Buongiorno amici lettori, ecco il libro che sto leggendo in questi giorni, le mie prime impressioni sono molte positive, infatti non riesco a smettere di leggerlo. I due personaggi mi hanno incuriosito fin dalle prime pagine.
Vi lascio un piccolo estratto.
Ringrazio la libreria Ubik di Varese, perchè è grazie a loro che sono venuta a conoscenza di questo romanzo.
Se volete ulteriori informazioni sotto trovate il link con tutte le date degli incontri di lettura.
https://www.librichepassione.it/2019/08/28/incontro-di-lettura-presso-la-libreria-ubik-di-varese-a-qualcuno-piace-freddo/
Sena responsabilità personale
Autrice: Lena Andersson
Traduzione dallo svedese di : Carmen Giorgetti Cima
Casa editrice: e/o edizioni
pubblicazione: 4 luglio 2018
pagine: 295
Trama
Il nuovo romanzo dell’autrice di Sottomissione volontaria
La protagonista è sempre Ester Nilsson che, cinque anni dopo l’infelice conclusione della storia con l’artista marpione Hugo Rask, raccontata in Sottomissione volontaria, si butta in una nuova avventura. Stavolta con l’attore Olof Sten, personaggio meno carismatico di Rask, ma anche più disponibile e apparentemente più “onesto”. Olof infatti non fa mistero di essere sposato (anzi, parla sempre della consorte in termini molto elogiativi) ma cede comunque all’attrazione esercitata da Ester, che diventa a tutti gli effetti la sua amante. Il guaio è che Ester anche stavolta non accetta questo ruolo e cerca di convincere Olof (e in primo luogo se stessa) che sono fatti l’uno per l’altra e che quindi lui dovrebbe lasciare la moglie per lei. Cosa che puntualmente non succede, nonostante i tentativi sempre più serrati di Ester, come sempre maestra di logica e di dialettica. La storia si protrae stavolta per ben tre anni e mezzo, fra alti e bassi, addii e ricongiungimenti, fino al colpo di scena finale.
Lena Andersson riesce anche stavolta a colpire nel segno illustrando un rapporto di coppia fondato sulle illusioni di una delle parti, e sulla debolezza e sostanziale vigliaccheria dell’altra. O, se vogliamo, l’insanabile diversità della visione dell’amore nella donna e nell’uomo. Il tutto raccontato con intelligenza e l’abituale sicurezza narrativa.
Estratto
PROLOGO
Uno degli ultimi giorni d’aprile, intorno all’ora di pranzo, un fioraio di Karlstad ricevette una richiesta singolare. Una gerbera fu ordinata per telefono da una persona che desiderava firmarsi sul biglietto di accompagnamento con un nome diverso da quello vero. Il fiore doveva essere consegnato alle 18 in punto allo Scalateatern di Västra Torggatan 1. Le istruzioni, minuziose e dettagliate, lasciavano trasparire l’angoscia che intervenissero intoppi e che quanto richiesto non venisse eseguito alla perfezione. Il tutto sembrava di estrema importanza per la committente.
Alle sei meno dieci una dipendente del negozio percorse a piedi il tragitto fino allo Scalateatern nella gelida sera primaverile, con una gerbera avvolta nella sua confezione e un biglietto che diceva:
Ti ricordi di me? Come potremmo mai dimenticare… Incontriamoci in Stora Torget qui a Karlstad alle 22. Porterò all’occhiello una margherita. Ilse.
Il fiore fu lasciato in biglietteria e la commessa spiegò chi lo dovesse ricevere, e che la consegna doveva avvenire durante il ringraziamento per gli applausi. Anche lei diede istruzioni minuziose e dettagliate, in modo che nulla potesse andare storto. Poi la commessa se ne tornò a casa da suo marito e durante la cena discussero domandandosi che tipo di rapporto potesse determinare iniziative del genere.
«Lei deve amarlo davvero molto» disse la commessa del fiorista, forse con qualcosa di nuovo e sognante nella voce, giacché il marito cominciò palesemente ad apparire disturbato e inquieto, lì seduto al tavolo della cucina, al posto che era sempre stato il suo.
