Trama
Dopo lo straordinario successo di L’eredità di Agneta, Corina Bomann ci regala una nuova storia ammaliante e impetuosa come le sue indimenticabili protagoniste.
Stoccolma, 1931. A soli diciassette anni Mathilda ha perso entrambi i genitori, rischiando di rimanere senza mezzi e di dover rinunciare al suo sogno: frequentare una scuola commerciale e aprire un giorno un mobilificio insieme a Paul, il ragazzo di cui è innamorata. Non immagina certo che la madre abbia provveduto al suo futuro con un testamento molto singolare. Così, una mattina, si ritrova davanti un’elegante sconosciuta che le annuncia di essere la sua tutrice: si tratta di Agneta, contessa di Löwenhof. Per quale motivo la mamma ha affidato la sua vita a un’estranea? E cosa poteva legarla a quell’aristocratica così raffinata e indipendente, che guida persino l’automobile? Piena di dubbi, Mathilda dovrà lasciare Stoccolma e l’amato Paul per seguire Agneta nella maestosa tenuta di Löwenhof, con le sue vaste terre e i recinti di cavalli purosangue. Potrà mai sentirsi a casa in quel luogo? Il dubbio cresce quando conosce i due figli gemelli della contessa, Ingmar e Magnus, e quest’ultimo le mostra fin da subito un’aspra ostilità. Ma perché la signora continua a tacere sul misterioso legame che le unisce? Proprio mentre Mathilda tenta di scoprire la verità, un’altra guerra torna a minacciare l’Europa, sconvolgendo per sempre le esistenze degli abitanti di Löwenhof…
Estratto
Stoccolma, 1931. A soli diciassette anni Mathilda ha perso entrambi i genitori, rischiando di rimanere senza mezzi e di dover rinunciare al suo sogno: frequentare una scuola commerciale e aprire un giorno un mobilificio insieme a Paul, il ragazzo di cui è innamorata. Non immagina certo che la madre abbia provveduto al suo futuro con un testamento molto singolare. Così, una mattina, si ritrova davanti un’elegante sconosciuta che le annuncia di essere la sua tutrice: si tratta di Agneta, contessa di Löwenhof. Per quale motivo la mamma ha affidato la sua vita a un’estranea? E cosa poteva legarla a quell’aristocratica così raffinata e indipendente, che guida persino l’automobile? Piena di dubbi, Mathilda dovrà lasciare Stoccolma e l’amato Paul per seguire Agneta nella maestosa tenuta di Löwenhof, con le sue vaste terre e i recinti di cavalli purosangue. Potrà mai sentirsi a casa in quel luogo? Il dubbio cresce quando conosce i due figli gemelli della contessa, Ingmar e Magnus, e quest’ultimo le mostra fin da subito un’aspra ostilità. Ma perché la signora continua a tacere sul misterioso legame che le unisce? Proprio mentre Mathilda tenta di scoprire la verità, un’altra guerra torna a minacciare l’Europa, sconvolgendo per sempre le esistenze degli abitanti di Löwenhof…
Dopo lo straordinario successo di L’eredità di Agneta, Corina Bomann ci regala una nuova storia ammaliante e impetuosa come le sue indimenticabili protagoniste.
Prima parte
1931
Avevo sonno. Davanti a me c’era il quaderno su cui avrei dovuto prendere appunti, ma mi sentivo le braccia troppo pesanti. Non avevo la forza di stringere la penna fra le dita e trasferire le parole sulla carta. L’aria in classe era irrespirabile, nonostante fossimo appena all’inizio di giugno e le finestre fossero aperte. L’estate era arrivata presto nel 1931.
Avrei preferito di gran lunga essere al parco, anziché nell’aula della signorina Nyström alla Realskola di Stoccolma. Mi sarei sdraiata all’ombra a pensare, invece di star lì seduta a sentir parlare di economia domestica, tormentata dagli sguardi curiosi delle mie compagne di classe.
Ma per i miei genitori era importante che ricevessi una buona istruzione. Mio padre mi aveva iscritta personalmente in quella scuola, spiegandomi che era la mia unica speranza di realizzare qualcosa nella vita. «Di questi tempi, meglio non puntare unicamente a trovarsi un buon marito» aveva detto. La mamma lo aveva guardato in modo strano, ma poi aveva osservato che ormai la bellezza non era più garanzia di felicità per una donna.
