Disponibile dal 27 Gennaio 2022
In un piccolo villaggio della campagna inglese che sa di Jane Austen quanto di Čechov, mentre l’inverno imbianca il paesaggio si dipanano le vicende sentimentali e sociali di una piccola comunità: due sorelle corteggiate a intermittenza, un cugino che non sa cosa fare di sé, una ragazzina ribelle che cerca di evadere da un contesto familiare soffocante, e il forestiero Arnold Nettle, giovane e cagionevole musicista trasferitosi in campagna per fuggire l’inverno cittadino. Le lunghe serate trascorrono tra goffe conversazioni ed esibizioni musicali che sono le sole ad animare la calma che avvolge il paese. Tutti, in cuor loro, aspirano a qualche indefinito mutamento, sperano in un attimo epifanico che possa imprimere alla vita un corso più deciso, ma la voce dei protagonisti rimane in gola, così come il rumore dei passi si perde nel silenzio ovattato dell’inverno.
La solitudine della condizione umana è la grande protagonista di questa storia, tratteggiata con pochi tocchi delicati, simili a quelli che animano le corde del violoncello suonato nelle buie sere invernali. Dorothy Edwards firma un romanzo quieto, intimo, nel quale lo stato d’animo dei personaggi prende corpo accordandosi con la musica e con il paesaggio, mentre si comincia a intravedere, in fondo alle strade innevate, l’inevitabile arrivo della primavera.
«Ma la sera, dopo quella bella giornata, si alzò il vento e nel cielo fluttuavano grosse nuvole grigie. Violente raffiche irruppero nel villaggio squarciandone la quiete, abbattendosi su porte e finestre e facendo cozzare orribilmente i rami degli alberi gli uni contro gli altri.
Il vento soffiò a quel modo per tutta la notte, e al mattino le foglie dorate erano state strappate via dai rami spogli e giacevano sul duro terreno freddo e nelle strade, sotto gli zoccoli dei cavalli e le ruote dei carri.
Il vento era gelido e pungente. Era arrivato l’inverno».
1
Era una bellissima giornata; splendeva il sole e l’aria era tiepida. Chi ne aveva il tempo si affrettava a uscire nel caso quello fosse l’ultimo caldo prima dell’arrivo dell’inverno. Mr Arnold Nettle, il nuovo impiegato del telegrafo, si fermò per qualche minuto fuori dal suo alloggio prima di incamminarsi verso l’ufficio postale. Aveva il collo lungo, sottile e l’aria piuttosto delicata; in effetti era malato ed era venuto a lavorare lì per sfuggire all’inverno in città. Era arrivato la sera precedente, in un’atmosfera fredda, piovosa e deprimente, ma quel primo giorno il sole splendeva come a volergli dare il benvenuto. Dappertutto ormai gli alberi erano quasi spogli, ma qualche foglia dorata pendeva ancora dai rami scuri. Le linee nere e curve e le foglie dorate sembravano dipinte sul pallido cielo grigio. I raggi tiepidi spuntavano dalle nuvole impalpabili ma la terra si era già indurita in previsione dell’inverno ed era insensibile al sole.
Solo i bambini e i gatti del paese si lasciavano illudere da quel tepore. Il piccolo Alexander Clark, il bimbo della casa in cui alloggiava Mr Nettle, si tolse i vestiti in mezzo alla strada. Sua sorella Pauline, quando lo vide, lo schiaffeggiò fino a farlo piangere. Lo rivestì, sempre tenendolo saldamente per un braccio e strattonandolo di tanto in tanto, cosicché i singhiozzi gli uscivano a intermittenza. Poi lo lasciò seduto sul bordo del marciapiede. Un passante gli diede mezzo penny perché smettesse di piangere, ma il ragazzino della porta accanto glielo rubò quando nessuno poteva vederlo e Alexander, ancora in lacrime, prese a camminare tutto solo per la strada.
Sua sorella Pauline andò all’ufficio postale. Doveva fare delle compere per sua madre, ma voleva vedere il nuovo inquilino. La sera prima era arrivato tardi e quella mattina la madre non le aveva permesso di portargli la colazione in camera ma l’aveva fatto lei stessa. Pauline entrò e chiese un modulo per un telegramma. Arnold Nettle glielo diede. Era un giovane strano e vestito meglio di tutti i ragazzi del coro. Lei gli sorrise, poi si fissò i piedi e cominciò a strisciarne uno sul pavimento. Alzò di nuovo lo sguardo come se non riuscisse a trattenersi dal ridere. Nettle pensò che stesse ridendo di lui. Arrossì. La sua timidezza era evidente e, per di più, aveva una paura smisurata delle ragazze.
