Sinossi
Vogliono sua figlia. E non si fermeranno mai…
Roz è giovane, incinta e senza soldi. Vorrebbe essere una buona madre, ma più ripensa alla propria infanzia, più si convince che la cosa migliore per la figlia sia vivere lontano dall’Irlanda e, soprattutto, da lei.
Determinata a fare la cosa giusta, si iscrive così a un servizio di adozioni per persone ricche. Dopo pochi giorni le viene chiesto di andare a New York per incontrare una facoltosa coppia interessata ad adottare la sua bambina. Sheridan e Daniel sono molto benestanti e alla moda: tutto il contrario di Roz. Si preannuncia per la piccola un futuro luminoso. Non patirà mai la fame e avrà la possibilità di vivere una vita piena di opportunità. Ma dopo essersi trasferita nell’elegante appartamento che le è stato riservato, Roz comincia a sospettare che qualcosa di oscuro si nasconda dietro il loro scintillante benessere. Troppi misteri aleggiano tra le stanze dello sfarzoso appartamento… E con la data del parto che si avvicina, Roz inizia a temere che, nonostante le sue migliori intenzioni, potrebbe avere trascinato sé stessa e sua figlia in un vero incubo…
Un’autrice da 5 milioni di copie
Bestseller internazionale
Al 1° posto del New York Times, USA Today e Washington Post
«Un thriller adrenalinico, pieno di colpi di scena. Mi ha dato i brividi e ho adorato ogni minuto di questa lettura!»
Robert Bryndza, autore del bestseller La donna di ghiaccio
«L’esempio perfetto di un thriller avvincente. Non riesci mai a capire quale sia la verità fino all’epilogo sorprendente. Un romanzo fantastico.»
John Marrs, autore del bestseller La coppia quasi perfetta
«Geniale e deliziosamente inquietante. Iniziate a leggerlo solo quando siete certi di potergli dedicare un’intera giornata, perché non riuscirete a chiuderlo.»
Sibel Hodge, autrice del bestseller Guarda dietro di te
«Oscuro, scioccante e terribilmente intrigante.»
Mel Sherratt, autrice del bestseller La ragazza della porta accanto
Estratto
A Isaac
A che prezzo la paghiamo, la gloria della maternità.
Isadora Duncan
Prologo
Roz
2019
Mi accarezzai delicatamente il pancione. Era difficile scendere a patti con l’idea che, dietro quella pesante parete di carne che andava espandendosi, battesse il cuore della mia bambina. Non era solo una gravidanza indesiderata: era ciò che mi teneva in vita.
Se solo avessi dato ascolto a Dympna… lei mi aveva avvertita che stavo facendo uno sbaglio. Pensando alla mia amica, lontana chilometri e chilometri, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Quanto sarebbe stata diversa la mia vita se avessi seguito il suo consiglio. Il senso di colpa mi risucchiò come se fossi finita nelle sabbie mobili, trascinandomi giù fino a togliermi il fiato. Era stato il miraggio di New York ad attirarmi, più di ogni cosa? O forse le vane promesse che mi erano state fatte? Asciugai le lacrime con il dorso della mano. Come avrei mai potuto prevedere che sarebbe finita così?
«Va tutto bene, pisellina», sussurrai alla creatura che presto sarebbe nata. «Sei al sicuro».
Ricacciai giù i pensieri, perché la piccola non sentisse la mia paura. Lei si mosse e spinse contro la mia gabbia toracica. Il pensiero del suo arrivo al mondo mi preoccupava tanto da farmi stare male. Non era l’idea del parto a spaventarmi; era la paura di ciò che sarebbe accaduto dopo la sua nascita. Mi premetti una mano sulla bocca per soffocare l’urlo che mi cresceva in gola. Controllati. La mia sopravvivenza dipendeva dalla mia capacità di rimanere calma, concentrata e pronta.