Non volevo vanificare i loro sforzi marinando la scuola. Soprattutto non a così pochi giorni dal funerale di mia madre.
Susanna Wallin se n’era andata nel sonno, la morte le aveva rubato l’anima quasi furtivamente. L’avevo trovata l’indomani mattina, dopo essermi svegliata stupita per l’insolito silenzio della casa. Normalmente, mia madre mi precedeva in cucina per accendere la stufa e preparare la colazione. Anche dopo la scomparsa di mio padre, non aveva mai perso l’abitudine. Quella mattina, invece, regnava uno strano silenzio. Ero entrata nella sua stanza per svegliarla, e l’avevo trovata che fissava il soffitto con gli occhi sbarrati. Sulle prime avevo pensato che fosse immersa nelle sue riflessioni, ma quando la toccai mi accorsi che era rigida e incredibilmente fredda.
Appena realizzai che era troppo tardi per chiamare un dottore, sentii qualcosa rompersi dentro di me. Corsi dal medico in preda al panico, e lui mi diede la tragica conferma. Non ricordavo cosa fosse successo dopo. In qualche modo dovevo essere riuscita a comunicare la notizia al pastore e ai vicini.
Il giorno seguente mi ero risvegliata nel mio letto, con l’accendino un tempo appartenuto a mio padre stretto in mano. Dovevo averlo preso nella notte, mentre piangevo a dirotto. Si era riscaldato a contatto con la mia pelle, e in un certo senso mi confortava, anche se non sapevo quasi nulla di mio padre.
Papà mi era sempre sembrato un po’ distratto, mentre la mamma aveva grandi progetti per me, molti dei quali irrealizzabili. Erano stati entrambi bravi genitori, non avevo mai ricevuto un solo schiaffo, ma a volte avevo l’impressione che fossero come manichini, che facessero parte della mia vita solo per tenermi compagnia.
Quando mio padre scomparve improvvisamente mi si spezzò il cuore. Una sera, senza preavviso, non tornò a casa. La mamma aspettò due giorni, poi chiamò la polizia. Cercarono Sigurd Wallin ovunque, senza riuscire a rintracciarlo. Qualcuno aveva detto ai poliziotti di averlo visto su un ponte a Gamla Stan. Le indagini confermarono che era stato davvero lì. Sul parapetto del ponte fu ritrovato un accendino che gli era appartenuto. Era dorato, con inciso sopra un raffinato motivo floreale. Mi era sempre piaciuto vederlo accendersi i sigari con quell’oggetto. E ormai era l’unica cosa che mi restava di lui.
Le autorità trassero subito la conclusione che si fosse tolto la vita gettandosi in acqua. Le ricerche furono estese alla costa, ma il Baltico era profondo e la corrente poteva aver trascinato il corpo molto lontano, anche in mare aperto.
Dopo un anno di ricerche infruttuose, mio padre fu dichiarato morto. L’accendino restò a me, perché a mia madre non interessava. Apparentemente senza grande sofferenza, raccolse gli abiti di papà e li buttò via, come se riguardassero una parentesi ormai chiusa della sua vita.
Quanto a me, mi ero consolata aggrappandomi all’idea di avere ancora mia madre.
Adesso non mi rimaneva più nessuno.
I primi tempi dopo la morte della mamma mi ero sentita come un fantasma. Non mi accorgevo quasi di niente. Per me esistevano soltanto dolore e tristezza. Dopo un po’ ero riuscita a tornare in me, ma non era stato facile andare avanti. Soffrivo di continue crisi di pianto, e non sempre nei momenti più appropriati. Il più delle volte, non avevo altra scelta che nascondermi. Mi aggiravo come un’anima in pena nella nostra casa gialla sulla strada in salita di Brännkyrkagatan. Mi sentivo isolata da tutte le altre persone, che mi sembravano tanto allegre e spensierate. La mia unica consolazione era Paul, che passava spesso a trovarmi per assicurarsi che stessi bene.
Peggio di stare da sola nella casa vuota c’erano soltanto le ore di scuola.
La scomparsa di mio padre era stata accolta con una sorta di dolce commiserazione dalle mie compagne. Pensavano tutte che fosse un destino terribile quello che ci era toccato, e compativano me e mia madre.