«Non è certo l’amore a muovere quel genere di donne» disse.
«Credi che lui sia già occupato altrove?».
«Non ci si va a inventare una sciocchezza del genere per il proprio marito».
«Forse invece si dovrebbe».
«Se le donne si scegliessero uomini disponibili potrebbero risparmiarsi di fare certi salti mortali. Gli attori non sono forse famosi per le loro storie galanti?».
La commessa del fioraio depose coltello e forchetta e disse:
«La cliente era così ansiosa. Ha telefonato più volte per chiedere se avevamo scritto il biglietto nella maniera giusta e ricordarci di non mettere il suo nome, ma solo Ilse. L’ha compitato tre volte, e alle cinque e mezzo ha chiamato per controllare che stessimo per fare la consegna. Era imbarazzata e nel contempo decisa, persino pesante, ma è stata carina a chiedere scusa per averci dato tutto questo incomodo. Commovente, in qualche modo. Ma è ovvio che si rimane un po’ perplessi».
Ester Nilsson aveva raggiunto quella fase della vita in cui a ogni compleanno si diventa più vecchi. Se n’era resa conto quando aveva compiuto i trentasette. Nei cinque anni trascorsi da allora aveva pubblicato altri quattro volumi, piccoli ma densi di contenuto, due di poesia antilirica e due di indagini filosofiche. Sul fronte dell’amore era stata in piena e ininterrotta attività senza lasciarsi scoraggiare da lezioni inibitorie; più precisamente, riteneva che quel tipo di lezioni dovessero sempre controbilanciare il rischio di tedio e monotonia, di una vita passiva governata dalla paura del rifiuto e del fallimento.
In altre parole, si poteva affermare che non era diventata cinica. Soffriva invece di una sorta d’ingenua mancanza di pregiudizi: ogni situazione e persona era nuova, andava giudicata da zero e per i propri meriti, e bisognava offrirle la possibilità di opporsi ai diktat della natura e fare la cosa giusta.
Negli ultimi sei mesi aveva scritto il suo primo lavoro teatrale, che quell’autunno sarebbe andato in scena al teatro regionale di Västerås. La pièce era destinata a imprimere alla sua vita una nuova svolta, ma di questo era ancora ignara. S’intitolava Essere in tre ed era una malinconica analisi dei tormenti amorosi. Nelle intenzioni doveva trattarsi di realismo psicologico, ed Ester Nilsson era convinta di aver raggiunto ciò a cui aveva per l’appunto mirato, ma la critica l’avrebbe considerato piuttosto come teatro dell’assurdo.
Fu durante la lettura del copione, in agosto, che incontrò Olof Sten, uno degli attori prescelti. Ester non l’aveva mai sentito nominare e non lo riconobbe, ma già dopo quel primo incontro durato l’intera giornata avvertì un ben noto sfarfallio nello stomaco che non aveva nessuna intenzione di soffocare. C’era qualcosa nel modo in cui lo sguardo di lui, puro, vulnerabile e nudo, indugiava nel suo e nella voce profonda e melodiosa, in ciò che diceva e non diceva, nel fatto che dalle labbra non uscissero vuote banalità; piuttosto, Sten osservava una sobria moderazione che Ester apprezzava molto. Il resto erano agnizione ed effluvi chimici che s’incontravano e corrispondevano, e che non aveva senso mettere in dubbio o in discussione. L’innamoramento non ha parole né sintassi, per quanti tentativi si possano fare di irreggimentarlo nell’alfabeto.
Olof Sten indossava una camicia color rosso scuro che dava l’impressione di essere troppo pesante per la stagione, tuttavia lui sembrava sentirsi fresco e a suo agio. La prima domanda che Ester gli rivolse fu come si scrivesse il suo nome.
«Con la F e una sola E» disse lui, e la guardò una volta di troppo, come se avesse capito.
