Trama
È notte fonda a Minneapolis, quando un misterioso gruppo di persone si introduce in casa di Luke Ellis, uccide i suoi genitori e lo porta via in un SUV nero. Bastano due minuti, sprofondati nel silenzio irreale di una tranquilla strada di periferia, per sconvolgere la vita di Luke, per sempre. Quando si sveglia, il ragazzo si trova in una camera del tutto simile alla sua, ma senza finestre, nel famigerato Istituto dove sono rinchiusi altri bambini come lui. Dietro porte tutte uguali, lungo corridoi illuminati da luci spettrali, si trovano piccoli geni con poteri speciali – telepatia, telecinesi. Appena arrivati, sono destinati alla Prima Casa, dove Luke trova infatti i compagni Kalisha, Nick, George, Iris e Avery Dixon, che ha solo dieci anni. Poi, qualcuno finisce nella Seconda Casa. «È come il motel di un film dell’orrore», dice Kalisha. «Chi prende una stanza non ne esce più.» Sono le regole della feroce signora Sigsby, direttrice dell’Istituto, convinta di poter estrarre i loro doni: con qualunque mezzo, a qualunque costo. Chi non si adegua subisce punizioni implacabili. E così, uno alla volta, i compagni di Luke spariscono, mentre lui cerca disperatamente una via d’uscita. Solo che nessuno, finora, è mai riuscito a evadere dall’Istituto.
Estratto
Per i miei nipoti:
Ethan, Aidan e Ryan
«Allora Sansone invocò il Signore e disse: ‘Signore, ricordati di me! Dammi forza per questa volta soltanto, Dio, e in un colpo solo mi vendicherò dei Filistei…’
Sansone palpò le due colonne di mezzo, sulle quali posava la casa; si appoggiò ad esse, all’una con la destra, all’altra con la sinistra.
Sansone disse: ‘Che io muoia insieme con i Filistei!’ Si curvò con tutta la forza e la casa rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro. Furono più i morti che egli causò con la sua morte di quanti aveva uccisi in vita.»
Giudici, 16, 28-30
«Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato negli abissi del mare.»
Matteo, 18, 6
LA GUARDIA NOTTURNA
1
MEZZ’ORA dopo l’orario previsto per il decollo del volo Delta che avrebbe dovuto portare Tim Jamieson da Tampa alle luci brillanti e ai grattacieli di New York, il velivolo era ancora parcheggiato al gate. Non appena un agente della Delta e una donna bionda con un badge della sicurezza appeso al collo entrarono in cabina, i passeggeri stipati in economy si lasciarono andare a un mormorio carico di fastidio e di premonizioni.
«Mi concedereste un istante di attenzione, per cortesia?» esordì il tizio della Delta.
«Di quanto sarà il ritardo?» chiese qualcuno. «Non ci indori la pillola.»
«Manca poco alla partenza, e il capitano ci tiene ad assicurarvi che il volo atterrerà quasi in orario. Abbiamo un agente federale che deve salire a bordo, però, perciò ci serve qualcuno che sia disponibile a cedergli il posto.»
Dai posti a sedere si levò un gemito collettivo, e Tim vide diversi passeggeri impugnare il cellulare, in caso di problemi. Ne erano già capitati, in situazioni analoghe.
«La Delta Air Lines è autorizzata a offrire un biglietto sul prossimo volo per New York, previsto per domattina alle 6.45…»
Un altro gemito. Qualcuno disse: «Piuttosto mi sparo».
Il funzionario proseguì, imperterrito. «Riceverete il voucher per un albergo dove passare la notte e quattrocento dollari di rimborso. È un buon affare, signori. Chi accetta?»
Non ottenne risposta. La bionda con il badge della sicurezza non disse niente, e si limitò a percorrere la cabina con uno sguardo attento ma stranamente inespressivo.
«Ottocento dollari», disse il tipo della Delta. «Più il voucher per l’albergo e il biglietto.»
«Sembra il presentatore di un quiz televisivo», sbuffò un uomo seduto nella fila davanti a quella di Tim.
Anche stavolta, nessuno si offrì.
«Millequattrocento?»
