Sinossi
È una domenica mattina di fine giugno e Sergio e Giovanna, come d’abitudine, hanno invitato a pranzo nel loro appartamento al Testaccio due coppie di cari amici. Stanno facendo gli ultimi preparativi in attesa degli ospiti quando una sconosciuta si presenta alla loro porta. Molti anni prima ha vissuto in quella casa e vorrebbe rivederla un’ultima volta, si giustifica. Il suo sguardo sembra smarrito, come se cercasse qualcuno. O qualcosa. Si chiama Elsa Corti, viene da lontano e nella borsa che ha con sé conserva un fascio di vecchie lettere che nessuno ha mai letto. E che, fra aneddoti di una vita avventurosa e confidenze piene di nostalgia, custodiscono un terribile segreto.
Riaffiora così un passato inconfessabile, capace di incrinare anche l’esistenza apparentemente tranquilla e quasi monotona di Sergio e Giovanna e dei loro amici, segnandoli per sempre.
Ferzan Ozpetek, al suo terzo libro, dà vita a un intenso thriller dei sentimenti, che intreccia antiche e nuove verità trasportando il lettore dall’oggi alla fine degli anni Sessanta, da Roma a Istanbul, in un emozionante susseguirsi di colpi di scena, avanti e indietro nel tempo. Chi è davvero Elsa Corti? Come mai tanti anni prima ha lasciato l’Italia quasi fuggendo, allontanandosi per sempre dalla sorella Adele, cui era così legata?
Pagina dopo pagina, passioni che parevano sopite una volta evocate riprendono a divampare, costringendo ciascuno a fare i conti con i propri sentimenti, i dubbi, le bugie. Il presente si mescola al passato per narrare la potenza della vita stessa, che obbliga a scelte da cui non si torna più indietro. Ma anche per celebrare – come solo Ozpetek sa fare – una Istanbul magica, sensuale e tollerante, con i suoi antichi hamam, i palazzi ottomani che si specchiano nel Bosforo, i vecchi quartieri oggi scomparsi.
Estratto
A Valter
Ad Asaf
Ti amo e non sai
quanto mi spezza il cuore
il fatto che sia tutto qui.
POETA ANONIMO TURCO
Gli amori impossibili non finiscono mai.
MINE VAGANTI
Kaş, 20 giugno 2019
Cara Adele,
ti scrivo dalla terrazza di un caffè che si affaccia sul porto, a Kaş. Mi fermerò ancora una settimana. È passato tanto tempo dalla mia ultima lettera, quando ti raccontavo delle mie molte avventure e di quanto mi divertissi nella nuova vita che mi ero scelta lontano da casa. Nel frattempo, altre vicende sono accadute, e alcune hanno lasciato il segno. Ho perso per strada un po’ del mio entusiasmo, ma dicono che sia fisiologico: sono una «matura» signora, ormai. E lo sarai anche tu, sebbene faccia fatica a immaginarmelo.
Quest’ultimo anno, poi, mi ha molto provato, anche fisicamente. Quasi stento a riconoscermi. Vivere mi sta consumando. Mi guardo allo specchio e mi vedo sfigurata. Ho conosciuto molte gioie, ma anche tanti dolori, e l’ultimo è ogni volta il peggiore. Un mese fa è mancato Dario, amico adorato. Non viveva più in Turchia, ma eravamo rimasti in contatto e ci telefonavamo quasi ogni settimana. Avevamo deciso di incontrarci proprio qui, a Kaş, in questi giorni di inizio estate. Ma la morte aveva fretta e se l’è portato via senza lasciarci il tempo di un commiato. Lo sto piangendo come forse non ho mai fatto per nessun altro, nemmeno per amore. Ripenso al suo ottimismo, alla sua irresistibile ironia, all’onestà con cui sapeva parlarmi dritto al cuore.
