Dall’autrice del bestseller Resti perfetti
Un grande thriller
Una lunga scia di sangue svelerà il più terribile dei segreti
Una scia di sangue serpeggia tra le strade di Edimburgo.
Nel bel mezzo di un festival rock, un volontario è stato accoltellato allo stomaco ed è morto dopo pochi minuti. Nella confusione, nessuno ha visto l’assassino, nessuno è stato in grado di tracciare un identikit. La settimana seguente il corpo di una maestra elementare è stato ritrovato in un cassonetto: la donna era stata strangolata con la sua sciarpa di lana. La polizia brancola nel buio. I detective Ava Turner e Luc Callanach non hanno indizi per collegare i crimini, né prove sufficienti a formulare le prime ipotesi, fino al momento in cui sui muri della città appaiono graffiti che fanno esplicito riferimento alle vittime degli omicidi. È il gesto sbruffone di un mitomane o è la firma del killer? Quando scoprono che i murales sono stati preparati prima degli omicidi e non dopo, per Ava e Luc ha inizio una corsa contro il tempo che si rivelerà molto più pericolosa di quanto avrebbero potuto immaginare. Perché l’assassino è pronto a colpire ancora…
Una serie da mezzo milione di copie
Tradotta in 10 Paesi
«Un thriller pieno di colpi di scena. La storia cattura man mano che la trama si infittisce.»
Woman’s Way
«Helen Fields ha un vero talento nel creare atmosfere cupe e vivide nella fantasia del lettore. I colpi di scena sono efficaci e i personaggi magistralmente costruiti. L’esordio con Resti perfetti è stato straordinario, ma La vittima sbagliata potrebbe addirittura superarlo.»
Scotland Correspondent
«Uno dei thriller psicologici più inquietanti che abbia mai letto.»
Paul Finch
Estratto
A Brian e John – i padri e i nonni – che leggono i loro quotidiani nell’aldilà e si domandano perché quaggiù facciamo tanto chiasso.
Con amore da chi non vi dimenticherà mai.
Capitolo uno
C’erano posti peggiori in cui morire, ma ben pochi modi più terrificanti. Lo scenario era estivo, idilliaco, con il paesaggio cittadino da un lato e il profilo dell’antico vulcano Arthur’s Seat in lontananza. La musica si percepiva ancor prima di sentirla, il basso pulsava nella carne e nelle ossa. A inizio luglio il sole cala tardi su Edimburgo e il cielo era inondato da sfumature di rosa, oro e arancione acceso. Forse era per questo che nessuno l’aveva notato, quand’era successo. Oppure la colpa era del cocktail di alcol, droghe ed euforia naturale. Il festival era in pieno svolgimento: tre giorni di baldoria, feste, sesso, cibo e drink, una band dopo l’altra, mentre i corpi erano sempre più a loro agio con meno vestiti addosso e un’igiene minima. Se qualcuno avesse dovuto rappresentare in un’istantanea il senso di estasi, quella scena sarebbe andata benissimo: la folla che saltava all’unisono, come se tutte quelle persone si fossero fuse in un’unica bestia incantata con migliaia di teste sorridenti.
Al centro di tutto, il killer si era spostato come una voluta di fumo, sinuoso, silenzioso, snudando la lama come una piuma nel vento. Il taglio era netto, preciso e profondo. La quantità di sangue versato era evidente sul terreno, la ferita troppo grave per essere arginata con le mani. Non che ci fosse stato il tempo di caricare la vittima su un’ambulanza. Non che qualcuno avesse notato la ferita prima del dissanguamento quasi totale.
L’ispettore Luc Callanach si trovava nel punto esatto in cui il giovane aveva esalato il suo ultimo respiro. La sua identità era ancora ignota. La polizia era riuscita a mettere insieme decisamente poco nell’ora trascorsa dalla sua morte. Era incredibile, pensò Callanach, che in una folla di migliaia di persone non fossero riusciti a trovare uno straccio di testimone attendibile.