Ancora nessuno. Tim trovava la cosa interessante, ma non del tutto sorprendente. E non solo perché prendere un volo alle sei e tre quarti significava svegliarsi quando Dio ancora dormiva. La maggior parte dei passeggeri in economy erano gruppi di famigliari diretti a casa dopo aver visitato diverse attrazioni della Florida, coppie che esibivano le classiche scottature da spiaggia e uomini nerboruti, con la faccia rossa e l’aria incazzata, che probabilmente avevano affari da sbrigare nella Grande Mela che avrebbero assicurato loro cifre molto superiori ai millequattrocento dollari.
Qualcuno dalle ultime file gridò: «Aggiungete anche una Mustang decappottabile e un viaggio ad Aruba per due, e vi cediamo entrambi i nostri posti!» L’uscita provocò una salva di risate, tutt’altro che amichevoli.
L’addetto di scalo guardò la bionda con il badge, ma se sperava di trovare aiuto non ne ottenne neppure l’ombra. La donna continuava la sua ispezione, muovendo solamente gli occhi. Tim sospirò e disse: «Milleseicento».
Tutto d’un tratto, aveva deciso di voler scendere da quell’aereo del cazzo, per andarsene verso nord in autostop. Benché l’idea non gli avesse neppure sfiorato la mente fino a quel preciso istante, scoprì di non fare la minima fatica a immaginarsi mentre lo faceva. Si vedeva chiaramente sulla statale 301, nel cuore della contea di Hernando, con il pollice in fuori. Faceva caldo, i moschini ronzavano, c’era un cartellone che pubblicizzava uno studio legale specializzato in infortuni, Take It on the Run dei REO Speedwagon risuonava a tutto volume da uno stereo appoggiato ai gradini in mattoni di una roulotte, accanto alla quale un uomo a torso nudo era impegnato a lavare la sua auto, e di lì a poco sarebbe passato uno dei tanti agricoltori del posto su un furgoncino con le sponde di legno, un carico di meloni e una calamita di Gesù sul cruscotto. La parte migliore non sarebbero stati neppure i soldi in tasca, ma il fatto di starsene lì per conto proprio, a migliaia di chilometri da quella scatola di sardine invasa dagli odori contrastanti di profumo, sudore e lacca per capelli.
Anche spremere un po’ di quattrini supplementari al governo, comunque, non sarebbe stato affatto male.
Si erse in tutta la sua statura (quasi un metro e ottanta), si calcò gli occhiali sul naso e alzò una mano. «Se arriva a duemila e mi rimborsa il biglietto in contanti, il posto è suo.»
2
Il voucher era per un hotel di merda, situato accanto alla pista più utilizzata dell’aeroporto internazionale di Tampa. Tim si addormentò tra il rombo degli aerei, si risvegliò nella stessa condizione e scese per consumare un uovo sodo e due pancake gommosi al buffet. Benché non si trattasse certo di piatti gourmet, mangiò di gusto, poi tornò in camera ad aspettare le nove e l’apertura delle banche.
Incassò i soldi inattesi senza alcun problema, perché la banca sapeva del suo arrivo e l’assegno era stato autorizzato in anticipo; non aveva alcuna intenzione di aspettare in quella topaia di albergo che qualcuno desse il via libera. Si fece consegnare la cifra in banconote da cinquanta e da venti, le piegò infilandole nella tasca sinistra, recuperò la sacca da viaggio che aveva affidato all’addetto alla sicurezza e chiamò un Uber che lo portasse fino a Ellenton. Dopo aver pagato l’autista, raggiunse a piedi il primo segnale per la 301 Nord e sporse il pollice. Un quarto d’ora dopo fu preso a bordo da un vecchio che portava un berretto con la visiera. Non c’erano meloni sul pianale del suo furgoncino, e neanche le sponde di legno, ma per il resto tutto corrispondeva alla sua visione della sera precedente.
«Dove sei diretto, amico?» chiese il tizio.
«Be’», rispose Tim, «la destinazione finale è New York.»
Il vecchio sputò un grumo di tabacco fuori dal finestrino. «Perché mai un uomo sano di mente dovrebbe volerci andare?» domandò, strascicando le parole.