Oggi è una splendida giornata di sole, eppure me ne sto qui seduta all’ombra, in compagnia dei fantasmi del passato, mentre un’angoscia che non so descrivere mi toglie il poco fiato che mi resta. Se la vita fosse più giusta, adesso Dario sarebbe seduto accanto a me, sorseggiando un caffè turco, la sigaretta accesa tra le dita. Invece, sono sola al nostro appuntamento. Lo so, è stato assurdo venire ugualmente qui, ma ho pensato che in fondo glielo dovevo. Avevamo parlato così tanto di questo viaggio: annullarlo sarebbe stato un tradimento. Adesso, però, non so più quanto sia stato saggio seguire il mio cuore. Fare i conti con la sua assenza è un dolore intollerabile. Perfino il mare, così azzurro e luminoso, mi ferisce. E mi ripeto quella poesia di Nazim Hikmet: «I giorni sono sempre più brevi, le piogge cominceranno. La mia porta, spalancata, ti ha atteso. Perché hai tardato tanto?».
Questi versi non fanno altro che aumentare la mia tristezza. Ed eccomi qui, fragile e inconsolabile.
Il dolore riapre antiche ferite e mi costringe a ripensare a tutto ciò che ho perso. A ripensare a te. Così, dopo un lungo silenzio, mi rifaccio viva.
Dove eravamo rimaste? Cosa siamo diventate?
Sono passati cinquant’anni da quando le nostre strade si sono separate, e certo quel giorno non immaginavamo che sarebbe stato l’ultimo per noi. Che non ci saremmo mai più viste. Puoi credermi oppure no, ma lasciare l’Italia allora per me non fu affatto una rinuncia. Fu una scelta di vita che mi ha permesso di rinascere. Spero che per te sia stato altrettanto essenziale restare. Grazie a quella decisione ho di nuovo amato, tradito, riso molto, anche sofferto. E tu? Come hai vissuto, tu, in questi anni? Non c’è giorno in cui non me lo sia chiesto.
Adesso che non ho più alcun motivo per tenermi lontana da dove tutto è cominciato, mi piacerebbe rivederti. Non ho molto tempo. Le mie condizioni di salute al momento sono stazionarie, ma so che presto peggioreranno, perciò ho deciso di rimettermi in viaggio, prima che sia troppo tardi. Fra pochi giorni arriverò a Roma. Sarà come tornare indietro nel tempo, e la cosa mi riempie di felicità e paura insieme. Ho imparato a mie spese a non farmi illusioni, ma se ti dicessi di non avere il cuore pieno di speranza sarei una bugiarda.
Arriverò a Fiumicino a fine mese e il mio desiderio più grande è incontrarti un’ultima volta. Non ho altro modo di mettermi in contatto con te: mi affido completamente a questa lettera. Non mi aspetto che tu mi risponda, ma mi auguro che questa volta almeno la leggerai.
Il 28 busserò alla tua porta. Potremo parlare, ma non è indispensabile. Anche solo un abbraccio potrebbe bastarci, se il tempo, come spero, avrà sanato ogni ferita.
Tua Elsa
L’arrosto è quasi pronto. L’aroma è delizioso. Anche le verdure gratinate hanno un profumo invitante. Il grande orologio appeso accanto al frigorifero segna le undici e mezzo. Tra un’ora arriveranno gli ospiti, se così si possono chiamare gli amici di una vita: Giulio ed Elena, e Annamaria e Leonardo, che presto avranno un bambino. Mentre si gira verso il frigorifero, Sergio guarda di sfuggita la propria immagine riflessa nella finestra della cucina e per un attimo se ne compiace. È un bell’uomo, e sa di esserlo. Moro, capelli ricci e occhi castani, la fronte spaziosa, le labbra sensuali, a trentaquattro anni ha un fisico asciutto e muscoloso, senza però gli eccessi di chi è schiavo della palestra.