Il giovane aveva semplicemente smesso di saltare, si era accasciato piano, sbattendo a destra e a sinistra, avanti e indietro sugli altri partecipanti al festival, e alla fine era stramazzato a terra, afferrandosi la pancia. Alcuni si erano mostrati infastiditi per la seccatura: all’inizio avevano dato per scontato che fosse ubriaco, poi che avesse preso qualche droga. Solo quando un’adolescente a piedi scalzi era scivolata nella pozza di sangue era scattato l’allarme e in tutto il casino della musica ci era voluta un’eternità per far circolare la voce. Alla fine le urla avevano fagocitato il frastuono degli strumenti e il poveretto era stato girato sulla schiena, mentre le interiora rovesciate a terra lo seguivano come una sorta di animaletto alieno, brillando alla luce riflessa del sole, con tutto quel sangue rosso acceso.
La polizia non era molto lontana. L’evento aveva attirato un pubblico enorme ed era stata presa ogni precauzione, o così si credeva. Gli agenti, seguiti dai paramedici, si erano fatti largo tra la folla per sgomberare l’area e preservare la scena del crimine, ma ne era venuto fuori un disastro logistico. Callanach alzò lo sguardo al cielo e sospirò. La scena era più contaminata e calpestata dei bagni di un locale la sera di Capodanno. In giro c’era abbastanza DNA da popolare un pianeta inesplorato. Era la versione forense di “un giro gratis per tutti”.
Il cadavere era già diretto all’obitorio. Le foto che lo ritraevano sulla scena del crimine erano state già scattate, per quanto potessero servire. Era stato spostato un’infinità di volte, da chi aveva cercato di soccorrerlo, dalla gente in preda al panico, dalla polizia e dal personale medico, prima di essere lasciato finalmente in pace su un letto di erba calpestata e terriccio smosso. L’anatomopatologa, la dottoressa Ailsa Lambert, era rimasta stranamente in silenzio, aprendo bocca solo per invitare a trattare il corpo con cura e rispetto e a spostarlo in fretta in un luogo privo di fotocamere invadenti o lamenti isterici. Callanach era sopraggiunto per preservare la scena – concetto quantomai ironico – prima di seguire Ailsa in ufficio.
Dalla breve occhiata che Callanach era riuscito a dargli, il viso della vittima diceva tutto: occhi chiusi con forza, come se cercasse di svegliarsi da un incubo, e bocca aperta a metà tra un sussulto e un urlo. Aveva forse gridato un nome? Conosceva il suo aggressore? Non aveva documenti con sé, solo qualche moneta nei pantaloni, e nemmeno un orologio al polso. Intorno al collo portava una chiave attaccata a una cordicella. Per quanto rapida fosse sopraggiunta la morte, il terrore di sapere che stava per svanire, di sentire la speranza che lo abbandonava, mentre la gente intorno a lui continuava a saltare e a cantare, doveva essergli parso il più crudele degli scherzi. E, al momento fatidico, sentire solo le urla e vedere il panico e l’orrore nel mare di occhi sopra di lui. Callanach si domandò come dovesse essere stato morire da solo sulla nuda terra, in una giornata di sole così bella. L’ultima sensazione della vittima doveva essere stata un terrore sconfinato.
L’ispettore studiò il palco a cupola, stipato di attrezzature per il suono e le luci, e pregò che almeno una delle telecamere montate lì avesse catturato un frammento di una qualche utilità. Qualcuno che si affrettava, che si allontanava, che si muoveva in una direzione diversa rispetto al resto della folla. Il parco The Meadows, una zona di verde e campi da gioco a sud del centro cittadino, di solito era molto piacevole e pacifico. Le madri ci accompagnavano i bambini, c’era chi portava a spasso il cane e chi faceva jogging. Le note di Summer is A-Coming In risuonarono nella mente di Callanach, memore di una proiezione della versione originale di The Wicker Man cui l’aveva trascinato qualche mese prima la detective Ava Turner. Era rimasto molto colpito dalla recitazione di Edward Woodward e l’immagine degli uomini e delle donne che indossavano maschere da animali mentre si preparavano a compiere un sacrificio umano aveva continuato ad accompagnarlo anche dopo che il proiettore era stato spento. Non era poi così diversa dal circo al centro del quale era spirato quel povero ragazzo.
«Signore, abbiamo identificato le persone alle spalle della vittima. Se vuole può parlarci subito», gli riferì un agente. Callanach lo seguì fino al margine del campo, mentre il team della Scientifica costruiva un riparo temporaneo in grado di custodire la scena del crimine per la notte. Appoggiata a un albero c’era una coppia, stretta in una coperta. Entrambi avevano la faccia rigata di lacrime e la donna tremava visibilmente, mentre il compagno la confortava.