Adesso ero orfana. I miei nonni paterni erano morti da tempo e mia madre non parlava mai dei suoi genitori. Non li avevo mai incontrati, e quando le avevo chiesto di loro si era limitata a rispondere che non avevo nonni materni.
Non mi ero fatta tante amiche a scuola. A parte Daga, le altre ragazze mi rivolgevano a malapena la parola. E adesso mi facevano sentire più che mai un’orfana. Ogni volta che mi guardavano e avvicinavano le teste per bisbigliarsi qualcosa, provavo una stretta al cuore. Senza i miei genitori mi sentivo esposta, come se avessi perso ogni protezione.
Un colpo alla porta dell’aula mi strappò con un sussulto al mio letargo.La signorina Nyström invitò il disturbatore a entrare. Il signor Persson, il preside della scuola, sussurrò qualcosa alla nostra insegnante di economia domestica, poi si voltò e guardò dritto verso di me.
«Mathilda Wallin» disse. «Può seguirmi, per favore?»
La sua richiesta fu accolta da un brusio interrotto da qualche risatina maliziosa.
Il mio battito accelerò. Mi alzai e abbassai timidamente gli occhi, ma poi mi irrigidii. Sapevo cosa stavano pensando le altre: adesso che i miei genitori non c’erano più, mi avrebbero buttata fuori dalla scuola. E a essere onesta era quello che pensavo anch’io.
Il mio cuore era sul punto di esplodere per l’ansia e la paura. Corsi dietro al preside, un uomo alto e massiccio, che portava sempre il papillon e delle giacche un po’ strambe. Il profumo di acqua di colonia e della brillantina con cui cercava di domare i capelli neri e ribelli mi aggredì le narici.
Se venivi convocata nel suo ufficio, potevano esserci solo due ragioni: o avevi fatto qualcosa di veramente grave, oppure c’erano brutte notizie. Io ero stata lì di recente, quando avevo dovuto spiegargli che mia madre era morta e quindi mi sarei assentata da scuola per qualche giorno. La stanza era piuttosto ampia… e marrone. Scaffali marroni, libri rilegati in pelle marrone. Una sedia marrone dietro la scrivania marrone. Sul pavimento, un tappeto marrone con gli orli beige. Nessun tocco di colore che potesse distrarmi.
Quando entrammo, trovammo ad attenderci una donna alta con un elegante abito blu scuro. I capelli biondi erano legati in uno chignon sulla nuca, qualche ciocca si era allentata ai lati e le incorniciava il viso regolare.
«Posso presentarvi?» disse il preside, accennando alla sconosciuta. «Contessa, questa è Mathilda Wallin. Mathilda, la contessa Agneta Lejongård.»
Una contessa? Cosa ci faceva lì una contessa? Guardai la donna, confusa. Nelle fiabe che mi raccontava mia madre, le contesse avevano sempre un diadema in testa e luccicanti abiti argentei. Questa non indossava nemmeno il cappello.
Sul suo volto apparve un sorriso. «Lieta di conoscerti» mi salutò, stringendomi la mano. Non sapevo cosa fare. Una riverenza? Era una contessa! Mi inchinai leggermente mentre la sua mano sfiorava la mia, chiedendomi cosa potesse volere un’aristocratica dalla figlia di un contabile.
«Accomodiamoci» ci esortò il preside.
«Le mie condoglianze. Mi dispiace che tu abbia perso tua madre. Per giunta poco dopo tuo padre» continuò la donna, rivolta a me.
La fissai sempre più perplessa. Come faceva a saperlo? Lavorava per i servizi sociali? O per un orfanotrofio?
Sembrò leggermi nel pensiero, perché aggiunse: «È per questo che sono qui».
«Per i miei genitori?»
Lei scosse la testa. «No, per te.»
Mi girai verso il preside, ma il signor Persson non si mosse. Sembrava stesse assistendo a uno spettacolo avvincente.
«Non sei ancora maggiorenne, il che significa che hai bisogno di un tutore» spiegò la contessa.
Un’ondata di panico mi travolse. Quindi era davvero dei servizi sociali.