Essere in tre trattava di un uomo prigioniero di un matrimonio infelice, che incontrava un’altra donna ma non riusciva a lasciare sua moglie. La pièce non era profetica. Niente è profetico. Ciò che può sembrare profezia è solo attenzione acuita per qualcosa che è già successo. Ciò che è accaduto prima o poi accade di nuovo, da qualche parte, una volta o l’altra. E, non di rado, accade alla stessa persona poiché l’essere umano ha i suoi modelli di comportamento.
Quando nel pomeriggio il gruppo si sciolse disperdendosi qua e là Ester andò a cercare Olof Sten per fargli una domanda irrilevante che aveva impiegato qualche minuto a elaborare. Dal modo in cui lui la accolse, le parve evidente che non avesse legami particolari con nessuno. La sera Ester prese il treno per rientrare da Västerås con il desiderio che le imperversava nelle cellule, nei nervi e nel sangue. E, mentre risaliva Fleminggatan dalla stazione centrale, era già profondamente immersa in pensieri di abbracci e successivi sviluppi.
Il giorno seguente spedì all’indirizzo di casa di Olof, a Stoccolma, la sua ultima raccolta di poesie, accompagnandola con un saluto che aveva impiegato un buon momento a elaborare in modo da farlo apparire spontaneo e noncurante. Meno di una settimana dopo, quando Olof andò a casa per il fine week-end, arrivò una lettera di ringraziamento scritta a mano. Diceva che avrebbe letto il libro con grande interesse. Ester allora rispose domandando se non potevano incontrarsi per un caffè in occasione di una futura licenza dalle prove. Trascorsero ancora un fine settimana e un paio di giorni, dopo di che lui telefonò da Västerås per dire che aveva letto il suo libro e che gli era piaciuto. Riguardo al caffè invece non disse nulla. Nulla che Ester afferrò, in ogni caso. Molto più tardi capì che aveva risposto di sì alla sua proposta, ma in maniera così criptica e indiretta che lei non l’aveva capito: durante la loro conversazione lui aveva menzionato un caffè in Skånegatan che non aveva mai notato prima, dicendo che nel week-end ci era passato davanti e gli era sembrato carino. C’era mai stata?
Erano ancora in una fase troppo precoce del loro legame perché Ester comprendesse che a lui avrebbe fatto piacere incontrarsi per un caffè. Ancora minore era la sua possibilità di intuire che era proprio ciò che aveva appena espresso, quando alla mancanza di reazione di Ester aveva aggiunto che lui non amava molto né il caffè né stare seduto in un caffè, ma che ovviamente poteva fare un’eccezione quando in zona apriva un nuovo locale.
Il tutto era molto sottile, e intenzionale. Col tempo Ester si sarebbe abituata alle risposte affermative camuffate da negazioni di Olof Sten, diventandone l’esegeta più esperta.
Poiché non pensava di aver ricevuto un sì alla proposta del caffè, Ester si tirò indietro con la sgradevole sensazione di aver male interpretato i segnali, e una blanda tristezza per il fatto che nessun incontro estatico si sarebbe concretizzato dalla palese tensione che si era creata fra loro.
Il suo silenzio indusse Olof a telefonare una settimana più tardi per chiedere se potevano incontrarsi per discutere alcune questioni che riguardavano la recitazione del suo ruolo, quello che lei aveva scritto. Aggiunse che aveva un appuntamento dal dentista. A Stoccolma, mercoledì. S’incontrarono al Pelikan davanti a un piatto di maccheroni e salsiccia di Falun, e iniziarono un dialogo.
Olof ed Ester erano come due ruote dentate. Le ruote dentate non si uniscono e non si fondono. Non perdono la nozione di dove cominci una e finisca l’altra, ma si presuppongono a vicenda, vengono spinte avanti dal movimento reciproco, perfettamente regolate l’una sull’altra. Così pareva a Ester. Da sola, una ruota dentata è soltanto un immobile artefatto con delle sporgenze, senza particolari funzioni o direzione. Il che non è nulla di sbagliato in sé, ma per ottenere il movimento e perché l’insito potenziale e lo scopo della ruota dentata si realizzino, ne occorrono due. Purtroppo funziona anche con tre, dal punto di vista meccanico funziona addirittura splendidamente.