Alle sue spalle Giovanna si muove efficiente intorno al grande tavolo della cucina. Sono sposati da due anni, ma stanno insieme da dodici, e Sergio la conosce talmente bene che può indovinare cosa stia facendo anche a occhi chiusi. Ma sarà poi così? Bastano dodici anni per conoscersi davvero? Si volta. Giovanna, in tuta, sta apparecchiando la tavola per sei, con la concentrazione di un architetto che dispone le fondamenta di un palazzo, gli occhi azzurri assorti e pensosi. I corti capelli biondi un po’ arruffati le danno ancora l’aria della ragazzina che aveva abbordato nel bar dell’università, eppure hanno più o meno la stessa età. Come i loro amici, appartengono alla generazione che ha da poco superato i trenta. Sergio sorride tra sé: sa leggere sua moglie come un libro aperto. Solida, precisa, efficiente e affidabile. Se c’è qualcosa di cui non è dotata è l’imprevedibilità. E lui la ama per questo.
Solida come quel loro appartamento al Testaccio, all’interno di un fascinoso palazzo dei primi del Novecento, che hanno comprato nemmeno due anni fa, ma è come se ci stessero da sempre, perché rispecchia esattamente i loro gusti. Due grandi ambienti luminosi, la zona notte con la camera da letto, la cabina armadio e il bagno, e quella giorno con il salotto e attiguo studio e, soprattutto, un’accogliente cucina dove ricevere gli amici a pranzo la domenica, una consuetudine inaugurata anni prima e che nel tempo è diventata un rito irrinunciabile.
Sergio ama cucinare per gli amici. Durante la settimana è sempre di corsa, fra il tribunale e il suo studio di avvocato. Si occupa di diritto societario, ha a che fare con clienti danarosi, cause milionarie. Certo guadagna bene, ma il lavoro è stressante. Così, far da mangiare è il suo modo di rilassarsi. Da buongustaio qual è, nella vasta cucina superaccessoriata, piena di barattoli, spezie e piante aromatiche in vaso, si diverte a sperimentare nuove ricette. È lì, in cucina, che lui e Giovanna accolgono gli ospiti per il pranzo, seduti intorno al grande tavolo di legno scurito dall’uso, sistemato proprio al centro. Perché è la stanza che entrambi amano di più. Dove ogni arredo, mobile e suppellettile è stato scelto con una cura speciale.
Giovanna non ama le tovaglie, preferisce apparecchiare direttamente sul tavolo. Dopo aver distribuito i piatti e le posate, porta in tavola i bicchieri. Li dispone, fa un passo indietro e osserva l’effetto finale con occhio critico, come un artista che valuti il proprio dipinto al termine del lavoro. Sergio la osserva con la coda dell’occhio. È una perfezionista in ogni cosa che fa. Ora Giovanna sta prendendo dal frigo dei fiori di zucca e li mescola a un mazzo di peperoncini, poi aggiunge due melanzane baby.
Recupera da un armadio una ciotola di ceramica bianca e vi dispone soddisfatta la composizione: sarà un centrotavola perfetto.
«Accidenti, è quasi mezzogiorno e non mi sono fatta ancora la doccia!» esclama guardando l’orologio appeso alla parete della cucina.
«Tranquilla, vai: qui finisco io. Tanto con i fornelli ho terminato» la rassicura Sergio spegnendo il forno.
«Il pane è nel sacchetto bianco nella dispensa…»
«Vai vai, che ti trovano ancora in tuta!»
Messa di fronte a questa spaventosa eventualità – non sia mai che gli ospiti la colgano in disordine – Giovanna si dirige velocemente verso il bagno. Intanto Sergio apre la dispensa e trova subito quel che cerca: un grosso filone di pane casereccio. Ne affetterà solo la metà: il resto lo lascerà sul tagliere in modo da servirsene all’occorrenza.
Il rumore appena udibile di uno scroscio d’acqua lo avvisa che sua moglie è sotto la doccia. È in quel preciso istante che qualcuno suona il campanello della porta di casa, che introduce direttamente nella cucina. Devono essere Leonardo e Annamaria, quei due hanno il vizio di arrivare sempre troppo presto, pensa Sergio. Probabilmente hanno trovato il portone aperto.
«Siete sempre in anticipo, caz…» ma si interrompe imbarazzato.
