Cerca il tuo tavolino preferito. Accomodati, ordina un caffè e gusta un dolce. Scegli un libro dagli scaffali. Lascia che il gatto si avvicini a te. Ora puoi cambiare la tua vita.
Si aggirano furtivi tra i tavolini, dormono sugli scaffali, usurpano le sedie più comode. Sono loro i veri padroni della caffetteria più famosa della città: i gatti, come la dolce e bianca Mimi. Sarà forse per questo che lì succedono cose straordinarie. Al suono delle fusa tutto sembra più semplice, ogni scelta meno ardua, ogni errore meno irrimediabile. Perché tutti hanno ostacoli da superare e scuse da fare, ma i gatti ci aiutano a trovare il coraggio di cambiare. Basta poco perché tutto accada: si sceglie il tavolo preferito, si ordina un caffè e una fetta di dolce, si prende un libro dagli scaffali. Ma soprattutto si segue una regola: aspettare. Aspettare che gli strambi avventori dal passo felpato decidano di avvicinarsi. Perché, si sa, è inutile chiamare un gatto: verrà solo quando lui vorrà. È così per Maxie che non è mai riuscita a capire quale sia il suo sogno nel cassetto, o Leonie che non dice la verità per non ferire una persona cara. Poi c’è Paul che vorrebbe tanto abbracciare sua figlia Emma, che si sente spesso sola. Per loro la caffetteria è l’unico posto in cui tutto sembra di nuovo possibile. In cui il passato può servire per cambiare il presente. Se ne esce diversi, più forti, più ottimisti. In fondo, niente di quello che si è fatto o detto è imperdonabile. E dove c’è un rimorso c’è sempre una seconda occasione. Mimi e i suoi amici sono lì per ricordarcelo:nulla è mai perduto per sempre.
Un esordio che ha conquistato il mondo intero. Nessun lettore, nessun giornalista, nessun libraio né alcun editore ha potuto resistere al fascino dei gatti, dei libri e di un’antica caffetteria. Tutti si sono innamorati di questa storia che fa sembrare quello che c’è intorno bello e pieno di possibilità.
1.
Pioveva ormai da ore. Susann Siebenschön, alla finestra, fissava gli alti alberi verdi della Eichendorffstraße, che in quella giornata capricciosa di aprile non riuscivano a darle conforto. Anche Mimi, accanto a lei, pareva avere lo sguardo perso nel vuoto. Bianca come la neve, ritta e immobile come una sfinge, sedeva sul davanzale interno e si concentrava sulla cortina color argento formata da innumerevoli goccioline.
«Che tempo schifoso», commentò Susann.
Mimi non disse niente. Era una gatta, e i gatti, come è risaputo, non parlano granché.
«Colonia sarà anche la città più bella del mondo», proseguì Susann, «ma da queste parti piove decisamente troppo. Anche Bertold lo diceva sempre: Colonia è il regno della pioggia.» Sospirò con aria afflitta.
Naturalmente non si trattava solo del meteo. Il colloquio con quel dottor Kugelmann, il cordiale ortopedico dal viso rosso e con una stretta di mano decisa dal quale era stata quella mattina, le dava da pensare.
«Allora, signora Siebenschön…» aveva detto il medico mentre sbatteva le lastre sullo schermo luminoso per poi lasciarsi cadere di botto sulla sua sedia. «Prima o poi dovremo mettere un’anca nuova. Se il dolore aumenta, non aspetterei troppo. Ovviamente il movimento aiuta sempre, cosa le devo dire… Meno peso grava sulle anche e meglio è, no?»
L’aveva guardata, aveva sospirato con aria complice e infine si era posato le mani sulla pancia, che appariva prominente sotto il camice bianco. Susann si era sentita un po’ in colpa e d’un tratto aveva avuto piena coscienza di quei dieci chili di troppo che si portava dietro da qualche anno. Si era stretta nel suo scialle dalla delicata decorazione floreale e si era ripromessa di mangiare meno dolci in futuro.
Kugelmann si era appoggiato allo schienale, incrociando le dita con aria benevola.