«Me la cavo bene da sola» dissi. «Quando mamma stava male, ero io a occuparmi della casa. E la scuola…» Tacqui di colpo rendendomi conto che l’iscrizione doveva essere pagata. Mio padre aveva messo da parte il denaro necessario, ma non ero ancora maggiorenne e dunque non avevo accesso al suo conto.
La contessa lanciò un’occhiata a Persson, poi tornò a guardare me. «Ti piace questa scuola?»
«Sì» risposi, iniziando a tirarmi nervosamente la manica della camicetta.
«Il preside mi ha detto che sei una brava studentessa.»
«Ha qualche piccolo problema con i lavori manuali, e potrebbe andare meglio in fisica. Ma è eccellente in aritmetica. E naturalmente in svedese e inglese.»
«Studi inglese?» chiese la contessa, e io annuii.
«Sì, signora» aggiunsi.
«Bene, potrebbe tornarti utile nella vita. Così come scrivere e far di conto.»
Perché mai i servizi sociali si interessavano ai miei risultati scolastici?
«Non capisco. Cosa significa?» domandai, prima che Persson e la contessa potessero discutere oltre sui miei voti. «Perché è venuta? Vuole portarmi in un orfanotrofio?»
Le sopracciglia della donna si sollevarono. «No, niente affatto» rispose con calma. «Sono qui per informarti che sono stata nominata tua tutrice.»
Spalancai la bocca. Questa sconosciuta, una contessa per giunta, avrebbe deciso della mia vita finché non avessi raggiunto la maggiore età?
«So che è un po’ inaspettato» continuò, «ma non volevo che lo scoprissi all’apertura del testamento.» La guardai confusa. Tutrice? Apertura del testamento? Una donna che non avevo mai visto in vita mia aveva ricevuto l’incarico di prendersi cura di me?
«Perché?» Non riuscii a trattenermi dal dare voce ai miei pensieri.
«Come, prego?» chiese la contessa.
«Perché lei? Per quale motivo una contessa dovrebbe essere la mia tutrice?»
«Mathilda!» mi ammonì il preside in un sibilo, ma la contessa scosse il capo.
«Va tutto bene.» Inspirò profondamente e disse: «È un desiderio di tua madre».
«Mia madre? Cosa ha a che fare lei con mia madre?»
«Ci conoscevamo. Tanto tempo fa. Poco dopo la sua morte ho ricevuto un documento dal notaio in cui tua madre esprimeva il desiderio che diventassi tua tutrice.» Estrasse una lettera dalla tasca e me la porse.
La aprii. Riconobbi subito la calligrafia della mamma. Gli elaborati ghirigori intorno alle B e alle R erano inconfondibili. La lettera era datata 19 febbraio dell’anno precedente. Aveva intuito qualcosa che non andava in lei? Sapeva già di avere un cuore debole? Se era così, era riuscita a ingannarmi bene. Non avevamo mai parlato della sua malattia.
Mi soffermai su una riga.
In caso di morte, vorrei che la contessa Agneta Lejongård diventasse tutrice di mia figlia Mathilda.
«Perché avrebbe dovuto scriverlo?» chiesi. «La mamma non mi ha mai parlato di lei.»
Di colpo quella contessa mi sembrava sospetta. E se mi avesse venduta a qualcuno? Oppure succedeva soltanto nei romanzi d’amore a buon mercato?
«Mathilda!» esclamò il preside. La sfumatura di rabbia nella sua voce era inequivocabile. «Pensa a cosa significa per te. Dovresti essere grata di aver ricevuto questo dono.»
«Oh, non è un dono» precisò la contessa. «È un mio dovere prendermi cura di te. Starai bene a Löwenhof, vedrai, forse riuscirai persino a considerarla una casa.»
Le sue parole mi colpirono come uno scroscio di pioggia ghiacciata. E così sarei dovuta partire. Cosa ne sarebbe stato di me e Paul? E del mio sogno di frequentare la scuola commerciale? Io e Paul fantasticavamo di gestire insieme la sua azienda, un giorno. Lui avrebbe costruito i mobili, mentre io, essendo molto più brava con i numeri, mi sarei occupata della contabilità.
Ma non sarebbe successo. Sarei finita a sgobbare in una lontana tenuta, spingendo la carriola del letame, impilando il fieno e occupandomi delle lepri. Nessun jazz club, niente locali all’ultima moda di cui avevo letto e che non vedevo l’ora di poter frequentare, una volta maggiorenne. Niente vita di città. Avrei lasciato tutto quello che conoscevo.