Ha aperto la porta con impeto, senza guardare chi ha suonato, sicuro di trovarsi davanti la coppia di amici, e invece sul pianerottolo c’è una signora un po’ appesantita dall’età, deve aver passato la settantina. I capelli, tinti di biondo, le sfiorano le spalle lasciando intravedere un paio di preziosi orecchini antichi. Indossa un abito di lino color blu petrolio di ottima fattura, che le fascia la figura morbida senza evidenziarla troppo. Al collo porta una collana di ambra e tra le mani stringe un’elegante borsa ricamata. Il volto è solcato da una fitta rete di rughe, ma Sergio non ci fa quasi caso perché a catturarlo sono gli occhi, verdi e magnetici, sottolineati da una linea un po’ incerta di kajal.
Sergio la osserva, fra lo stupito e l’affascinato. Chi può essere quella donna? Di sicuro lui non l’ha mai vista. Anche lei lo guarda sorpresa. Anzi, più che sorpresa, scossa, proprio come se si fosse aspettata di trovarsi davanti un’altra persona. Poi getta uno sguardo obliquo verso la targhetta di fianco alla porta, quasi volesse controllare, ma non c’è scritto nulla. Sergio e Giovanna non hanno ancora trovato il tempo – e forse la voglia – di aggiungere i loro nomi, un atto di trascuratezza che ora all’uomo pare, all’improvviso, riprovevole.
Prima di poterle domandare cosa desidera, la sconosciuta, che nel frattempo sembra essersi ripresa dallo stupore, gli si rivolge sorridendogli in modo disarmante mentre lo fissa dritto negli occhi con aria innocente: «Mi scusi se la disturbo. Accidenti, presentarsi in questo modo, di domenica mattina, non si fa… No, non si fa!».
Sergio è così sorpreso che non gli viene in mente nulla di sensato da dire, ma non ce n’è bisogno perché lei a quel punto si presenta: «Mi chiamo Elsa Corti, molti anni fa ho abitato in questo appartamento».
Gli tende la mano e gli afferra la sua, come se non volesse più lasciarla andare. Al mignolo porta un anello d’oro, con un sigillo. E intanto, cerca di sbirciare oltre le spalle del padrone di casa, che non trova niente di meglio da fare che presentarsi a sua volta, declinando nome e cognome, e annuire in modo comprensivo, come se quella donna gli avesse appena confessato di avere commesso un terribile sbaglio.
«Lei crede nel destino?» gli chiede con aria speranzosa.
Sentendosi rivolgere una domanda così diretta, Sergio sobbalza. Da giovane, deve essere stata bellissima, si sorprende a pensare.
«Quando ho visto il portone aperto, è stato come se la casa mi chiamasse» continua Elsa. «Sono stata lontana da Roma così tanto tempo… Erano cinquant’anni che non passavo per questa strada. Stamattina sono uscita dall’albergo molto presto per fare due passi. Pensavo di andare verso il Colosseo, ma le mie gambe mi hanno guidata fin qui, dove tutto è cominciato. Mi guardavo intorno, ogni cosa sembrava diversa eppure stranamente uguale, e poi mi sono trovata davanti al portone ed è stato come se non me ne fossi mai andata. Così mi è venuta una nostalgia fortissima di rivedere la casa. Ma io la sto disturbando, mi scusi! Oggi non so proprio dove ho la testa.»
«Ma no, si figuri, capisco…» balbetta Sergio a disagio. «Capisco…» Non sa cosa dire di fronte a quell’inaspettato fiume di parole.
Elsa torna a scusarsi del disturbo, ma intanto continua a gettare sguardi avidi verso l’appartamento, come se custodisse qualcosa di estremamente vitale per lei. Poi si blocca e fa per andarsene.
«Allora, grazie e arrivederci. Magari, se non le dispiace, tornerò un’altra volta…» e indietreggia quasi a malincuore.
In una situazione diversa, Sergio coglierebbe al volo l’occasione per disfarsi di questa visita inopportuna che lo distoglie dalla sua routine domenicale e dai preparativi per il pranzo. Anche se non è determinato come Giovanna, che riesce a liberarsi di qualsiasi scocciatore in pochi istanti semplicemente cambiando tono di voce, un tono che non ammette repliche, non ama farsi troppo coinvolgere dai fatti altrui. Quella donna, però, l’ha turbato. Una strana curiosità gli sta intimando di trattenerla.