«Ammetto che il tempo tipico della pianura di Colonia non sia particolarmente salutare per le nostre ossa marce… In un posto più caldo il suo fisico sarebbe stato meglio preservato, ma non si può sempre scegliere, vero?»
Susann aveva scosso il capo tristemente.
«Quanti anni ha?» Il medico aveva gettato un’occhiata al computer. «Settantatré? Be’, allora ha tutta la vita davanti – per così dire.» Aveva riso allegramente, mentre Susann si rannicchiava sempre più nella sedia destinata ai pazienti. «Ah, signora Siebenschön, non si perda d’animo! Un intervento all’anca al giorno d’oggi non è nulla di grave. Nel giro di pochi mesi tornerà a saltare come un grillo.»
E mentre il dottor Kugelmann, con gli occhi che brillavano, lodava i vantaggi di una protesi in titanio – un ortopedico resta sempre un ortopedico –, Susann era stata presa da un profondo sconforto.
«A dire il vero si potrebbe anche pensare di intervenire su entrambe le anche – l’artrosi non fa mai le cose a metà…» aveva ipotizzato il medico. «Con questo sistema abbiamo ottenuto ottimi risultati. Aspetti…» Si era messo a battere eccitato sulla tastiera e poi aveva rivolto il monitor verso Susann. «Guardi questo video di tre minuti: resterà meravigliata!»
Susann era impallidita e aveva rifiutato con un cenno della mano. Le sembrava che il discorso stesse prendendo una brutta piega. «Forse potrei chiedere un secondo parere…» aveva detto con un filo di voce.
«Lo faccia… lo faccia!» Il dottor Kugelmann aveva mantenuto un tono affabile mentre le allungava sulla scrivania una brochure informativa che lei aveva fatto sparire nella borsetta. «Ci pensi su – non deve farlo per forza settimana prossima», le aveva detto alla fine salutandola, e i lampi nei suoi occhi azzurri dietro gli occhiali rivelavano il desiderio di mettersi in azione. Le aveva quasi stritolato la mano. «Io sono sempre pronto.» E accorgendosi che lei esitava, aveva aggiunto: «Farà meglio ad abituarsi all’idea: non potrà evitarlo».
Susann Siebenschön era scappata via dall’ambulatorio. In un impeto di ostinazione aveva oltrepassato l’ascensore, prendendo le scale. “Forza…” si era detta, consapevole di non avere alcuna voglia di abituarsi al pensiero di una punta in titanio ficcata nel suo femore.
Aveva deciso di passare dalla pasticceria Schneider e comprarsi una generosa fetta di torta al burro.
Una volta arrivata a casa, poco più tardi, dopo essersi tolta l’impermeabile bagnato e aver posato l’ombrello aperto sul pianerottolo perché si asciugasse, aveva preso in mano istintivamente il telefono per chiamare Lo, la sua migliore amica. Lo avrebbe detto che gli ortopedici vogliono sempre operare –«Si sa, sono dei veri macellai!» – e avrebbe tirato fuori la storia dell’amico di un amico che un paio di anni prima dopo una diagnosi analoga si era unito a un gruppo di escursionisti e ancora andava allegramente per boschi con le sue anche originarie.
«Mai buttarsi giù», aveva sempre detto Lo, agitando l’indice scherzosa. «Essere infelice non ha mai reso felice nessuno.»
E aveva ragione. Non serviva a niente avere l’infelicità come migliore amica. Sorridendo assorta, Susann cominciò ad accarezzare il pelo di Mimi. E mentre il rumore della pioggia si mescolava alle leggere fusa della gatta, pensò che Lo aveva il raro dono di far sorridere gli altri. Di rendere la vita leggera. Ed era anche la persona che le era stata più vicino dopo la morte improvvisa di Bertold, cinque anni prima.
