero?
Io scuoto la testa. Abbasso gli occhi e cerco di coprirmi la faccia con i capelli.
No, rispondo. Sto benissimo. Sono solo inciampata. Troppa fretta.
Sono già caduta una volta. Mi fanno male le ginocchia. Nascondo i palmi delle mani, non voglio che si vedano lo sporco e i graffi.
Lui non dice niente. Me l’immagino, cosa starà pensando. Quindi cerco di stare dritta il più possibile. Lo guardo negli occhi. Mi rendo conto che gli altri passeggeri sono in coda dietro di me sul marciapiede. Cominciano ad agitarsi, impazienti. Inizia a piovere.
Sto benissimo, ripeto, ma lui mi fissa ancora con sospetto.
Alla fine fa un cenno.
Non ho abbastanza credito sulla tessera, quindi gli allungo una banconota da venti. Mi dà il resto, indicandomi con la testa i sedili alle sue spalle.
Prendo posto in seconda fila. Se guarda nello specchietto, riuscirà a intravedere solo la parte superiore della mia testa. Qui posso nascondermi. Mi tolgo le scarpe, infilo le gambe piegate sotto le ginocchia e cerco di diventare piccola piccola. Intanto piazzo la borsa sul sedile accanto. Non voglio che qualcuno si sieda vicino a me. Non voglio sentire le chiacchiere del venerdì sera. Non voglio essere sfiorata da nessuno.
Mi guardo intorno, i passeggeri sono pochi. Non è ancora mezzanotte; è venerdì sera, ma è troppo presto per quelli che fanno baldoria fino a tardi.
Continuo a guardare fuori dal finestrino. Gocce di pioggia improvvise scivolano sulla superficie di vetro. I tergicristalli cominciano a cigolare; io non riesco a staccare gli occhi da quei semicerchi puliti e lisci sul parabrezza per il resto scuro e polveroso. Trovo quel rumore stranamente confortante. Normale. Mi sento sollevata.
L’autobus si allontana dalla fermata e inizia a percorrere lentamente il lungofiume. Alla mia destra c’è il Liffey; sul pelo dell’acqua si increspano onde rese gialle e vetrose dalla luce dei lampioni.
Solo allora mi metto a tremare.
1
TESS
Estate 2019
Tess non riesce più a sopportare l’interno soffocante del tram. Aria: ha bisogno d’aria. Le porte scorrevoli si aprono e lei si prepara a scendere sul marciapiede. Intanto, un gruppo di adolescenti urlanti si avventa verso l’entrata, rendendo impossibile a chiunque muoversi.
«Mi scusi» esclama, la voce tagliente per l’irritazione. Perché non imparano a far scendere la gente prima? Ignora la faccia di una delle ragazze; fa finta di non sentirne un’altra che mormora «vecchia stronza scorbutica».
Gira subito a destra, percorre la banchina e aspetta di convalidare il biglietto.
Se solo quel basso brontolio di nubi si alzasse. Sono giorni che tiene in scacco la città. Tess desidera tuoni, pioggia, vento forte, qualsiasi cosa possa disperdere quella cupezza grigio acciaio. Preme la tessera sullo schermo, che lancia un segnale acustico come un’accusa, schietta e aggressiva. Riprova e si accorge che dietro di lei si sta formando una coda.
Al terzo tentativo la macchina grugnisce un assenso e Tess si allontana da St Stephen’s Green, attraversa e percorre rapida Grafton Street.
La passeggiata fino a Connolly Station le farà bene. A testa alta, allunga il passo. Sente sulla pelle il principio di una brezza leggera che sale dal Liffey. Comincia perfino a godersi l’ondata di ottimismo che si increspa sulla superficie, quella sensazione di lasciarsi tutto alle spalle.
È stato uno di quei giorni. Una di quelle settimane.
Quando raggiunge la Spire, la sua irritazione si è ridotta a un mormorio, una specie di rumore di fondo. A un tratto l’immagine torna a galleggiare sulla superficie della sua memoria. Lei cerca di spingerla sotto ma quella resiste, ostinata fino all’ultimo.
Mike. L’orribile litigio del weekend. Quello che era iniziato come un tranquillo e piacevole sabato sera in giardino era finito con l’annuncio di lui e la rabbia di lei. E ora se n’è andato di nuovo, per altre quattro settimane, e l’ha lasciata lì a mandare avanti la baracca da sola.
«Non ho scelta, Tess; lo sai.»
Ripensa alla sua faccia mentre parlava. Rivede l’inconfondibile doppio battito di ciglia dei suoi occhi azzurri: silenziosa ammissione di colpa. Lo conosce molto bene.
«Non è vero» aveva subito ribattuto. «Ti sei offerto tu, l’hai appena riconosciuto. Stavolta avresti potuto decidere di restare a Dublino.»
«Non per come stanno andando le cose, continuo a ripetertelo.»
Aveva osservato il modo in cui Mike si afferrava la nuca con una mano, massaggiandola per allentare la tensione dei muscoli. Lo fa sempre, in questo periodo, quando è stressato. È come un tic, che lei comincia a notare troppo spesso.
