“Tornare a galla” di Margaret Atwood edito da Ponte alle Grazie. Estratto

Sinossi

«Uno dei romanzi più importanti del XX secolo». NY Times

Allarmata per l’improvvisa scomparsa del padre, una giovane donna torna nel luogo in cui ha trascorso l’infanzia: una piccola abitazione su un’isola deserta, al centro di un lago nel Québec. La porta non è chiusa a chiave, la casa è vuota, su uno scaffale ci sono fogli con disegni incomprensibili, ma del padre non c’è traccia. I tre amici che accompagnano la ragazza vivono questa gita come un’avventura, mentre per lei tornare nei luoghi dell’infanzia assume i contorni di un dolente pellegrinaggio interiore che coinvolge la sua identità di donna, il suo ruolo in un mondo che non è più in contatto con la natura e in cui gli uomini hanno perso di vista sé stessi. Inondata dai ricordi, la ragazza si rende conto che tornare a casa significa entrare in un altro luogo ma anche in un altro tempo, ed è costretta a confrontarsi con gli spettri del suo passato. Inquietante e poetico, costruito su una prosa limpida e affilata, il romanzo srotola il filo della narrazione nel labirinto oscuro e simbolico dell’intimità. Ma sa anche portare chiarezza sui temi della contemporaneità: il rapporto dell’uomo con la natura, il matrimonio, le famiglie, le donne frammentate e come potrebbero tornare a essere integre.

Estratto

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Non riesco a credere di essere di nuovo su questa strada, a zigzagare lungo il lago dove le betulle bianche stanno morendo: la malattia viene dal sud, adesso c’è anche un noleggio di idrovolanti. Ma siamo ancora ai confini della città; non l’abbiamo attraversata, si è estesa tanto da avere una circonvallazione, un bel successo.

Non l’ho mai considerata una città vera e propria, ma semmai un avamposto, l’ultimo o il primo a seconda della direzione in cui viaggiavamo: un agglomerato di capannoni e casupole e una strada centrale con il cinema, il itz, il oyal, la R rossa fulminata, e due ristoranti che servivano identici hamburger grigiastri ricoperti di salsa dall’aspetto fangoso, piselli in scatola acquosi e pallidi come occhi di pesce e patatine a fiammifero grondanti di lardo. Ordina un uovo in camicia, diceva mia madre, così lo vedi dai bordi se è fresco.

In uno di quei ristoranti, prima che io nascessi, mio fratello sgusciò sotto il tavolo e fece scivolare le mani su e giù per le gambe della cameriera che li stava servendo; fu durante la guerra, lei portava delle calze arancioni lucide, di rayon, mio fratello non le aveva mai viste, perché mia madre non le usava. Un altro anno attraversammo di corsa il marciapiede coperto di neve, scalzi, perché non avevamo scarpe, si erano consumate durante l’estate. Quella volta, in macchina, tenemmo i piedi avvolti in coperte, facendo finta di essere feriti. Mio fratello disse che i tedeschi ci avevano smitragliato via i piedi.

Ora però sono in un’altra auto, quella di David e Anna; ha pinne affusolate e strisce cromate, un catorcio pesante, un relitto di dieci anni fa, per accendere i fari David deve allungare la mano fin sotto il cruscotto. David dice che non possono permettersene una più nuova, il che probabilmente non è vero. Guida bene, lo so, ma io tengo lo stesso la mano fuori sulla portiera. Per reggermi e per poter uscire rapidamente, se è necessario. Ho viaggiato altre volte con loro sulla stessa auto, ma su questa strada qualcosa non quadra, qualcuno qui è fuori posto, o loro tre, o io.

Sto sul sedile posteriore, insieme agli zaini; questo qui, Joe, mi siede accanto masticando gomma e tenendomi la mano: due modi per passare il tempo. Osservo la sua mano: le dita corte si contraggono e si rilassano, gingillandosi con la mia fede, girandola, è uno dei suoi tic. Lui da contadino ha le mani, io i piedi. Ce lo ha detto Anna. Oggi fanno tutti un po’ di magia, e lei legge la mano alle feste, dice che è un surrogato di conversazione. Quando ha letto la mia ha detto: «Hai un gemello?» e io le ho risposto di no. «Ne sei certa?» mi ha chiesto lei. «Perché hai delle linee doppie». Il suo indice ha seguito la linea della mia vita: «Hai avuto un’infanzia felice, ma poi c’è questa strana interruzione». Ha aggrottato la fronte e io le ho detto che volevo soltanto sapere quanto sarei vissuta, e che poteva saltare il resto. Poi ci ha detto che le mani di Joe ispiravano fiducia ma non erano sensibili; io mi sono messa a ridere, ed è stato uno sbaglio.