Le cime degli alberi più alti erano quasi completamente spoglie; si allungavano sullo sfondo del cielo grigio. Più su, sulla collina, tre piccoli abeti svettavano davanti a una casa bianca. Contro il bianco dei muri il loro verde sembrava più scuro. Olivia, la maggiore delle due sorelle che vivevano lì, scendeva dalla collina in un abito di lana bianca. Mentre avanzava tra gli alberi spogli e lungo la strada grigia e accidentata era difficile dire se quella figura bianca evocasse l’idea dell’estate che abbandona tristemente la terra o dell’inverno che le si avvicina furtivo.
Pauline si voltò per guardarla mentre le passava accanto, ma non perché fosse attratta dai significati simbolici che le si potevano attribuire, a interessarla era il suo vestito. Entrambe le sorelle Neran indossavano sempre begli abiti e per di più erano molto graziose. Olivia aveva un viso pallido, tondo e largo, occhi un po’ tristi e le ciglia ricurve che le davano un’aria innocente e infantile. Quando passò davanti all’ufficio postale, Arnold Nettle la vide dalla finestra. Voltò il lungo collo sottile per guardarla e quando uscì dalla sua visuale si sedette nuovamente alla scrivania e arrossì un poco cercando di non darlo a vedere.
Ma la sera, dopo quella bella giornata, si alzò il vento e nel cielo fluttuavano grosse nuvole grigie. Violente raffiche irruppero nel villaggio squarciandone la quiete, abbattendosi su porte e finestre e facendo cozzare orribilmente i rami degli alberi gli uni contro gli altri. Il vento soffiò a quel modo per tutta la notte e al mattino le foglie dorate erano state strappate via dai rami spogli e giacevano sul duro terreno freddo e nelle strade, sotto gli zoccoli dei cavalli e le ruote dei carri. Il vento era gelido e pungente. Era arrivato l’inverno.
A volte, quando andiamo in un luogo sconosciuto pieni di aspettative, capita che tra tutti i volti nuovi ne scegliamo uno in particolare a conferma che tutti i nostri desideri saranno esauditi; ed è probabilmente per questa ragione che Arnold Nettle, in seguito, tornò più di una volta con il pensiero a Olivia che attraversava il villaggio vestita di bianco, quel suo primo giorno, e ricordava ogni dettaglio di lei così vividamente da crederla l’araldo di un futuro migliore per la sua salute, salute che costituiva l’unico motivo per il suo trasferimento. Quando, pochi giorni dopo, lei andò all’ufficio postale per spedire un telegramma, si sarebbe potuto persino dire che fosse eccitato. Lei gli chiese un modulo e la cosa curiosa fu che lui non si sentì affatto intimidito. La guardò con la testa inclinata in modo un po’ goffo, le sorrise e le diede ciò che aveva chiesto. Lei non gli prestò attenzione, ma prese il modulo e cominciò a saggiare la punta dei pennini sui polpastrelli. Lui controllò il calamaio e andò a prendere dell’inchiostro per riempirlo, ne rovesciò un po’ e dovette pulire con la carta assorbente. Lei lo aiutò. Tutto avvenne come in un sogno; la sua mano non sfiorò quella di lei, o se così fu, lui la scostò con una certa naturalezza senza sentirsi in imbarazzo. Contò male le parole del telegramma e lei dovette correggerlo, ma a lui non importò nemmeno di quello, invece disse: «Oh, sì, mi scusi», e lei sorrise e annuì.
Mentre usciva girò la testa per guardarlo da sopra la spalla e chiese: «Partirà immediatamente?».
E lui a quel punto sorrise e con molta naturalezza rispose: «Sì, certo».
In seguito Mr Nettle ebbe la sensazione che forse non era andato tutto così liscio. L’inchiostro, in fondo, l’aveva rovesciato e c’erano molte altre piccole cose che non erano andate propriamente bene: che stupido era stato a sbagliare il conteggio delle parole. Ma per molto tempo dopo quell’incontro si sentì eccitato e felice, e conservò la netta sensazione che tutto, in realtà, si fosse svolto senza intoppi. Eppure era sempre stato molto timido.
Le sorelle Neran avevano sempre vissuto nella casa bianca con gli abeti insieme allo zio, ma questi era morto l’anno precedente e ora era venuta a stare con loro una zia. Lo zio era stato il fratello della madre; la zia era la sorella del padre. Aveva l’abitudine di recarsi al villaggio a piedi per fare compere. Era una donna piuttosto grassa che somigliava un po’ a un’oca e, proprio come le oche, aveva un’aria stupida e crudele. Non le piaceva molto vivere in campagna, ma non aveva nemmeno pensato di rifiutare di trasferirsi dalle nipoti. L’aveva seguita suo figlio, un ometto scuro, grasso, di indole buona e affabile. Diceva di studiare filosofia, e spesso assumeva l’aria di chi si crede importante.