«In questo momento è tutto così instabile. Lo sai.» Il muto appello nei suoi occhi l’aveva quasi costretta a cedere. «Non posso permettermi di creare problemi. La Brexit sta cambiando tutto. Potremmo anche non farcela.»
«E Luke? E se fosse lui a non farcela?»
Mike aveva scrollato la testa, la sua esasperazione quasi palpabile. «Sono le tipiche cose da adolescenti. Si comporta da teppistello, supera i limiti. Non è certo una novità.» Poi aveva taciuto e a un tratto aveva smesso di guardarla.
«Mike, ha perso ogni senso del limite. Non torna quasi più a casa. Quando lo chiamo non risponde al telefono. Non so neanche dov’è o se sta bene.»
Mike aveva sospirato. «Ha diciannove anni, Tess. Penso che tu stia esagerando. Dico sul serio.»
Tess non vuole ricordare il resto. Il modo in cui si era accalorata e aveva detto tante cose che nel corso degli anni aveva solo pensato. Il modo in cui quella notte Mike si era scostato da lei, senza darle nemmeno un abbraccio. Non succedeva da tantissimo tempo.
«Non lasciare che il sole tramonti sulla tua rabbia» le diceva sempre sua madre. Era una banalità allora e lo è anche adesso, pensa Tess. Certe cose non si possono risolvere, o perdonare, o dimenticare, con un bacio della buonanotte.
Arrivata a Connolly Station si fa largo tra la gente fino al binario nord. Il suo treno sta arrivando e lei si affretta verso una delle porte che si aprono. Strapieno come al solito. Impossibile trovare un posto a sedere. Tutti sono concentrati sui loro telefoni. Le persone fanno scorrere le dita sugli schermi, su e giù, destra e sinistra, in continuazione, e Tess la trova proprio un’attività insensata.
Nessuno alza gli occhi quando una giovane donna molto incinta – in realtà è solo una ragazzina – entra nel vagone mentre le porte stanno per chiudersi. Sembra esausta. Ha i piedi gonfi e un sottile velo di sudore sul labbro superiore. Si guarda intorno, vede che non ci sono posti vuoti e il suo corpo sembra cedere.
Tess prova un moto di simpatia istintiva. Sa bene come si sente. È una cosa che non si dimentica mai. Dà un’occhiata a destra, alle file di posti più vicine, e nota un ragazzo sulla ventina che le ricorda Aengus. Ha le cuffie e gli occhi chiusi. Sta muovendo la testa al ritmo di un concerto impercettibile che gli suona nella testa. Tess si fa avanti e gli dà un colpetto sulla spalla. Lui trasale, apre gli occhi e la guarda.
Capisce immediatamente di aver scelto bene. Non c’è ostilità in quello sguardo grigio, solo sorpresa. Lui si toglie le cuffie. «Sì?»
Tess gli sorride e indica la ragazza dietro di lei. «Mi chiedevo se saresti così gentile da lasciare il posto a quella signora.»
Lui salta subito in piedi. «Sì, sì, certo.» Raccoglie lo zaino e una leggera giacca estiva e si sposta goffamente, quasi con troppa enfasi. Ora ha appeso le cuffie al collo e Tess riesce a percepire i suoni graffianti di qualcosa che crede di riconoscere, una linea di basso familiare che ha sentito molto spesso a casa, sparata a tutto volume.
La donna sorride a entrambi e si siede. Non parla, ma il suo sguardo è riconoscente. Ha un’aria da europea dell’est, con quei capelli biondi quasi bianchi e i grandi occhi castani. Mentre prende posto, una delle due donne sedute di fronte si rivolge alla compagna e dice, con il tono di chi vuol farsi sentire: «Non sapevo che la gravidanza fosse una malattia, e tu?»
L’altra ridacchia e poi ricominciano tutte e due a guardare i rispettivi telefoni.
Tess vede il rossore affiorare sulle guance della ragazza incinta. Vede l’espressione confusa con cui gira la testa e si guarda alle spalle. Forse non ha capito le parole, ma ha sicuramente ricevuto il messaggio. Tess le rivolge quello che spera sia un sorriso rassicurante. A un tratto si sente piena di rabbia, e prova anche qualcos’altro. Gli occhi le si riempiono di lacrime e si volta, guarda fuori dal finestrino la città che corre.
Non sapevo che la gravidanza fosse una malattia. Quelle parole continuano a echeggiare, martellandole nella testa. Sembra una battuta di Luke. È il genere di cose che dice lui. Insieme a tante altre frasi che sembrano fatte apposta per provocare.
Allontana il pensiero, si aggrappa allo schienale di uno dei sedili e lascia che il dondolio del treno la calmi.
Catherine Dunne è nata nel 1954 a Dublino, dove vive. Ha esordito nel 1997 con La metà di niente, che è subito diventato un best seller internazionale. Guanda ha pubblicato anche tutti gli altri suoi romanzi: La moglie che dorme, Il viaggio verso casa, Una vita diversa, L’amore o quasi, Se stasera siamo qui, Donna alla finestra, Tutto per amore, Quel che ora sappiamo, La grande amica, Un terribile amore e Come cade la luce, oltre a Un mondo ignorato, sull’emigrazione irlandese negli anni Cinquanta.
L’autrice ha un sito internet italiano:https://catherinedunne.it