Di profilo Joe assomiglia al bufalo sulla moneta americana da cinque cents, irsuto e col muso schiacciato, occhi piccoli e serrati e lo sguardo ardito ma folle di una razza un tempo dominante e ora in pericolo di estinzione. Anche lui si vede così: ingiustamente deposto. Sotto sotto gli piacerebbe che gli costruissero una specie di riserva, tipo paradiso degli uccelli. Il bel Joe.

Sente che lo sto osservando e mi lascia la mano. Poi si toglie di bocca la gomma, la appallottola nella stagnola, la ficca nel portacenere e incrocia le braccia. Questo significa che non devo osservarlo; giro la testa e guardo avanti.

Nelle prime ore del viaggio siamo passati tra colline piatte disseminate di mucche, boschi di latifoglie e scheletri di olmi morti; poi tra le conifere, le cave aperte dalla dinamite nel granito rosa e grigio, le fragili casette dei villeggianti e i cartelli con la scritta PORTA DEL NORD: almeno quattro città rivendicano questo titolo. Il futuro è al nord, diceva un vecchio slogan politico; quando mio padre lo sentì disse che al nord c’era tutt’al più il passato, e poco anche di quello. Ovunque sia ora, vivo o morto, e nessuno lo sa, con gli epigrammi ha chiuso. Non hanno il diritto di invecchiare. Invidio quelli a cui sono morti i genitori da giovani: ricordarli è più facile, rimangono immutati. Io ero convinta che i miei lo sarebbero rimasti comunque, che avrei potuto partire e ritornare molto tempo dopo ritrovando tutto tale e quale. Me li immaginavo come se vivessero in un’altra epoca; badavano alle loro faccende chiusi al sicuro dietro una parete traslucida come gelatina, mammut congelati in un ghiacciaio. Non avrei dovuto fare altro che tornare, quando fossi stata pronta, ma continuavo a rimandare, avrei dovuto dare troppe spiegazioni.

Ora stiamo oltrepassando il bivio che porta al cunicolo scavato dagli americani. Da qui sembra un’innocua collina coperta da abeti rossi, ma i grossi cavi elettrici che si inoltrano nella foresta lo tradiscono. Mi hanno detto che se ne sono andati: forse è uno stratagemma, potrebbero benissimo abitare ancora là sotto, i generali in bunker di cemento e i soldati semplici in casermoni sotterranei con la luce sempre accesa. Non c’è modo di controllare, è vietato l’accesso. La città li aveva invitati a rimanere, erano un buon affare, bevevano un sacco.

«Lì ci sono i missili» dico. Anzi, c’erano. Ma non mi correggo.

David risponde: «Porci fascisti yankee del cazzo» come se stesse facendo un’osservazione sul tempo.

Anna non dice niente. Tiene la testa appoggiata allo schienale e le punte dei suoi capelli chiari sventolano nella corrente del finestrino che non chiude bene. Prima ha cantato House of the Rising SunLili Marleen, tutte e due ripetutamente, cercando di fare una voce gutturale e profonda: invece veniva fuori come quella di un bambino rauco. David ha acceso la radio ma non è riuscito a captare nulla, eravamo tra un’emittente e l’altra. Quando Anna era a metà di Saint Louis Blues lui ha cominciato a fischiettare e lei ha smesso di cantare. È la mia migliore amica; la conosco da due mesi.

Mi sporgo in avanti e dico a David: «La bottiglieria è dopo la prossima curva, a sinistra» e lui annuisce e rallenta. Gliene avevo parlato prima, immaginavo fosse il tipo di cosa che li avrebbe interessati. Stanno girando un film, Joe fa le riprese, non l’ha mai fatto prima ma David dice che loro due sono i nuovi uomini del Rinascimento, quel che c’è da sapere te lo insegni da te. L’idea è stata soprattutto di David, che si autodefinisce regista: i titoli di testa li hanno già preparati. Vuole riprendere cose in cui si imbattono, ‘campioni sparsi’ li chiama, e questo sarà anche il titolo del film, Campioni sparsi. Quando avranno esaurito la loro scorta di pellicola (che è tutto quello che potevano permettersi, e la cinepresa l’hanno noleggiata) visioneranno il materiale raccolto e lo monteranno.