Susann Siebenschön sospirò al pensiero di quell’anno tragico in cui lei e il marito, come sempre, nel mese di maggio erano andati a Ischia per godersi lo splendore della fioritura dell’isola vulcanica, il buon cibo e l’energia benefica delle calde acque termali. Un viaggio da cui sarebbe tornata da sola. Perché l’appassionato camminatore, che aveva otto anni più della moglie, aveva esalato serenamente l’ultimo respiro in cima all’Epomeo davanti a un bicchiere di vino rosso e a un piatto di gustose bruschette.
Susann ricordava ancora perfettamente il momento in cui Bertold aveva allontanato il piatto, si era appoggiato con un sospiro soddisfatto allo schienale della sedia e aveva detto: «Pomodori così non ci sono da nessun’altra parte al mondo». Poi aveva lasciato vagare lo sguardo su quell’ampio paesaggio di un verde tenue che si estendeva in lontananza fino al mare. «Guarda come è bello tutto questo, Susannchen. Non sembra il paradiso?»
Con queste parole aveva chiuso gli occhi per fare un pisolino al sole. Così almeno pensava lei. Che quelle erano state le sue ultime parole l’avrebbe capito solo un quarto d’ora dopo. E quando, alcuni giorni più tardi, erano ritornati in Germania – lei nella cabina di un aereo Alitalia, Bertold in una cassa di zinco –, Susann aveva giurato a sé stessa di non rimettere mai più piede su quell’isola dove aveva trascorso tante meravigliose vacanze con il marito. Comunque Bertold, che aveva lavorato diversi anni come agente assicurativo, era stato abbastanza previdente da stipulare una polizza viaggio che prevedeva anche il trasporto in patria in caso di morte – una benedizione in quella situazione spiacevole. E, nonostante il dolore, Susann era rimasta colpita dalla competenza e dalla gentilezza con cui quelle persone si erano prese cura di lei e delle spoglie mortali di Bertold.
«Tesoro, un infarto sull’Epomeo… che incubo!» avevano esclamato le amiche all’apprendere la notizia, precipitandosi a consolare Susann. «D’altro canto… andarsene in un momento così felice… che bella morte! Una cosa del genere se la augurano tutti.» E ancora: «Andrà meglio con il passare del tempo. La vita va avanti…».
E in effetti la vita andava avanti – o meglio: le cose andavano semplicemente avanti, perché per Susann i giorni, le settimane e i mesi senza il suo fedele marito, che aveva condiviso con lei gli alti e i bassi della vita, erano tristi e perlopiù solitari. A volte ce l’aveva un po’ con Bertold, che se l’era svignata in quel modo, lasciandola da sola. Figli non ne avevano, circostanza che andava attribuita all’abitudine un po’ incosciente di Susann di girare con abiti molto leggeri nelle sere ancora piuttosto fredde di inizio estate, che le aveva causato una malattia infiammatoria pelvica. Il fatto che sua moglie non potesse avere figli, comunque, non aveva ridotto l’amore di Bertold per lei. «Ognuno di noi ha l’altro, questo è ciò che conta», diceva sempre. E proprio questo era il problema: che adesso l’altro non c’era più. Non c’era più un «noi», non c’era più Bertold, e nessuno più la chiamava «Susannchen» né le leggeva un articolo divertente o interessante dal «Kölner Stadt-Anzeiger».
Lo l’aveva aiutata molto. Lo era una che metteva le cose a posto, e anche adesso, Susann ne era certa, avrebbe avuto un buon consiglio per la sua amica dalle anche doloranti.
Ma Lo non c’era più. Se n’era «andata» – così si diceva quando qualcuno poco oltre la sessantina moriva. Come se quella persona avesse semplicemente cambiato posto.
Naturalmente c’erano anche altre amiche e diversi conoscenti. Era inevitabile, quando si abitava in una città come Colonia. In un Veedel, un quartiere, in cui le persone si intrattenevano a parlare tra loro per strada e dove ogni mattina la panettiera domandava: «Come va oggi, signora Siebenschön? Tutto bene?», e lo diceva sinceramente.