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime.
«E se non volessi?» chiesi, in tono di sfida. La mia rabbia aveva raggiunto le dimensioni dell’iceberg che aveva fatto affondare il Titanic.
«Mathilda!» Il preside Persson sembrava sul punto di saltare dalla poltrona. «Non hai scelta!»
La contessa mi guardò. «Se tua madre non fosse morta» disse, in tono sorprendentemente dolce, «cosa avresti fatto dopo la scuola?»
«È importante?» singhiozzai.
«Per me sì. Non ti conosco, Mathilda. Non so cosa vuoi. E credimi, so cosa significa non vedere avverarsi i propri desideri.»
La fissai.
Il preside sbuffò. Pensava che mi stessi comportando in modo irrispettoso, ma non mi importava. Si trattava di me, della mia vita!
A parte Paul, nessuno sapeva delle mie ambizioni professionali. La maggior parte delle ragazze sognava di trovare un bravo marito che si prendesse cura di loro. Frequentavano tutte la Realskola per diventare giudiziose donne di casa. Se avessi detto loro quel che desideravo fare nella vita, mi avrebbero considerata ancora più strana.
«Un giorno mi piacerebbe frequentare la scuola commerciale e lavorare in una grande azienda» mi sentii rispondere. «I numeri mi affascinano. A ogni modo, vorrei uno stipendio, un appartamento tutto mio e forse un’automobile.»
Agneta Lejongård annuì pensierosa e poi mi guardò negli occhi. «Mi sembrano buoni obiettivi. Non vedo alcuna ragione per cui non dovresti raggiungerli.»
«Perché sono orfana e non ho soldi per la scuola commerciale» sbottai. «E se vengo con lei in questo posto…»
«Löwenhof non è fuori dal mondo» spiegò la contessa. «Kristianstad non è lontana, e lì c’è una scuola commerciale.»
Stavo quasi per rispondere che lì non ci sarebbe stato Paul. Ma mi trattenni.
«Non devi decidere subito» disse la contessa, dopo avermi studiata per un attimo. «Perdonami se ti ho chiesto troppo, ma volevo sapessi che ti aiuterò a realizzare i tuoi sogni.»
Annuii. Che altra scelta avevo? Il preside Persson aveva ragione. Mia madre aveva nominato questa donna mia tutrice. Non potevo rifiutarla.
«Questo è un invito dal notaio per domani mattina. Bisognerà aprire il testamento di tua madre. Ci sarò anch’io con te.» La contessa mi porse la lettera, si alzò e si rivolse al preside. «È esonerata dalle lezioni per domani, giusto?»
«Certo, signora» disse Persson, balzando in piedi.
«Bene, ci vediamo domani mattina» mi salutò la contessa.
Avrei voluto chiederle dove alloggiava a Stoccolma, ma mi ritrovai in corridoio prima di averne il tempo.
Accarezzai la busta, sovrappensiero. Mi bruciavano ancora gli occhi.
L’invito all’apertura del testamento di mia madre. Sembrava così definitivo. Mi sarebbe piaciuto uscire subito da scuola e rintanarmi in casa. Ma poi suonò la campanella e in pochi istanti fui circondata da studentesse.
Daga mi venne incontro di corsa. «Mathilda, cos’è successo?» chiese, preoccupata, quando vide le mie guance chiazzate di rosso.
Infilai la lettera nella tasca del cappotto. «Niente, io… sono soltanto un po’ confusa.» Mi asciugai distrattamente le lacrime dal viso. Ma non riuscii a ingannare Daga.
«Il preside ti ha dato una brutta notizia?» domandò, e, quando non risposi, inspirò profondamente. «Non ti hanno cacciata dalla scuola, vero?»
Scossi la testa. «No. Io… ho conosciuto la mia nuova tutrice.»
«Ed è una qualche anziana zietta di un orfanotrofio, per caso?»
«No, è una contessa.»
La bocca di Daga si spalancò. «Una contessa? E che c’entra con te?»
Stavo per rispondere, ma scorsi le altre compagne venirci incontro. Non dovevano vedermi piangere. Sparlavano già abbastanza di me a prescindere.