«Come fai a decidere che cosa metterci se non sai già di che cosa tratta?» ho chiesto a David quando me ne ha parlato. Lui mi ha lanciato una delle sue occhiate da iniziato a profano. «Se ti chiudi la mente in anticipo, rovini tutto. L’importante è restare fluidi». Anna, che versava il caffè accanto al fornello, ha detto che tutti quelli che conosceva stavano facendo un film, e David ha ribattuto che quello non era un cazzo di motivo per non farne uno anche lui. Anna gli ha risposto: «Hai ragione, scusami»; ma ride del film alle sue spalle, lo chiama Capponi sparsi.

La bottiglieria è costruita con bottigliette di vetro cementate una accanto all’altra con il fondo verso l’esterno, verdi e marroni, disposte secondo un motivo a zigzag simile a quelli che a scuola ci insegnavano a disegnare sui teepee; è circondata da un muro, anche quello fatto di bottiglie, sistemate in forma di lettere, in modo che quelle marroni compongano la scritta VILLA BOTTIGLIA.

«Forte» dice David, ed escono dalla macchina con la cinepresa. Io e Anna smontiamo dopo di loro; ci stiriamo le braccia, e Anna fuma una sigaretta. Porta una tunica viola e pantaloni bianchi scampanati, hanno già una macchia, grasso dell’auto. Le avevo consigliato di mettersi dei jeans o qualcosa del genere, ma lei aveva risposto che la fanno sembrare grassa.

«Chi è stato a farla, Cristo, pensa che lavoro» dice Anna, ma io della casa non so nulla, solo che è lì da sempre, in mezzo a un acquitrino nero, fitto di abeti rossi, che la rende ancora più insolita, un ridicolo monumento a qualche esule bizzarro, oppure a un recluso volontario come mio padre, a qualcuno che ha scelto questa palude perché era l’unico posto in cui potesse realizzare il sogno della sua vita, vivere in una casa di bottiglie. Oltre il muro c’è un abbozzo di prato con una bordura di calendule arancioni che assomiglia a un materasso.

«Grande» commenta David, «davvero forte» e circonda Anna col braccio stringendola per un attimo per mostrare che è soddisfatto, come se in qualche modo fosse lei la responsabile di Villa Bottiglia. Risaliamo in auto.

Guardo il finestrino come se fosse uno schermo televisivo. Non c’è nulla che io ricordi finché non arriviamo al confine, segnalato da un cartello su cui si legge BIENVENUE da una parte e WELCOMEdall’altra. Sul cartello ci sono dei fori di pallottole dai bordi rossi di ruggine. Ci sono sempre stati: in autunno i cacciatori lo usano per esercitarsi al tiro al bersaglio; per quante volte lo sostituiscano o lo ridipingano i fori ricompaiono, come se nessuno ce li facesse ma crescessero per una specie di logica interna o di infezione, come la muffa o i foruncoli. Joe vorrebbe filmare il cartello ma David dice: «Ma dai, cosa c’entra?»

Ora siamo nel mio paese natale, territorio straniero. Mi si stringe la gola, è un riflesso acquisito quando ho scoperto che la gente poteva pronunciare parole che mi entravano nelle orecchie senza significare niente. Sarebbe più comodo essere sordomuti. Di quelli che quando vogliono un quarto di dollaro ti piazzano davanti il loro mazzo di carte con l’alfabeto manuale. Ma anche in quel caso, occorre imparare l’ortografia.

Il primo odore è quello della segheria, segatura, ce ne sono cumuli nel cortile, insieme alle cataste di sciaveri. Il legno dolce va da un’altra parte, alla cartiera, i tronchi più grossi invece vengono radunati in un recinto galleggiante sul fiume, un anello di tronchi incatenati in cui quelli sciolti sbattono l’uno contro l’altro; scendono verso le seghe lungo uno scivolo sopraelevato che fa un gran fracasso, quello non è cambiato. Ci passiamo sotto in macchina, e con una curva saliamo fino al minuscolo paese sorto come appendice alla segheria, a pianta ordinata, con giardinetti pubblici e al centro una fontana settecentesca, delfini di pietra e un putto cui manca parte della faccia. Sembra un’imitazione, ma potrebbe essere autentica.

L’ autrice

Margaret Atwood è una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadese. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008)Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (2019, vincitore del Booker Prize 2019), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"