«Non lo so», rispose Tim, anche se in realtà lo sapeva benissimo: un ex collega gli aveva detto che la Grande Mela offriva un bel po’ di opportunità nel settore della sicurezza privata, inclusi impieghi presso ditte che avrebbero dato molto più peso alla sua esperienza che non all’assurda catena di eventi con la quale si era conclusa la sua carriera nella polizia della Florida. «Per stasera mi basterebbe arrivare in Georgia. E chissà che lì non mi trovi meglio.»
«Questo sì che è parlare», disse il vecchio. «La Georgia non è malaccio, soprattutto se ti piacciono le pesche. A me fanno venire la cacarella. Ti dispiace se metto un po’ di musica?»
«Niente affatto.»
«Ti avverto, però: la sento molto alta. Sono un po’ sordo, sai com’è.»
«Mi hai già fatto un grande favore a prendermi su.»
Invece dei REO Speedwagon partì un pezzo di Waylon Jennings, ma a Tim andava bene comunque. Poi fu il turno di Shooter Jennings e Marty Stuart. I due uomini a bordo del Dodge Ram striato di fango ascoltavano la musica e guardavano la strada che scorreva accanto ai finestrini. Dopo poco più di cento chilometri, il vecchio accostò, si toccò la visiera del berretto e augurò a Tim buona giornata.
Tim non arrivò in Georgia quella sera – trascorse la notte in un altro squallido motel vicino a un baracchino sul ciglio della strada che vendeva succo d’arancia –, ma giunse a destinazione il giorno dopo. Nella cittadina di Brunswick (famosa per aver dato i natali a uno stufato particolarmente saporito) accettò un impiego di due settimane in un impianto di riciclaggio, senza rifletterci più di quanto gli fosse stato necessario per decidere di lasciare il suo posto sul volo della Delta. Non gli servivano altri soldi, ma gli sembrava che prendersi un po’ di tempo potesse essergli utile. Era in piena fase di transizione, un processo che non si poteva certo concludere nell’arco di una giornata. Senza considerare che c’era una pista da bowling con un Denny’s subito accanto: una combinazione pressoché imbattibile.
3
Dopo aver aggiunto la paga della fabbrica ai soldi della compagnia aerea, Tim si ritrovò sulla rampa d’accesso della I-95, con la sensazione di essere decisamente in grana, per un vagabondo. Rimase per più di un’ora sotto il sole, e stava quasi per rinunciare e tornare da Denny’s a bere un bicchiere di tè freddo quando una Volvo station wagon accostò sul ciglio della strada. Il sedile posteriore era zeppo di scatoloni. La donna anziana al volante abbassò il finestrino del passeggero e lo scrutò da dietro un paio di lenti spesse. «Non è grande e grosso, ma mi pare che non stia messo male, a muscoli», disse. «Non sarà uno stupratore o uno psicopatico, spero.»
«Nossignora», rispose Tim, pensando: Ma se anche lo fossi, credi sul serio che te lo direi?
«Me lo direbbe in caso contrario, giusto? Deve arrivare fino in South Carolina? A giudicare dalla sua sacca da viaggio, direi di sì.»
Un’auto sterzò per superare la Volvo e accelerò sulla rampa, suonando il clacson. La donna sembrò non accorgersene nemmeno, e continuò a fissare Tim con un’espressione serena.
«Sissignora. Sono diretto a New York.»
«Io posso portarla in South Carolina, anche se non intendo inoltrarmi più di tanto in quella terra di ignoranti. Lei però dovrebbe aiutarmi, in cambio. Una mano lava l’altra, insomma.»
«Già. Se tu dai una cosa a me, io poi do una cosa a te.»
«Non le darò un bel niente, ma può salire.»
Tim obbedì. La donna si chiamava Marjorie Kellerman, e dirigeva la biblioteca di Brunswick. Faceva anche parte di una sedicente Southeastern Library Association, che, spiegò, non aveva un centesimo perché «Trump e i suoi compari si sono ripresi tutto. Non comprendono la cultura più di quanto un asino capisca l’algebra».