Olof Sten risultò essere sposato da una decina d’anni con un medico che lavorava all’ospedale di Borlänge e trascorreva i fine settimana nella loro comune dimora nel quartiere di Södermalm a Stoccolma. La moglie si chiamava Ebba Silfversköld ed era la figlia del defunto pittore Gustaf Silfversköld, considerato un protagonista incontestabile della storia culturale svedese ancorché rappresentante di un’epoca offuscata da dubbie simpatie. Olof e sua moglie vivevano dunque ognuno per conto proprio ma stavano insieme nei fine settimana e d’estate. Entrambi avevano figli ormai grandi e autonomi da precedenti matrimoni.
Tutto ciò fu per Ester una forte delusione. Olof non aveva né nascosto né sottolineato il suo matrimonio, semplicemente era un argomento di cui non avevano mai parlato, ma Ester pensava che forse lui avrebbe comunque potuto menzionare l’esistenza di una moglie, anziché usare la prima persona singolare ogni volta che parlava della propria vita. Una volta che la delusione si fu placata pensò invece che tale comportamento, unito allo straordinario legame che lei e Olof avevano rapidamente creato fra loro, indicava che il matrimonio era agli sgoccioli. Non si poteva pensare altrimenti.
Qualche volta doveva pur essere diversa dalle altre, non poteva essere tutto sempre uguale e gli esseri umani non erano identici. Se avesse fatto un numero sufficiente di tentativi, un bel giorno il corso degli eventi avrebbe coinciso con la sua visione di come dovrebbe andare il mondo.
Un mese dopo il loro primo incontro Ester, vibrante di languore sotto tutti gli aspetti, telefonò a Olof un venerdì sera, quando sapeva che sarebbe stato solo nella sua casa di
Stoccolma. Ebbero una lunga conversazione. Più o meno a metà di essa, lei menzionò il fatto che lui era sempre nei suoi pensieri. La risposta di Olof arrivò immediata e colmò Ester Nilsson di una sorta di gas euforizzante che la portò in paradiso mentre stava stesa sul suo letto nell’appartamentino di Sankt Göransgatan.
«La cosa è reciproca» disse lui, e menzionò come di sfuggita che la moglie era di turno e sarebbe arrivata solo il giorno dopo, dopo di che vi fu una pausa prima che aggiungesse:
«Perciò che cosa facciamo adesso?».
Alle alte quote i pensieri diventano più labili, per cui Ester non diede alcun peso al fatto di aver ricevuto una domanda formulata esattamente negli stessi termini e con gli stessi intendimenti già in passato, con effetti indesiderati.
Che cosa facciamo? pensò. Io mi struggo di desiderio e tu cominci a pianificare il tuo divorzio, ecco che cosa facciamo.
«Possiamo andare a bere qualcosa la prossima volta che sarai a casa» disse.
«Va bene».
«Ho pensato a una cosa che hai detto ultimamente».
«Che cosa ho detto?».
«Che tu eri “nomade dentro” e hai sempre voluto rimanere tale. E che “gli attori sono persone senza identità”, persone “senza nucleo”. È un argomento che vorrei approfondire. Credo che avere un io mobile sia un bene, se è questo che intendi, ossia non credere di essere e rimanere unici e indivisibili. In questo modo si diventa meno rigidi, poiché non esiste nessun sacro io da tutelare».
Avrebbe avuto occasione sia di udire sia di vedere di più sull’argomento, e anche di ritoccare le sue idee in proposito. Ester si rallegrò del fatto che lui fosse capace di osservazioni precise, ma non era stato quello ad attrarla, poiché l’innamoramento non è sofisticato ma primitivo. Si amano coloro che concedono libero spazio a quelle parti di sé con cui ci si sente a proprio agio, a prescindere che siano putride o sane, abrase o perfettamente lisce e splendenti.
«Credo che nessuno in precedenza abbia mai voluto sapere di più su ciò che ho da dire» commentò Olof.
Dopodiché Ester rimase stesa a espandersi fino a mezzanotte passata. Sul fatto che il matrimonio di Olof fosse in via di disfacimento non sussistevano dubbi. C’era solo da aspettare.