«Cerchiamo un posto tranquillo» sussurrai, e mi diressi verso il muretto che delimitava il lato meridionale della scuola.
2
Passai la notte in preda all’agitazione. Braccia e gambe non smettevano di formicolare. Nemmeno il silenzio assoluto della casa riusciva a tranquillizzarmi.
Quello che era successo mi sembrava irreale. Una contessa comparsa dal nulla per prendersi cura della povera orfana? Era troppo bello per essere vero. E se fosse stato un sogno?
Un colpetto sul vetro della finestra mi fece sobbalzare. Sulle prime pensai che fosse uno dei tanti rumori prodotti dalla casa, soprattutto al buio. Ma poi mi tirai su e andai ad affacciarmi. Sul marciapiede, direttamente sotto il lampione, notai una figura familiare.
Aprii la finestra. Paul Ringström si era chinato per prendere un altro sassolino e si bloccò quando si accorse di me.
«Come ti salta in mente di venire qui così tardi?» chiesi, suonando più indignata di quanto non fossi.
«Mi è giunta una voce e volevo chiederti se è vera.»
Immaginavo già chi fosse il suo informatore. Sicuramente Daga aveva condiviso la novità con suo fratello. E Paul non era una persona qualunque, ma un pezzo importante della mia vita da diverso tempo. Il mio segreto, in un certo senso.
Ci eravamo conosciuti a casa loro. Andavo spesso da Daga, ma avevo visto il fratello maggiore per la prima volta soltanto pochi mesi prima. Nelle settimane successive ci eravamo incontrati spesso per strada, casualmente, e lui non aveva mai perso occasione di dimostrarmi che mi trovava carina. Era un ragazzo molto attento e simpatico, mi guardava con amore e mi faceva sentire al sicuro. Un giovane uomo con cui potevo immaginare un futuro radioso. E, come se non bastasse, era anche bellissimo. Avendo sempre lavorato nella bottega del padre, aveva spalle larghe e braccia forti, e occhi verdi come non ne avevo mai visti. Notavo come lo guardavano le altre ragazze quando passeggiavamo insieme al parco, ed ero ben contenta che lui non se ne accorgesse.
Non eravamo proprio una coppia, mia madre non me lo avrebbe mai permesso, ma di tanto in tanto si presentava alla mia finestra, lanciava qualche ciottolo per attirare la mia attenzione, e se ci riuscivamo scambiavamo due chiacchiere.
Ora che mia madre non c’era più, avrei potuto lasciarlo entrare senza problemi. Ma non mi sentivo ancora pronta. E poi sapevo che le vicine avevano la vista lunga. Chissà cosa avrebbero detto se avessero scoperto che ricevevo visite maschili.
«Aspetta, scendo!» dissi.
Paul annuì, ma alla luce del lampione mi accorsi che era un po’ deluso. Di certo gli sarebbe piaciuto stare da solo con me. Io però temevo di perdere il controllo e di cedere a qualcosa che non avrebbe giovato a nessuno dei due. Indossai rapidamente un vestito e mi gettai lo scialle di lana della mamma sulle spalle. Faceva caldo durante il giorno, ma di sera la temperatura si abbassava notevolmente.
«Perché non ci incontriamo in casa come fanno gli altri?» chiese mentre uscivo dalla porta.
«Lo sai perché» risposi, evasiva. «Non voglio fare niente che mia madre non avrebbe approvato.»
«Capisco, ma non pensi che a tua madre avrebbe fatto piacere che avessi un fidanzato?»
«Certo, prima o poi, ma ha sempre detto che a diciassette anni si è troppo giovani.»
Lo guardai. La luce del lampione conferiva alla sua pelle una sfumatura rosata, snaturando completamente il magnifico verde degli occhi. Adesso sembravano marroni, del colore della terra bagnata dalla pioggia. Ma il taglio caratteristico del mento, la fronte ampia e le sopracciglia meravigliosamente ricurve erano messi in risalto dal gioco di luci e ombre.
«Voglio solo entrare un attimo, niente di più.» Sospirò. «Ma forse presto la nostra amicizia non significherà più niente.»
Lo guardai sbalordita. «Cosa intendi?»
«Daga mi ha detto che la tua nuova tutrice è una contessa di un posto vicino a Kristianstad. Giusto?»