Dopo cento chilometri abbondanti, ancora in Georgia, si fermò davanti a una minuscola biblioteca nella cittadina di Pooler. Tim scaricò le scatole di libri e le portò dentro con un carrello, per poi caricarne un’altra decina e trascinarle fino alla Volvo. Marjorie Kellerman gli spiegò che erano destinate alla Yemassee Public Library, che si trovava una sessantina di chilometri a nord, al confine con il South Carolina. Appena superata Hardeeville, però, furono costretti a fermarsi. C’erano auto e furgoni immobili su entrambe le corsie, e la fila dietro di loro si stava già allungando.
«Oh, non sopporto quando succede», disse Marjorie, «e in South Carolina capita di continuo perché sono troppo tirchi per allargare la statale. Dev’esserci stato un incidente più avanti, e con solo due corsie non c’è modo di aggirarlo. Perderò come minimo mezza giornata. Signor Jamieson, si consideri libero. Se fossi in lei, scenderei dall’auto, tornerei fino allo svincolo di Hardeeville e cercherei fortuna sulla statale 17.»
«E tutti quegli scatoloni pieni di libri?»
«Oh, troverò un’altra schiena robusta che mi aiuti a scaricarli», disse la donna, sorridendo. «Se devo dirle tutta la verità, l’ho vista in piedi sotto il sole e ho deciso di vivere pericolosamente, per una volta.»
«Be’, se è sicura…» L’ingorgo lo rendeva claustrofobico, esattamente la stessa sensazione che aveva provato nella cabina del volo Delta. «In caso contrario, resto. Non ho tutta questa fretta di arrivare da qualche parte, in ogni caso.»
«Sono sicura», disse la donna. «È stato un piacere conoscerla, signor Jamieson.»
«Il piacere è stato mio, signora Kellerman.»
«Le servono soldi? Posso darle dieci dollari.»
Fu commosso e stupito – non per la prima volta – dalla gentilezza e dalla generosità delle persone comuni, specie quelle che non navigavano nell’oro. L’America era ancora un bel posto, per quanto alcuni (tra i quali lui stesso, di tanto in tanto) potessero non essere d’accordo. «No, non si preoccupi. Ma grazie per l’offerta.»
Le strinse la mano, scese e tornò indietro lungo la mezzeria della I-95 in direzione dello svincolo di Hardeeville. Sulla statale 17, non riuscendo a rimediare un passaggio, proseguì a piedi per due o tre chilometri, fino all’incrocio con la 92, dove un cartello puntava verso la cittadina di DuPray. Cominciava a farsi tardi, e Tim decise che era meglio cercare un motel dove trascorrere la notte. Sarebbe sicuramente stato un’altra topaia, ma le alternative – dormire all’addiaccio facendosi mangiare vivo dai moscerini, o nel fienile di un contadino – erano ancora meno attraenti. Così, si avviò alla volta di DuPray.
Da piccole cose nascono grandi eventi.
4
Un’ora dopo era seduto su una roccia sul bordo della strada a due corsie, aspettando che un treno merci apparentemente interminabile finisse di attraversarla. Era diretto verso DuPray e procedeva maestoso a quaranta chilometri l’ora: vagoni, file di auto in larga parte usate, autobotti, pianali e ripiani carichi di chissà quale sostanza pericolosa che, in caso di deragliamento, avrebbe scatenato incendi nelle pinete o tormentato la popolazione di DuPray con le sue esalazioni nocive o addirittura fatali. A chiudere il convoglio c’era una carrozza arancione con a bordo un uomo che indossava una salopette, seduto su una sdraio e intento a leggere un tascabile fumando una sigaretta. Alzò gli occhi dal suo libro e salutò Tim con un gesto della mano. Tim restituì il saluto.