La prima di Essere in tre era andata in scena a Västerås. Ogni settimana l’affluenza di pubblico cresceva, per via del passaparola su ciò che si vedeva e sperimentava in sala. L’attrice che interpretava l’amante raccontò a Ester, venuta per assistere alla rappresentazione, che era possibile capire dal respiro, dai sospiri e dai versi del pubblico se fosse costituito in prevalenza da mogli o da amanti.
A metà ottobre Olof telefonò inaspettatamente un lunedì in cui non c’erano rappresentazioni, e chiese a Ester se avesse voglia di accompagnarlo a una galleria di Karlavägen che esponeva opere di Gustaf Silfversköld, scomparso da non molto all’età di 102 anni. L’artista aveva conosciuto il suo periodo di maggior splendore sul finire degli anni Trenta e per un certo tempo a seguire.
Olof aveva bisogno di parlare con la gallerista per conto di Ebba. A Ester non piacque la maniera disinvolta con cui Olof nominò la moglie, ma il fatto che lui volesse portare Ester con sé alla galleria era ovviamente promettente.
Quando se ne andarono Olof le chiese che cosa pensasse dell’arte di Gustaf Silfversköld. Ester disse che le era parsa pesante, reazionaria e antiquata.
«Esattamente com’era lui» commentò Olof, con una risatina chioccia e molto divertita.
L’autunno avanzava e i marciapiedi erano coperti di foglie gialle. Camminarono senza meta precisa e finirono in un ristorante della catena Jensens Bøfhus in Sveavägen. Erano le quattro. Alle sei Ester doveva partecipare a un seminario all’ABF1 qualche centinaio di metri più in là. Olof mangiò una bistecca mentre Ester ordinò solo una tazza di tè verde poiché si era accordata con uno degli altri partecipanti per cenare insieme dopo il seminario.
Circondata dalla sterilità senza ombre della catena di ristoranti e con in sottofondo il brusio della macchina del gelato soft intesa ad attirare famiglie con bambini, quel pomeriggio Ester Nilsson disse a Olof Sten che lui era l’uomo con cui voleva dividere la vita. Erano rimasti seduti a chiacchierare pigramente e lei aveva cominciato a temere che il tempo fuggisse via senza che fosse riuscita a esporre la cosa importante che aveva deciso di comunicargli quel giorno. E fu proprio così che disse:
«Io voglio dividere la mia vita con te».
Questa volta doveva essere chiara fin dal principio, pensò. Non dovevano sussistere dubbi.
Olof sobbalzò contro lo schienale della sedia, ed esclamò:
«Ma se quasi non mi conosci!».
L’obiezione mise Ester in imbarazzo poiché era vera, ma decise di non fare marcia indietro.
«Ti conosco abbastanza da saperlo. E presto ti conoscerò meglio».
Olof cominciò a lacerare il tovagliolo di carta con l’aiuto di un mazzo di chiavi che aveva tirato fuori nervosamente di tasca. Ester non disse più nulla. Era consapevole di agire senza tattica e contro ogni buon senso, ma era stanca di aspettare individui titubanti che dovevano decidersi, e voleva chiudere a Olof la possibilità di eclissarsi adducendo che le sue intenzioni erano state fumose e che avrebbe dovuto capire quali fossero le condizioni dal momento che lui era impegnato. Intendeva costringerlo a una risposta in quella fase precoce, per sapere se andare avanti oppure rompere seduta stante.
Olof non disse di no, quella era la cosa importante, che non disse di no. Abbassò gli occhi sul tavolo dove il tovagliolo giaceva ormai a brandelli, poi la guardò tutto serio e replicò:
«Non è cosa di tutti i giorni sentirsi dire che qualcuno vuole dividere la propria vita con te. È chiaro che ti lascia turbato».