«Merel e Niek De Vries», li presentò l’agente leggendo sul proprio taccuino. «Una coppia olandese in vacanza. Sono arrivati in Scozia dieci giorni fa».
Callanach annuì e fece un passo avanti per avere un po’ di privacy.
«Sono l’ispettore Callanach della polizia scozzese», disse. «So che siete sotto shock e mi dispiace molto per ciò cui avete dovuto assistere. Sono certo che abbiate già raccontato quanto avete visto più di una volta, ormai, ma ve lo chiederanno ancora altrettante. Potreste riferirmi tutto dal principio, se non vi dispiace?».
L’uomo disse qualcosa alla moglie che Callanach non riuscì a capire, ma lei alzò lo sguardo e trasse un respiro profondo.
«Mia moglie non parla molto bene inglese», spiegò Niek De Vries, «ma ha visto più di me, perciò farò da interprete».
Merel pronunciò qualche frase tremante, inframezzata da singhiozzi, prima che Niek riprendesse la parola.
«L’ha notato solo quando la ragazza ha gridato. Poi si è chinata per scuoterlo, per dirgli di alzarsi. Era in ginocchio, piegato in avanti. Pensavamo che fosse ubriaco, che stesse male. Quando Merel si è rialzata ha visto che la sua mano era coperta di sangue. E anche in quel momento, dice, ha pensato che forse aveva vomitato e si era lacerato qualcosa. Solo quando tutti hanno fatto un passo indietro e l’abbiamo fatto sdraiare, abbiamo notato la ferita. Era come se fosse stato tagliato a metà». Niek si coprì gli occhi con una mano.
«Prima che cadesse avete visto qualcosa di insolito? Qualcuno che lo toccava o lo superava con uno spintone? Qualcuno che sembrava avere fretta di andarsene via? Riuscireste a descrivere in dettaglio le persone che vi erano vicino?», domandò Callanach.
«Tutti continuavano a muoversi», rispose Niek, «e stavamo guardando il palco, la band, no? Non conosciamo nessuno qui, perciò non ci guardavamo molto intorno. La gente non faceva che saltare su e giù, urlare e andare da una parte all’altra, tra il bar e i bagni. Stavamo solo cercando di non perderci di vista. Non mi ero nemmeno accorto dell’uomo davanti a noi, finché non è caduto».
«Ha detto niente?», chiese Callanach.
Niek ripeté la domanda a Merel.
«Pensa che fosse già privo di conoscenza o morto, quando gli ha rivolto la parola la prima volta. E comunque c’era troppo casino, non l’avrebbe sentito».
«Capisco», commentò Callanach. «Alcuni agenti vi accompagneranno alla centrale per rilasciare una dichiarazione scritta completa e poi vi riporteranno ai vostri alloggi».
«Non è inglese?», balbettò Merel, rivolgendosi per la prima volta direttamente a Callanach.
«Sono francese», rispose lui. «Be’, metà francese e metà scozzese. Chiedo scusa se il mio accento è difficile da comprendere».
«Le garçon était trop jeune pour mourir». Il ragazzo era troppo giovane per morire, gli disse lei in francese, anche se Callanach ebbe l’impressione di averlo sentito in inglese, talmente rapida fu la traduzione.
Merel De Vries ricordò anche un’altra cosa. Mentre si chinava per soccorrere la vittima, aveva sentito una donna ridere in mezzo alla folla, così forte da sovrastare persino il suono della musica. Ciò che colpì Callanach fu la strana descrizione che ne fece Merel: non si trattava di una risata allegra, secondo lei aveva un non so che di maligno.
L’ autrice
Helen Fields, ha studiato legge all’Università di East Anglia e alla Inns of Court School of Law di Londra. Dopo aver lavorato per anni in tribunale, specializzandosi in Diritto penale e di famiglia, ha deciso di fondare insieme al marito una casa di produzione cinematografica, nella quale lavora anche come sceneggiatrice. Vive a Los Angeles con la famiglia. La Newton Compton ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Resti perfetti, e La vittima sbagliata.