«Se vuole dare un’occhiata all’appartamento… però non ho molto tempo da dedicarle: sto aspettando degli ospiti a pranzo.»
«Lei è davvero molto gentile!» La sconosciuta si è di nuovo illuminata in un sorriso radioso. «Non si preoccupi, ci metto solo un minuto, il tempo di guardarmi in giro.»
Poi entra nella cucina e si ferma in mezzo alla stanza.
«Non sa quante emozioni ho vissuto qui dentro, ma ora sembra un’altra casa. Qui c’era una parete. E lì, la dispensa. I fornelli, certo… erano quelli di una volta» mormora mentre guarda come ipnotizzata un punto davanti a sé. Oltre la finestra.
In quel momento li raggiunge Giovanna. È vestita, ma i capelli sono ancora umidi. Ha sentito una voce che non le è familiare: cosa sta accadendo? Guarda l’estranea sorpresa, senza riuscire a trattenere un’espressione di contrarietà, mentre Sergio cerca di prevenire ogni sua domanda: «La signora è… Elsa Corti».
L’intrusa sorride a Giovanna e i suoi orecchini per un istante emettono un bagliore.
«Suo marito è stato così gentile da farmi entrare. Desidero solo vedere la casa dove un tempo ho abitato, e toglierò il disturbo» si giustifica gettando un’occhiata complice a Sergio. Sembra una scolaretta davanti alla maestra che l’ha sorpresa a commettere un qualche guaio.
Lo sguardo di Giovanna resta perplesso: chi è quella donna?
«Le ho detto che abbiamo ospiti a pranzo» si affretta ad aggiungere Sergio.
Ma Giovanna lo ascolta a malapena, la sua attenzione adesso è tutta concentrata sulla sconosciuta: nonostante l’età, trasmette una enorme energia. E poi, è affascinata da quell’abbigliamento così audace dal punto di vista cromatico, che mescola tonalità fredde e calde, il blu petrolio del vestito e l’ambra della collana. Lei, fedele fino alla noia al nero e al beige, per un istante si sente infinitamente più vecchia. Sì, Elsa ha una grazia speciale. Prima di rendersene conto, Giovanna ha abbandonato le sue riserve. Ricambia il sorriso. All’improvviso sente per quell’estranea che dice di aver vissuto nella sua casa un’empatia particolare.
«Quindi, un tempo abitava qui?» le chiede, scambiando un cenno d’intesa con il marito: hanno ancora qualche decina di minuti per ascoltarla. A questo punto, infatti, più che incuriositi, sono entrambi affascinati da quell’intrusa. Elsa, però, si limita a un vago cenno di assenso. Si avvicina alla finestra, lo sguardo fisso, come se stesse rivivendo un ricordo.
I due, sempre più intrigati, non si arrendono e la incalzano.
«Da sola?» chiede Sergio.
«Ha vissuto qui quando era bambina?» gli fa eco Giovanna.
Ma la donna sembra lontana con la mente. Si limita a rispondere a monosillabi e a borbottare tra sé parole incomprensibili: «No. Perché?… Forse…».
«Era ospite della signora che abitava qui prima di noi? O una parente?» mormora Sergio rivolgendosi quasi più a Giovanna che a Elsa, la quale però reagisce con sorprendente rapidità, risvegliandosi dal suo torpore: «Dov’è lei?» chiede.
«Lei chi?» ribatte Sergio.
«Intende la precedente proprietaria della casa?» suggerisce Giovanna.
«Sì, lei. Mia sorella.»
«Non abita più in questa casa da un paio di anni» interviene Sergio perplesso.
Anche Giovanna è turbata. Adesso prova un’inspiegabile tenerezza per quella donna.
«Non lo sapeva? Non siete rimaste in contatto?»
«No, purtroppo no. Ma è una storia lunga…»
Elsa ora li guarda contrita: sembra quasi essersi appena resa conto della realtà.