Nel mese che seguì non si sentirono ma si videro ancora in un’occasione. Fu quando Ester andò a Västerås per vedere la messa in scena del proprio lavoro. L’incontro fu formale e lui si tenne a distanza, il che la indusse a voltargli le spalle in preda a profondo sconforto, ma Olof subito prima che lei se ne andasse via le mormorò all’orecchio:
«Cerchiamo di vederci quando le repliche saranno finite e io rientrerò a Stoccolma».
Dopo, l’autunno procedette pieno di speranza e di brama mentre il cuore di Ester si dilatava rovinosamente.
Un paio di giorni più tardi l’ultima replica Olof telefonò e propose un pranzo al Blå Porten nella quiete di Djurgården. La scelta del posto significava tempo per stare insieme in comunione profonda, indicava l’inizio di un’altra fase e uno spostamento della bussola dal vecchio verso il nuovo, lasciava intendere che Ester aveva avuto ragione nei suoi calcoli, soprattutto considerato che lui voleva che raggiungessero il ristorante in battello.
Il giorno in cui tutto avrebbe potuto avere inizio arrivò. Avevano deciso di incontrarsi alle dodici all’imbarcadero. Ester faticava a deglutire per l’impazienza. Nel suo appartamento, che ancora dopo cinque anni non aveva ammobiliato a dovere poiché era sempre stata pronta a lasciarlo, ostacolata solo dal fatto di non avere nessun altro posto dove andare, quel mattino aveva cambiato le lenzuola e steso sul tavolo della cucina una tovaglia di tela cerata dell’azienda di design 10-Gruppen acquistata il giorno prima in Götgatan. Un po’ più giù lungo la stessa strada aveva anche trovato tre graziose lampade in stile Jugend che adesso facevano bella mostra di sé sui controdavanzali. Era novembre inoltrato e sempre buio. Ester calcolava di poterle accendere quel pomeriggio per Olof.
Alle dodici in punto era giù sul molo ad aspettare nell’aria umida. Era una di quelle giornate in cui nulla si muoveva, tutto era immobile. Olof arrivò con un quarto d’ora di ritardo. Ester era fermamente decisa a non fare commenti al riguardo, ma vide che c’era dell’inquietudine nel suo modo di muoversi. Pensò che fosse per l’emozione al pensiero di tutto ciò che li attendeva; in fondo si trattava di un passo molto importante da fare.
La prima cosa che lui disse quando arrivò fu che era inutile andare fino al Blå Porten; potevano scegliere qualche posticino più semplice nella città vecchia, in modo da risparmiare tempo. Di fronte alla silenziosa ma evidente costernazione di Ester cambiò idea e fecero i biglietti. Erano pressoché soli nella traversata verso Djurgården e, nei pochi minuti che durò, Olof fece più volte il nome della moglie. Quando si accorse che ciò rendeva Ester abbattuta e distratta smise di menzionarla, ma la cosa continuò a opprimere Ester mentre percorrevano a piedi il breve tragitto dal pontile al ristorante in mezzo a cumuli di foglie d’acero.
Era un giovedì e la coda al Blå Porten era insolitamente breve. Scelsero aringhe del Baltico fritte con purea di patate e composta di mirtilli rossi e si sedettero a un tavolo al centro del locale, a debita distanza da orecchie indiscrete. Olof afferrò le posate puntandole verso l’alto, pronto ad attaccare il piatto ma non prima di aver detto quello che doveva dire. La guardò. Il cibo luccicava di grasso nel piatto. Era come se Olof si stesse accingendo a prendere la rincorsa. Ester fece in tempo a pensare che teneva le posate come un bambino e che era una cosa incantevole. Poi non pensò più a niente d’incantevole, giacché lo udì affermare con la tranquilla enfasi che si crea quando ci si è fatti coraggio vincendo le proprie resistenze:
«Io credo che tu abbia creato un Pigmalione».
Ester non capiva che cosa intendesse, ma intuì che non era niente di buono. La mente le si offuscò e si fece immobile, silenziosa, fredda. Olof si sentì sotto pressione, per cui spiegò:
«Hai creato un personaggio di cui ti sei innamorata».
Per lei fu molto deprimente vedersi ascrivere una tale incapacità di tenere sotto controllo se stessa e i propri sentimenti.