Trama
Finalista al Premio “1 Giallo x 1.000” III edizione
All’inizio del Settecento, la porcellana cinese è ambita da nobili e famiglie regnanti. Ma la sua formula è protetta dal segreto di stato da parte della Cina e vani sono tutti i tentativi per riprodurla. Un alchimista tedesco, Bottger, viene arrestato a Dresda e condotto al palazzo reale dal re di Sassonia, convinto che egli possa scoprirne la formula. Nel suo lavoro viene supportato dall’amico, il fisico Von Tschirnhaus. Tuttavia la ricerca rimane infruttuosa finché per caso i due non s’imbattono nella vicenda di una misteriosa donna alchimista, Osmolinda, vissuta due secoli prima…
Estratto
A mio padre, nell’iperuranio
1
DRESDA, 1707
Segrete del castello di Grossedlitz
Il prigioniero si dimenava spasmodicamente nelle catene e non smetteva di urlare.
«Sono Bottger! Sono un famoso alchimista! Non sono un criminale! Perché mi avete portato qui? Chi mi ha fatto arrestare? È un errore! Liberatemi! Voglio parlare con il principe! Portatemi da lui!».
Le guardie continuarono la loro partita a dadi, senza curarsi delle sue urla. Ogni tanto trangugiavano un boccone e tracannavano birra.
Nessuno rispose al prigioniero.
Parco del Castello di Grossedlitz
L’unica regola era centrare il bersaglio. Tutto il resto per lui non contava.
Il principe avvertiva la tensione dei muscoli del suo polso destro, che formava un tutt’uno con la corda dell’arco. Assoluta calma e padronanza di sé. Autocontrollo, posizione perfetta, mira precisa.
Quella beccaccia non sarebbe sfuggita al suo occhio infallibile di esperto cacciatore. Si ostinava ancora a cacciare con arco e frecce, nonostante tutti gli consigliassero metodi più moderni ed efficaci.
Qualcuno aveva osato proporre al principe di servirsi di battitori che stanassero le prede e gli facilitassero la caccia. Il sovrano se n’era adontato.
Era fatto così. Amava la meticolosa preparazione degli strali, i lunghi appostamenti per avvistare la preda, i sentieri poco battuti, l’odore che la terra sprigiona in ciascuna delle stagioni.
Amava lanciare a se stesso delle continue sfide, colpire con la sua freccia obiettivi sempre più piccoli, sempre più distanti. Meglio ancora se l’obiettivo era in movimento. Ogni preda, ogni animale abbattuto, per lui rappresentava una vittoria, una prova certa di aver superato difficoltà, spesso quasi insormontabili. E non gli importava di dimostrarlo agli altri. Raramente faceva impagliare gli animali abbattuti.
Nel castello di Grossedlitz, la sua residenza favorita, alcuni cervi e orsi, da lui uccisi, facevano bella mostra di sé sulle pareti, tra spesse cortine e tendaggi, creando una strana mescolanza tra eleganza e rozzezza.
Ma lui, Federico Augusto I, principe ed Elettore di Sassonia, nonché re di Polonia dal 1697, non degnava di una sola occhiata quei grossi animali. Valevano molto di più i piccoli volatili, ai suoi occhi di arciere.
La beccaccia cadde più oltre, nel folto del bosco. I cani andarono a recuperarla. Il principe li seguì senza fretta, godendosi il suono quasi metallico prodotto dalle foglie secche calpestate.
La caccia riusciva ad assorbire totalmente i suoi pensieri, finché vi si dedicava. Al rientro, questioni di stato, e non solo, lo avrebbero nuovamente assalito.
Uno degli impulsi che lo spingevano ad andare a caccia da solo era il pressante bisogno di distogliere la mente da questioni spiacevoli e di trovare spazi per se stesso. Altrettanto essenziale per lui era proprio il cimentarsi con se stesso, mettere alla prova le proprie capacità: questo gli dava la misura del proprio valore di uomo.
Voleva giudicarsi come uomo, non come sovrano, e con obiettività, senza tener conto dell’adulazione interessata e della piaggeria dei sudditi. Disprezzava i consiglieri pavidi e temeva chi si faceva notare per la propria indipendenza di giudizio. Avrebbe preferito che la sorte gli avesse riservato un ruolo sociale meno impegnativo. Era stanco. Ma non lo dava a vedere.
Nelle tenute reali di Sassonia non si sarebbero mai effettuate battute di caccia chiassose e mondane come quelle organizzate dai re di Francia a Versailles.
Uomo austero e sobrio, il principe era ben consapevole della propria fama di personaggio eccentrico, e ne andava fiero. Qualunque suo desiderio, anche il più strano, veniva esaudito. Si divertiva a fare appositamente le richieste più strane, con espressione burbera e minacciosa, per vedere servi e cortigiani affannarsi per accontentarlo. In genere chiedeva, all’ultimo momento, piatti elaboratissimi, oppure frutta fuori stagione. A volte gli capitava di richiedere armi fabbricate da un certo artigiano o in un determinato anno.
Dentro di sé scommetteva sul nome di colui o colei a cui sarebbe stato affidato il compito di comunicargli che non erano riusciti a soddisfare la sua richiesta. Si dimostrava bonario, comunque, in questi casi.
Ciò che davvero non tollerava era che la gente non s’impegnasse nello svolgimento dei propri compiti. Quella era la cosa che riusciva veramente a farlo uscire dai gangheri.
Erano celebri i suoi accessi d’ira. Quando si arrabbiava, afferrava qualunque oggetto gli capitasse per le mani e lo scagliava in aria. E non solo soprammobili e suppellettili, ma anche tavoli e mobili, che sollevava senza alcuna difficoltà. Non per nulla era soprannominato Augusto il Forte.
D’altronde, era meglio essere temuto piuttosto che amato.
Con la beccaccia nel carniere, seguito dai suoi cani, Augusto tornò al castello. Procedeva a passi lenti, affondando nella terra umida gli scarponi da caccia, cuciti appositamente per lui con il migliore cuoio da un artigiano di sua fiducia.
Il violento temporale scoppiato quella mattina aveva reso fangoso il terreno.
Meglio, camminare in acquitrini e pantani era la sua passione. Se si vive più di una volta, pensava il sovrano, in qualche esistenza precedente devo esser stato una rana. O forse un rospo: è per questo che adesso sono un principe.
Sapeva che, ad attenderlo, avrebbe trovato il suo consigliere e complice, Wilhelm von Offburg. Le sue aspettative non furono deluse.
Offburg si trovava già nel padiglione esterno dell’edificio, da dove il sovrano era solito entrare e uscire quando si addentrava nel bosco.
Capì, con un solo sguardo, che la battuta di caccia era stata fruttuosa.
Il sovrano lo guardò a sua volta per comprendere quale fosse l’esito del non facile compito che gli aveva affidato; anche in questo caso, si capiva che la caccia era stata fruttuosa. Fu il sovrano a parlare per primo…