La cittadina si trovava tre chilometri più in là, ed era sorta all’intersezione tra la statale 92 (ora ribattezzata Main Street) e due altre strade. DuPray sembrava sopravvissuta all’ondata di megastore che aveva preso d’assalto le città più grandi; c’era un Western Auto, ma era chiuso, con le vetrine tutte impolverate. Tim notò un minimarket, un emporio, una bottega che sembrava vendesse un po’ di tutto e un paio di saloni di bellezza. C’era anche un cinema con un cartello VENDESI O AFFITTASIsopra l’insegna luminosa, un negozio di ricambi d’auto con il nome pretenzioso DuPray Speed Shop e un ristorante che si chiamava Bev’s Eatery. C’erano tre chiese, una metodista e le altre due affiliate a una qualche setta cristiana. Nei parcheggi che costeggiavano la fila dei negozi non c’era più di una decina di automobili o furgoni. I marciapiedi erano pressoché deserti.
Tre isolati più avanti, dopo l’ennesima chiesa, intravide il DuPray Motel. Alle sue spalle, dove probabilmente la Main Street tornava a chiamarsi statale 92, c’era un altro passaggio a livello, un deposito e una fila di tettoie in alluminio che brillavano al sole. Oltre quelle costruzioni ricominciava la pineta. Nel complesso, a Tim quella cittadina sembrava uscita da una ballata country, una canzone intrisa di nostalgia, magari con la voce di Alan Jackson o di George Strait. L’insegna del motel era vecchia e arrugginita, e induceva a credere che l’albergo fosse chiuso da tempo come il cinema, ma poiché la giornata volgeva al termine e quello sembrava l’unico posto in città dove trovare un alloggio, Tim vi puntò dritto.
A metà strada, dopo il palazzo del municipio, si imbatté in un edificio di mattoni con i muri ricoperti di edera. Su un prato rasato alla perfezione c’era un cartello che annunciava: UFFICIO DELLO SCERIFFO DELLA CONTEA DI FAIRLEE. A Tim venne da pensare che doveva trattarsi di una contea ben misera, se aveva quel buco di città come capoluogo.
C’erano due autopattuglie parcheggiate di fronte all’edificio: una berlina seminuova e un vecchio fuoristrada sporco di fango, con un lampeggiante sul cruscotto. Tim guardò in direzione dell’ingresso – con l’istinto della persona senza fissa dimora che gira con un bel po’ di banconote in tasca –, proseguì per qualche passo e poi tornò indietro per dare un’occhiata alle bacheche appese accanto alla porta. Si soffermò in particolare su un avviso, convinto di aver letto male ma determinato ad assicurarsene.
Non qui e non ora, pensò. È impossibile.
E invece era proprio così. Accanto a un poster dove c’era scritto: SE CREDEVI CHE LA MARIJUANA FOSSE LEGALE IN SOUTH CAROLINA, TI CONVIENE RIPENSARCI, c’era un avviso che annunciava semplicemente: CERCASI GUARDIA NOTTURNA. RIVOLGERSI IN UFFICIO.
Cavolo, rifletté. Quando si dice «il passato ritorna».
Si voltò verso l’insegna arrugginita del motel e si fermò ancora, ripensando all’offerta di lavoro. In quell’istante una delle porte della stazione di polizia si aprì e ne uscì un agente alto e dinoccolato, sistemandosi il berretto sui capelli rossi. Il sole al tramonto faceva brillare il suo distintivo. Diede un’occhiata agli scarponi di Tim, ai suoi jeans impolverati e alla camicia azzurra di chambray. I suoi occhi si soffermarono per un istante sulla sacca da viaggio che Tim portava in spalla, prima di spostarsi sul suo viso. «Posso aiutarla, signore?»
Tim si sentì pervadere dallo stesso impulso che lo aveva indotto ad alzarsi in piedi su quell’aereo. «Probabilmente no, ma chi può dirlo?»
Stephen King vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha e la figlia Naomi. Da più di quarant’anni le sue storie sono bestseller che hanno venduto 500 milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Stanley Kubrick, Brian De Palma, Rob Reiner, Frank Darabont. Oltre ai film tratti dai suoi romanzi, vere pietre miliari come Stand by me – Ricordo di un’estate, Le ali della libertà, Il miglio verde, It – per citarne solo alcuni – sono seguitissime anche le sue serie TV. Per i suoi meriti artistici, il presidente Barack Obama gli ha conferito la National Medal of Arts. Nel 2018 ha ricevuto il PEN America Literary Service Award.