Se a Mrs Curle capitava di incontrare qualcuno che, a suo parere, poteva intrattenerla in qualche modo si affrettava a farne la conoscenza. Quando vide il nuovo impiegato dell’ufficio postale si informò se fosse appena arrivato. Il direttore dell’ufficio postale era suo zio – ecco perché aveva scelto di trasferirsi proprio lì. Lo zio l’aveva chiamato e lui aveva dovuto alzarsi dalla scrivania e andare a parlare con lei da dietro il divisorio. Arrossiva e sorrideva goffamente e balbettava risposte alle domande di lei. Lei lo guardò senza sorridere e gli strinse la mano con fare un po’ distratto, ma quando rientrò a casa disse che aveva l’aria intelligente.
Quando si era trasferito aveva portato con sé il violoncello; lo sapeva suonare e aveva l’abitudine di esercitarsi a casa. Piegava il lungo collo sottile sullo strumento e guardava lo spartito appoggiato su una sedia davanti a sé. L’organista della chiesa era un amico di suo zio e quando venne a sapere che suonava il violoncello gli chiese di esibirsi a una serata che si sarebbe tenuta nella sala parrocchiale. Nettle non se la sentì di rifiutare, anche se cominciò immediatamente a tremare dal nervosismo.
La chiesa era esattamente di fronte al suo alloggio e stava attraversando la strada per andare a esercitarsi con il violoncello quando incontrò Mrs Curle e suo figlio. Stavano facendo una passeggiata. Era quasi sera. Mrs Curle avanzava lentamente, lo sguardo fisso davanti a sé, oltrepassò Mr Nettle, ma poi, attirata forse dalla sagoma del violoncello, si fermò e si voltò a guardarlo. Prese il figlio per il braccio e tornò indietro di qualche passo trascinandolo con sé.
«Ecco Mr Nettle», disse.
George Curle sembrò molto sorpreso, ma per cortesia sorrise.
«Sapete suonarlo?», gli chiese lei.
Tenendo il violoncello stretto tra le braccia, Mr Nettle sorrise e disse: «Sì».
«Stiamo facendo una passeggiata», disse George Curle per fare conversazione, ma sua madre lo interruppe e con tono perentorio esclamò: «Dovete venire da noi a suonare una sera. A che ora
hiude l’ufficio postale?».
«Alle sei», disse Mr Nettle.
«Vi farò sapere il giorno», concluse lei, tornando sui suoi passi.
George Curle lo salutò sorridendo e si avviò al seguito della madre.
Mr Nettle li seguì con lo sguardo un po’ stupito, perché non sapeva cosa pensare, poi aprì il cancello del cimitero e lo attraversò per raggiungere la sala sul retro della chiesa.
Non molto tempo dopo Mrs Curle inviò un messaggio all’ufficio postale per chiedergli di andare a trovarli quella sera. Mr Nettle era un po’ intimidito all’idea. Ma rifiutare era fuori discussione. Indossò il suo abito migliore, prese il violoncello e si incamminò lentamente su per la collina verso la casa bianca. Era più o meno a metà strada quando avvertì una sensazione di allarme, che non sapeva come spiegarsi. Ma dal momento che non poteva cambiare idea e tornare indietro, fece il tratto restante di buon passo. Oltrepassò il cancello e quando arrivò alla porta era ancora senza fiato e si fermò qualche istante per riprendersi prima di suonare il campanello. L’ombra di uno dei piccoli abeti si proiettava sulla porta alla luce della luna.
La porta si aprì di colpo, prima che lui suonasse. Quasi accecato dalla luce improvvisa, rimase nell’ingresso sbattendo le palpebre.
«Eccovi», disse George Curle. «Ho sentito il rumore del cancello».
Lo condusse in soggiorno. Olivia ed Eleanor erano lì e Mrs Curle sedeva con in grembo un gatto.
Mr Nettle sorrise timidamente a tutti e poi fissò lo sguardo sul gatto e se ne stette lì imbarazzato mentre George gli prendeva una sedia.
«Quella sedia non va bene», disse Mrs Curle, «è troppo bassa».
«È troppo bassa per voi?», chiese Eleanor, posando il libro sul tavolo e posando gli occhi su di lui con interesse. Lui le rivolse uno sguardo timido. Era molto giovane, quasi una scolaretta, tuttavia tanta sollecitudine lo metteva un po’ a disagio. Annuì timidamente.
George Curle andò a prendergliene un’altra. Nettle si sedette e tolse il violoncello dalla custodia, poi lo sistemò sul pavimento davanti a sé. Sentiva che tutti lo guardavano, quindi non alzò lo sguardo da terra. Eleanor però gli rivolse la parola.
Dorothy Edwards è stata una figura eccentrica rispetto all’establishment letterario dell’Inghilterra di inizio secolo: gallese, socialista e vegetariana, dopo la laurea in greco girò l’Europa impartendo lezioni di inglese. La sua raccolta di racconti Rhapsody (1927) la fece conoscere e apprezzare dalla critica e le aprì le porte del Bloomsbury Group, ma Londra non era il Galles e Dorothy tornò ben presto nella casa natia, dove si dedicò a tempo pieno alla scrittura. Morì suicida nel 1934. Sonata d’inverno è il suo unico romanzo.
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