Giovanna ricorda bene la signora che ha venduto loro l’appartamento. Si chiama Adele Conforti, ha abitato lì una vita intera con la propria famiglia, poi la morte del marito l’ha spinta a liberarsi dell’appartamento perché troppo grande per una persona sola. Inoltre, si era giustificata, voleva avvicinarsi all’unico figlio. È molto strano: Elsa non assomiglia affatto a Adele Conforti.
«Pensavo abitasse ancora qui… speravo di trovarla» aggiunge lei con un filo di voce.
«Dunque, la sta cercando? Non voleva solo vedere la casa!»
«Sì, è così.»
«E non sapeva che aveva venduto l’appartamento e se n’era andata via…»
«No, non lo sapevo.»
Abbandonata a poco a poco la sua reticenza, Elsa rivela di non avere notizie della sorella da cinquant’anni. Intanto, senza preoccuparsi di chiedere il permesso, si muove per le stanze stranita ma, allo stesso tempo, con una sorta di sicurezza. Quasi che in quella casa ci vivesse ininterrottamente da sempre. Tallonata da Giovanna e Sergio un po’ disorientati, s’intrufola nella loro stanza da letto, si affaccia in bagno, apre la porta dello studio. E, intanto, non fa che ripetere quanto le spiace del disturbo che sta recando.
«Ora vado via. Vi lascio in pace. Si è fatto tardi, devo proprio andare» ripete come un automa.
Tornati in cucina, mentre fissa ancora una volta la finestra, «Avete più visto mia sorella?» chiede.
«Non di recente: l’ultima volta che l’abbiamo incontrata è stato dal notaio per il rogito, però in seguito l’abbiamo contattata qualche volta per telefono. Era arrivata della posta indirizzata a lei, così gliel’ho tenuta da parte e poi l’ho avvertita di mandare qualcuno a ritirarla» dice Giovanna, che si fa vanto di essere una persona efficiente e precisa.
«Ma sapete dove vive?»
«In campagna, in un paesino fuori Roma. Comunque, come le dicevo, abbiamo il numero di telefono» ribadisce Giovanna.
Quella donna, che la vita ha allontanato dalla propria famiglia per così tanto tempo, muove in lei un sentimento che è insieme di simpatia e compassione. Non può fare a meno di tentare di mettersi nei suoi panni, sebbene non sia facile. Deve essere straziante tornare a distanza di cinquant’anni – ben più di quanto lei abbia vissuto finora – nella propria casa e trovare tutto cambiato. Scoprire che è occupata da due estranei, che non c’è traccia dei propri cari. Chissà con quale ansia e aspettativa Elsa poco prima ha suonato il loro campanello. E quante volte avrà immaginato quel momento! Poi la porta si è aperta ed è apparso Sergio, uno sconosciuto. In quel momento, probabilmente, lei deve aver pensato che sua sorella fosse morta.
«Quindi potete darmi il suo numero?»
Elsa fa appena in tempo a formulare la domanda che suona il citofono.
Istanbul, 23 ottobre 1969
Cara Adele,
non sai quante volte avrei voluto farti avere mie notizie, ma qualcosa mi ha sempre trattenuta. Il dolore, credo. Dolore. Una parola che dice tutto, ma non spiega nulla. Hai mai notato che contiene il termine «dolo»? C’è ambiguità nella sofferenza. E solo tu puoi sapere quanto me fin dove possa portare. Quando ami davvero, devi essere pronta a tutto. Al fulmine e alla tempesta. Alla pioggia e alla siccità. Non puoi sapere fin dove ti spingerà quel sentimento che ti consuma. Non riesci nemmeno a distinguere la felicità dalla disperazione, perché in amore spesso l’una è la ragione dell’altra.
Adesso, però, non voglio più pensare al passato. Per me, partire è stato come salire sulla montagna più alta: mi affaccio dalla cima e ogni cosa mi appare minuscola e insignificante, mentre l’orizzonte si apre ai miei piedi, colmo di possibilità. Dovresti provarci anche tu. Il dolore rimane, ma resta acquattato in fondo all’anima, e tu ti senti invadere da uno strano senso di sfida. È quello che provo in questi giorni. Ho perso l’innocenza ormai e combatto quotidianamente per diventare una creatura più coraggiosa, scaltra e all’occorrenza feroce. Pronta a godere il presente, a ricominciare una nuova esistenza parlando una lingua straniera, circondata da estranei.