«Sì» risposi, avvertendo quelle parole come un peso sul cuore. Se mi fossi trasferita a Löwenhof non lo avrei rivisto per molto tempo. Troppo.
«Quindi te ne vai.»
«Sì, ma…» esitai. «A dire il vero, non ne sono sicura. Non ne abbiamo ancora parlato.»
Paul sbuffò e si mise le mani sui fianchi. «Avresti dovuto chiederglielo.»
«Hai ragione, ma… ero troppo sconvolta. Il preside mi ha convocata nel suo ufficio e l’ho trovata lì. Mi ha detto della sua tenuta e mi ha chiesto dei miei sogni.»
«E ci sono anch’io in questi sogni?»
«Sì, ma non potevo dirglielo, non trovi?»
Mi avvicinai e alzai le mani per posargliele sul petto, ma mi fermai e le riabbassai di colpo quando mi accorsi che il suo corpo era rigido, come pietrificato.
«Te ne andrai» sentenziò, spostandomi una ciocca di capelli dal viso. «A meno che tu non riesca a fare in modo che non sia lei la tua tutrice.»
Abbassai la testa. Quanto mi sarebbe piaciuto essere un po’ più grande e poter fare quello che volevo. Quattro anni! Perché non mi erano stati concessi altri quattro anni con mia madre? Il mio destino mi sembrava profondamente ingiusto.
«È stata mia madre a nominarla» spiegai. «Ma anche se dovessi andare via, non dobbiamo per forza perdere i contatti… In fondo sarebbero soltanto quattro anni.»
«Quattro anni!» Paul spalancò gli occhi, allarmato. «È un sacco di tempo.Non sono sicuro che si possa aspettare tanto. Fra quattro anni avrò ventitré anni.»
«Cosa c’entra?» chiesi. «Io ne avrò ventuno. Saremo ancora molto giovani.»
«Ma…» Paul fece una pausa. «E se ti volessi sposare?»
Lo guardai negli occhi. «Sai che non posso sposarmi senza il consenso di un tutore.»
«Giusto» rispose.
Scossi la testa. «Non pensi che varrebbe la pena aspettare?» La rabbia mi stringeva la gola, e faticavo a tenere la voce bassa per non farmi sentire dai vicini. «Paul» aggiunsi, più tranquilla. «Non vado all’altro capo del mondo. E poi, perché parli di matrimonio? Io ho solo diciassette anni, tu diciannove. Non siamo abbastanza maturi. Cosa ne penserebbe la tua famiglia di questo progetto? E che mi dici del tuo apprendistato? Non dovresti prima finire quello? Pensa al nostro sogno. Vuoi ancora aprire un mobilificio, vero? E io devo frequentare la scuola commerciale, se vuoi che ti faccia da contabile.»
Non riuscivo a non sorridere quando ne parlavamo. Paul Ringström & Figli, mobili dal 1936. Cinque anni. Era quello il tempo che si era dato Paul. Voleva una sua azienda nel giro di cinque anni al massimo, un’azienda più grande e di maggior successo della bottega di suo padre. Ma forse cinque anni gli sarebbero bastati per dimenticarmi.
Si guardò le punte delle scarpe, imbarazzato. «Io… non voglio perderti.»
«E non mi perderai!» risposi, cominciando a tremare. «Mi trasferisco soltanto nella tenuta della mia tutrice a Schonen per quattro anni, poi tornerò da te. Nelle vesti di contabile pronta ad assisterti.» Gli posai le mani sulle braccia. Paul le afferrò e se le portò al petto, come per scaldarmi.
Sapevo bene di essere stata fin troppo ottimista. Quattro anni erano un’eternità. Poteva succedere di tutto.
«Ci saranno un sacco di ragazzi lì a Schonen che ti faranno la corte.»
«Ma nessuno come te!» risposi. «E che mi dici delle ragazze di qui?»
«Non voglio nessun’altra» esclamò, baciandomi le mani. Poi sorrise, imbarazzato. «Sicura che non dovremmo entrare?»
Il mio cuore iniziò a battere. Nessuno poteva proibirmelo. Eppure non riuscivo a farlo. Forse mi sarei pentita della mia esitazione, ma non ci riuscivo.