Una porta sbatté al piano di sopra, poi seguì una discussione ovattata. Sapevo che parlavano di me. Il mio alloggio era lussuoso ma non insonorizzato, e avevo imparato molte cose su quelle persone là sopra. Mi mossi lentamente e afferrai una sedia, le cui zampe rigarono il pavimento di legno mentre la trascinavo verso la bocchetta di aerazione. Mi ci inerpicai sopra, cercando di tenerla ferma. Era pericoloso, ma quello era il punto migliore per sentire cosa stava succedendo al piano superiore. Trattenni il respiro e cercai di afferrare qualche parola chiave. Credevano che non potessi sentirli, ma io sapevo bene di cosa erano capaci. Tirai su, con il naso che si stava chiudendo. L’aria era troppo secca e troppo fredda, mi venne la pelle d’oca. La discussione scemò verso un tenue mormorio. Avevano preso una decisione.
Scesi dalla sedia, i nervi tesi e l’adrenalina che mi scorreva nelle vene. Ora o mai più. Dei passi attraversarono il pavimento sopra di me. Con le mani che tremavano, afferrai il coltello che tenevo ben nascosto tra le pieghe del vestito premaman. Era piccolo ma abbastanza affilato da far male, da ferire. Avevo forse scelta? Il cuore mi rimbalzava selvaggio contro il petto e avevo il respiro corto, rapido. Stavano arrivando.
Non c’era un secondo da perdere. Mi spostai in punta di piedi verso il lato dell’armadio, con le dita serrate attorno al coltello. L’ascensore vibrò trasportando i suoi occupanti al mio piano. Un campanello annunciò il loro arrivo. Trattenni il fiato mentre le porte si aprivano.
Era giunto il momento.
Capitolo uno
Roz
Ottobre 2018
«Quanto devono essere distanziate le gambe perché le cosce non si tocchino?».
Con un top e i suoi jeans più attillati, Dympna si osservava nello specchio a figura intera della mia stanza. Io stavo stesa sul letto, la testa troppo piena di preoccupazioni per prestarle attenzione.
«È sparito. Andato per sempre», si lamentò, piangendo la scomparsa di quel fondamentale spazio tra le cosce. «Voglio dire, guardami, sono una balena!».
Non era una balena. Carismatica, capelli rossi, bella nella sua morbidezza. Io gliele invidiavo, quelle curve. Eravamo amiche fin da quando, a quattro anni, aveva condiviso con me un sandwich a scuola. La gente diceva che eravamo una bella coppia, lei con i suoi capelli rossi, io con i ricci biondi che mi ricadevano sulle spalle. Ci chiamavano Crema e Pinoli. Eravamo inseparabili. Avevamo fatto le scuole insieme; ogni domenica, per un’ora, sedevamo vicine a messa; avevamo perfino trovato lavoro come cameriere nello stesso hotel, il Jurys. Diventare coinquiline era stato naturale. Ma l’affitto a Dublino costava troppo, una cifra astronomica, se paragonato alla mia città natale, Ferbane, e non avevo il coraggio di
dire alla mia migliore amica che avevo appena perso il lavoro. E magari fosse stato solo questo! C’erano nuvoli parecchio più scuri all’orizzonte, per me. Le implicazioni mi colpirono come un pugno allo stomaco, che subito cominciò a contrarsi.
«Sei splendida», dissi, prendendo una fetta di pizza dalla scatola sul letto. Un’altra ondata di nausea mi travolse mentre sbocconcellavo la crosta. Ero riuscita a malapena a mangiare da quando avevo scoperto la novità.
«Immagino tu abbia ragione», sospirò Dympna, che si lasciò cadere vicino a me, facendo sobbalzare il materasso. Afferrò una fetta della mia pizza. «E poi il curvy va di moda. Il sedere di Kim Kardashian è il doppio del mio».
«Allora ne hai di strada da fare. Ti conviene finire la mia parte». Lo dissi ridendo ma dentro di me ero stordita. Rimisi la fetta di pizza nella scatola e realizzai che, da sola, non ero in grado di affrontare la cosa. «Oddio», sospirai mentre mi saliva un nodo in gola, «che cosa farò?».
Dympna si paralizzò a metà boccone.
Era sempre stata lei quella forte. Dopo che la sua famiglia si era trasferita a Dublino, mi aveva incoraggiato a fare altrettanto. Aveva trovato l’appartamento e il lavoro, perfino imparato a guidare. Io, di contro, ero quella creativa, irrequieta e troppo impulsiva per prendermi cura di me stessa. Da quando ero andata a vivere con lei, però, ero cresciuta e avevo trovato una routine stabile. E adesso eccomi qui. Sprofondata nel senso di colpa, intrappolata in una situazione senza uscita. Il panico mi divorava mentre piangevo come una bambina, con enormi singhiozzi che mi chiudevano la gola.