Non è facile, ti confesso. Ogni tanto, la forza di volontà mi abbandona e allora la disperazione mi invade. Ripenso a quanto ho perduto – a quanto abbiamo perduto – e mi lascio andare, letteralmente. Mi sdraio sul letto e vorrei solo morire. Ma poi mi faccio forza. E torno a sperare. Non in un futuro migliore, ma almeno differente. Ricaccio indietro le lacrime e mi costringo a sorridere. Funziona: sto scoprendo che il modo più efficace per restare a galla è obbligarmi alla spensieratezza. Dunque, preparati a una lettera piena di futilità, corteggiamenti, pettegolezzi.
Un tempo c’era solo una persona capace di ascoltare le mie storie. Tu. Ti immagino bambina quando fantasticavamo per ore in giardino, ricordi? E adesso che avrei mille cose da raccontarti, non so da dove iniziare.
Per non perdermi via, partirò da dove mi trovo.
Sono a Istanbul da quasi due mesi ormai. Mentre ti scrivo sento i richiami dei gabbiani che volteggiano davanti alla mia finestra. Se mi sporgo, li vedo volare radi sulle acque scintillanti del Mar di Marmara, per poi alzarsi oltre i tetti di una metropoli infinita. Dalla strada salgono attutiti i rumori della vita che scorre, le grida dei venditori ambulanti e i clacson delle automobili in transito. È il tramonto: il cielo è come un manto di velluto dai colori cangianti.
Ci crederesti? Istanbul! Nemmeno nelle nostre fantasie più sfrenate di bambine avrei mai immaginato che la vita mi avrebbe portata in un luogo così lontano, infinitamente più vasto del piccolo centro dove siamo cresciute. Credevo di trovare una città esotica e respingente, ma ho dovuto ricredermi. Istanbul mi ha accolta generosa, e coccolata facendomi sentire a casa. L’anima sensuale di questa città magica e potente mi ha già sedotta.
Se mi volto indietro stento a riconoscermi in quella ragazzina sofferente che un mattino all’alba se n’è andata via da Viterbo senza salutare nessuno, pur di non dare spiegazioni. Non era la prima volta che me ne andavo di casa a quel modo, ma sapevo che sarebbe stato diverso. Questa volta sarebbe stato per sempre. Mi sono avviata a piedi verso la stazione e sono salita sul primo treno per il Nord. Arrivata a Milano, ho proseguito il viaggio per Venezia. Lì sono andata alla biglietteria e ho chiesto qual era il treno che andava più lontano. «Alle ventitré dal binario 9 parte l’Orient Express, la sua ultima destinazione è Istanbul, in Turchia. Le sembra abbastanza lontano?» mi ha chiesto il bigliettaio guardandomi con sospetto. Ai suoi occhi devo essere apparsa una fuggitiva. Una criminale intenzionata ad abbandonare in tutta fretta il Paese per sfuggire alla giustizia. Non si stava sbagliando di molto. L’ho fissato dritto negli occhi e ho acquistato un biglietto di sola andata.
Erano le sette di sera, …
L’ autore
Ferzan Ozpetek, regista e sceneggiatore, è nato a Istanbul, ma dal 1976 vive a Roma. Nel 1997 esordisce con Il bagno turco (Hamam), cui seguono Harem Suaré, Le fate ignoranti, La finestra di fronte, Cuore sacro, Saturno contro, Un giorno perfetto, Mine vaganti (di cui nel 2020 firma la regia teatrale), Magnifica presenza, Allacciate le cinture, La Dea Fortuna. Ha inoltre diretto Aida (2011) e Traviata (2012). Ha vinto i più importanti premi e riconoscimenti cinematografici e nel 2008 il MoMa di New York gli ha dedicato una retrospettiva. Ha pubblicato nel 2013 il bestseller Rosso Istanbul e nel 2015 Sei la mia vita.