«Sicurissima. Il che non significa che non succederà mai.»
«A Schonen, magari? Quando sarò finalmente libero e verrò a trovarti?» Aggrottò la fronte.
«Perché no? E forse verrò anch’io a trovare te. Potremmo incontrarci proprio qui.»
«E se la contessa vendesse questa casa? Può farlo, come tua tutrice.»
Le sue parole mi provocarono un’altra ondata di panico. «Troverò il modo.»
Mi sporsi in avanti e lo baciai sull’angolo della bocca. Paul mi prese fra le braccia, mi attirò a sé e mi baciò sulle labbra. Un bacio profondo, appassionato. Sentii una pulsazione nel mio grembo che per poco non mi fece cambiare idea. Ma poi mi allontanai da lui.
«Ti scriverò. Tutti i mesi.»
«Non è abbastanza» protestò con voce tremante.
«Ogni settimana?»
Sorrise. «Meglio.» Affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e si guardò un’altra volta le punte delle scarpe. «Se dovessi cambiare idea dimmelo subito, d’accordo? Sono pronto ad aspettare, ma devo essere sicuro che tu mi voglia.»
«Ti voglio» risposi in fretta, reprimendo l’istinto di ammettere che non c’era niente al mondo di cui potessi essere sicura. Da bambina ero convinta che i miei genitori sarebbero vissuti in eterno. E adesso, solo pochi anni dopo, li avevo persi entrambi. «Questo non cambierà, capito? E, non appena sarò libera, veramente libera, ci sposeremo, non ci saranno più ostacoli.»
Paul annuì e mi attirò di nuovo al suo petto. Avrei voluto che mi baciasse ancora, ma dopo un po’ mi lasciò andare senza che le nostre labbra si fossero incontrate.
«Stammi bene, Mathilda! E scrivimi» disse con un sorriso triste. Poi si dileguò nel buio.
«Addio, Paul!» gli gridai dietro, alzando una mano in un inutile saluto, ma lui non si girò…
Trama
Una nuova saga piena di passione, intrighi, sogni inconfessati, che ha già conquistato milioni di lettori.
Stoccolma, 1913. Dall’ultimo violento litigio con i genitori a Natale, Agneta ha chiuso ogni rapporto con la famiglia di origine, rinunciando al titolo nobiliare di contessa di Löwenhof e trasferendosi in un piccolo appartamento nel quartiere studentesco della capitale. A venticinque anni, il suo sogno non è certo sposarsi con un buon partito, ma studiare per diventare pittrice, lottare per il diritto di voto insieme alle amiche femministe e, soprattutto, vivere liberamente le sue passioni, compresa quella per Michael, aspirante avvocato. Finché una mattina un telegramma le porta una notizia destinata a cambiare completamente il corso della sua vita: il padre e il fratello sono rimasti coinvolti in un incendio, e la madre le chiede di tornare subito a Löwenhof. Inaspettatamente, i verdi prati, i boschi imponenti, i recinti dei cavalli e la bianca villa padronale suscitano in lei una strana malinconia. Ancora non sa che la situazione è molto più grave del previsto e che sarà posta di fronte a una scelta: prendere la guida della tenuta o continuare a inseguire i suoi sogni di libertà. Dilaniata dal dubbio che l’incendio sia stato doloso, tormentata dalla madre che vorrebbe vederla sposata con un aristocratico, Agneta troverà sostegno solo in Max, il giovane amministratore delle scuderie da cui si sente pericolosamente attratta…
CORINA BOMANN è una delle scrittrici tedesche più amate al mondo. Tutti i suoi bestseller sono usciti per Giunti con grandissimo successo: L’isola delle farfalle (2012), Il giardino al chiaro di luna (2014), Un sogno tra i fiocchi di neve (2014), La signora dei gelsomini (2015), L’eco lontana delle onde del nord (2015), Un’estate magica (2016), L’anno dei fiori di papavero (2016), Una finestra sul mare (2017), Il fiore d’inverno (2017), Cuore di tempesta (2018), L’angelo di vetro (2018). Il primo volume della trilogia di Löwenhof, L’eredità di Agneta (2019), dopo aver raggiunto la posizione n° 1 della classifica tedesca, ha conquistato le vette delle classifiche italiane rimanendo per settimane nella Top.