Ma Lo, con la sua risata contagiosa, era sempre stata la sua preferita. «Domani è un altro giorno», diceva, quando nuvole scure si addensavano all’orizzonte e la vita ancora una volta non era tanto semplice. «Domani è un altro giorno» era la formula magica di Lo, che l’aveva presa da Rossella O’Hara, l’intrepida eroina di Via col vento. E, sì, in teoria ogni giorno che passava su questa terra poteva accadere qualcosa di sorprendente e persino di bello. Come quella sera poche settimane dopo la morte di Lo, quando una gattina bianca dagli occhi verdi cangianti era comparsa all’improvviso, quasi fosse caduta dal cielo, davanti alla porta della sua terrazza, miagolando e picchiettando con le zampe sui vetri. Sembrava non appartenere a nessuno, così Susann aveva accolto quell’ospite inaspettata dapprima nel suo soggiorno e poi nella sua vita. Quella era stata una bella giornata.
Da circa un anno Mimi le faceva compagnia e di notte stava sdraiata ai piedi di quel letto matrimoniale che sembrava diventare sempre più grande, troppo grande. Ovviamente una gatta non era un marito e non poteva nemmeno sostituire una migliore amica, tuttavia Mimi riempiva di vita l’appartamento e a volte Susann aveva il sospetto che quella micia bianca non fosse arrivata lì per caso ma che fosse stata inviata da un’anima buona dalla risata contagiosa.
Mentre dunque stava alla finestra del suo appartamento in uno stabile d’epoca, fissando la pioggia battente e riflettendo sulla vita, Susann si chiese quando aveva iniziato a distinguere i giorni in belli e brutti. Ancora solo pochi anni prima, ogni volta che la sera posava il suo libro, spegneva la luce sul comodino e dava un bacio a Bertold, non le sarebbe mai venuto in mente di dire cose tipo: “Oggi è stata una bella giornata”. Oppure: “Oggi è stata una brutta giornata”. Era forse l’età che portava a formulare simili pensieri? Le perdite che si accumulavano? Il fatto che la notte si dormiva sempre peggio e la mattina le ossa erano sempre più dolenti? Susann si rese conto di essere diventata un po’ piagnucolosa. Le faceva male l’anca e la diagnosi del dottor Kugelmann la preoccupava. E quando ci si preoccupava si cominciava a pensare che le cose sarebbero di certo andate storte. Susann si allontanò dalla finestra e raddrizzò le spalle.
Mimi girò la testa e la guardò con aria interrogativa.
«Sai una cosa, Mimi? Adesso ci facciamo un bel caffè e poi vediamo se questa non può ancora trasformarsi in una bella giornata.»
Mimi miagolò e saltò giù dal davanzale.
«Mai buttarsi giù, eh?…» sussurrò Susann poco dopo, mentre il caffè gorgogliava riempiendo la cucina con il suo intenso profumo consolatore. «Ma, seriamente… cosa dovrei fare adesso?»
Portò il caffè e la torta al burro in soggiorno, posò il vassoio sul tavolino e si sedette sul divano a fiori. Mimi si sistemò accanto a lei e la guardò come in attesa. Fuori continuava a piovere. Mentre sorbiva con cautela il caffè bollente, Susann teneva lo sguardo fisso sulla foto che, nella sua cornice d’argento, faceva mostra di sé sulla credenza: raffigurava lei e Bertold davanti a un ristorantino nella pittoresca baia di Ischia Porto. Guardò le case variopinte che seguivano il profilo a semicerchio della baia, le buganvillee color rosa fragola e le clematidi di un blu intenso che si arrampicavano rigogliose sui muri e inondavano d’ombra i tavolini graziosamente apparecchiati. Le sembrava quasi di percepire quel caratteristico profumo di fiori, mare e grigliate che si fa incontro a chi visita quei luoghi.
E tutto d’un tratto fu presa dal desiderio di andarsene…
Charlie Jonas è lo pseudonimo di una famosa giornalista tedesca amante dei gatti. Per scrivere il suo romanzo d’esordio – Pausa caffè con gatti – si è ispirata a un luogo reale, in cui si può entrare per comprare un libro, gustare una tazza di caffè o una fetta di torta, ma anche adottare o semplicemente coccolare teneri gatti.
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