La scatola di pizza scivolò a terra mentre Dympna mi abbracciava, e mi accorsi che la sua fetta mi si stava appiccicando ai capelli.
«Che succede? Che c’è che non va?», chiese, stringendomi forte.
Finsi di aver bisogno d’aria. Dympna era sempre stata un’amante degli abbracci, era la sua risposta a tutto. Una volta aveva addirittura abbracciato un’insegnante, quando quella era crollata in classe. Prima gli abbracci, poi le domande: era questo il suo motto. Meno male che era una femmina. In effetti, però, mi fece sentire meglio, anche se ora i miei capelli puzzavano di formaggio. Con la coda dell’occhio notai che alcune ciocche bionde erano striate di salsa di pomodoro.
Divincolandomi dalla sua stretta, mi preparai a darle la notizia con cui io stessa ancora non riuscivo a venire a patti.
«Sono incinta», dissi d’impulso, incapace di guardarla negli occhi. Mi fissai un’unghia – avevo lo smalto rovinato – e rimasi in attesa della predica. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era una lezione sulla contraccezione. Era stato un incidente, ero troppo ubriaca per controllarmi.
«Oh, misericordia!». Dympna aveva ereditato quell’espressione dalla madre e la riservava di solito alle notizie catastrofiche. Mi guardò attonita e sconvolta. «Ma chi? Quando? A che punto sei? Hai intenzione di tenerlo? E tua madre, il tuo patrigno… loro lo sanno?».
Le domande le uscivano veloci come pallottole, facendomi girare la testa. Per fortuna non aveva fatto quella che temevo di più.
«Chi è il padre?».
Appunto. Il mento cominciò a tremarmi mentre le lacrime minacciavano di sgorgare di nuovo. Se avessi pianto non avrei dovuto rispondere. Almeno quello. Ma sapevo che Dympna non avrebbe mollato la presa tanto facilmente.
«È stato un incontro occasionale», dissi, prendendo un fazzoletto e soffiandomi il naso. «E prima che tu me lo dica, lo so. Sono stata stupida, ero ubriaca e il preservativo deve essersi sfilato».
«E non prendevi la pillola?», fu la sua immediata risposta. «Sei matta?».
Le sue parole severe e giudicanti mi fecero sentire ancora peggio. Non ero il tipo di persona che finiva a letto con il primo che passa. Quel giorno mi sentivo uno schifo per via delle mie difficoltà economiche e, quando lui mi aveva detto che mi avrebbe aiutato, be’, avevo ceduto. Era da molto tempo che qualcuno non era così premuroso verso di me. Ma la mia amicizia con Dympna era più importante di qualsiasi cosa. Non doveva venire a sapere chi fosse il padre.
«Se avessi voluto una predica, l’avrei detto a mia madre», piagnucolai. Un’altra persona che non avrebbe mai dovuto saperlo.
«Scusami». Dympna aggrottò la fronte nel tentativo di cavarsi d’impaccio. «Cosa intendi fare?».
Le rivolsi un sorriso poco convinto, tormentando il fazzoletto ormai zuppo di lacrime. Non pensavo ad altro fin da quando il test aveva confermato le mie peggiori paure. A ventiquattro anni ero abbastanza grande per crescere un bambino, ma non ero certo pronta a fare la madre. Volevo viaggiare per il mondo, vivere esperienze da ritrarre su carta, disegnare le persone che avrei incontrato. La mia indole artistica mi portava a desiderare l’avventura. Volevo una vita fuori dall’Irlanda e dalla bolla in cui ero cresciuta.
Dympna mi guardò speranzosa. Voleva che tenessi il bambino. Avevamo parlato un sacco di volte di quale passeggino avremmo comprato non appena fossimo diventate madri. Lei voleva qualcosa di moderno e alla moda, mentre io fantasticavo su una classica carrozzina marca Silver Cross. Ma avere un figlio il prima possibile era il suo sogno, non il mio. La sua relazione con Seamus era diventata sempre più solida negli ultimi sei mesi. Non volevo certo costringere una sfortunata creatura a un’infanzia come la mia.