Segnalazione: “Il Purificatore” di Piergiovanni Salimbeni

Portovenere 1425, un frate benedettino muore tra le mura della chiesa di San Pietro, sbranato da belve feroci, aizzate da un giovane ammantato in un saio nero.
Seicento anni dopo il corpo straziato di un parroco di provincia sarà ritrovato all’interno di un piccolo santuario della provincia di Varese. L’ispettore capo Giorgio Bassi, un uomo tormentato nell’animo e nella psiche a causa della prematura scomparsa del figlio, assumerà un ruolo di primo piano nelle indagini, assistito e spesso ostacolato da Laura Martinoli, una professoressa e ricercatrice universitaria, esperta di lingue antiche medio-orientali.
Ben presto altri due misteriosi delitti, avvenuti in regioni differenti, metteranno alla prova la razionalità del protagonista che dovrà affrontare, oltre alla morte del figlio, una estenuante ricerca della verità, offuscata da antiche leggende, dal misterioso diario di un monaco benedettino e da alcuni testi apocrifi che narrano le gesta di una figura leggendaria e millenaria. Chi è realmente il Purificatore?

PROLOGO
ANNO 1425

“Beato chi prende a cuore il messaggio di Dio contenuto in questo libro”
Apocalisse 22,7
Portovenere: Chiesa di San Pietro. 10 Agosto, all’alba

Lo scalpiccio dei passi nervosi di padre Jacopo si diffuse lungo la scalinata della chiesa di San Pietro frangendone la pace: il suo sguardo era inquieto, il suo respiro irregolare.  

Il sole aveva da poco donato alla costa della Repubblica Genovese i suoi primi tiepidi raggi, i gabbiani volteggiavano maestosi sopra le falesie dell’isola Palmaria, le onde si infrangevano solenni contro il promontorio di Portovenere. C’era un inebriante profumo di salmastro. Un peschereccio a vele spiegate affrontava le onde spumeggianti che conquistavano ulteriore forza all’interno de “Le Bocche”, entro quattro ore il carruggio principale avrebbe ospitato i primi abitanti del borgo marino: brulicanti formiche, rumorose, spesso indisciplinate. 

Le abitazioni della zona, ornate con differenti colori scialbi come vecchie matite colorate, erano incastonate su vari livelli, pietra su pietra. Ogni piano era composto da tre locali, quelli in mezzo erano privi di finestre.

Il frate benedettino era uno dei pochi rimasti a popolare l’isola del Tino e l’abbazia edificata nel 1054 in onore di San Venerio. Possedeva le chiavi di quella piccola basilica paleocristiana di tipo siriaco e percepiva spesso la necessità di indugiarvi a notte fonda, prima della lectio divina e delle lodi, per espiare i propri peccati, per ammirare con rinnovato interesse la facciata a strisce orizzontali nere e bianche, le cappelle laterali a pianta quadrata, le volte ogivali. Quel rituale era l’unica isola di salvezza per la sua anima avvolta in un mare di scellerate e peccaminose condotte.

Si passò nervosamente una mano tra i capelli ondulati e increspati da sfumature di un grigio lucente. Mancavano pochi giorni alla festa della Madonna Bianca e centinaia di fedeli e curiosi avrebbero popolato la piccola cittadina costiera come stormi di uccelli migratori. 

Preghiera e conversione. Lo pensò fuggevolmente. 

Il suo viso era abbronzato e rugoso, i suoi lineamenti erano appesantiti da una notevole predisposizione per il buon cibo: sembrava avesse mai digiunato in vita sua, neppure il Venerdì Santo. La sua mente era colma di pensieri come la coppa di Babilonia. Signore perdonami, ho peccato, Signore mio Dio, ti prego, perdonami. 

Quella era la casa del Signore, la casa del suo Dio.

 -Perdonami, Mio Dio. – Pronunciando quelle parole con inquietudine si approssimò alla piccola navata centrale che conduceva verso l’altare di marmo bianco. Era disorientato: il sudore scorreva salato lungo il suo collo, indugiando nella tunica sino al fulcro dei suoi peccati.

Con una mossa pigra s’inginocchiò ansante, mentre fotogrammi fuggevoli di ciò che era accaduto durante la notte s’insinuarono nella sua mente come tentacoli. 

Lo rifarei ancora, non è vero? Certo che lo rifarei, perché ormai non posso desistere dal farlo, non posso. 

Poi, tormentato dalla sua coscienza o forse dallo spirito che fronteggia da millenni l’oscurità, si accasciò al suolo chiedendo per l’ennesima volta perdono.

Quante volte alle luci dell’alba si era genuflesso in quel santo luogo, logorandosi tra le lacrime e deplorando la sua condotta irrefrenabile? Ormai non lo ricordava.  Con quella ritrovata liturgia era certo di poter placare l’istintiva bestialità che lo pervadeva nelle ore notturne, lacerando la sua misera esistenza. Il sole, sorgendo, ridonava candore alla sua anima ma quella catarsi era effimera perché le forze del male lo ghermivano senza difficoltà, dopo ogni tramonto, soffocando la sua fragile vocazione. 

Percepiva solo dolore, dolore e pentimento.  

Quel luogo virtuoso lo atterriva: una sensazione fuggevole e recondita di morte lo pervase, ma non quella che predicava nelle domeniche del Signore. Non pensava alla luce infinita che avrebbe accolto i credenti, avvolgendoli in un rassicurante abbraccio per l’eternità: immaginava, invece, un indistinto spazio oscuro che lo avrebbe lentamente inghiottito, strappando dal fondo del suo cuore, speranze ormai vane.  

Osservò per qualche istante la parte centrale del presbiterio, infine si spostò dall’abside centrale alla piccola cappella laterale di sinistra a pianta quadrata. Sopra di essa si ergeva la torre campanaria, albero maestro della cristianità in quel piccolo borgo dimenticato da Dio.

Ammirò l’icona raffigurante la Madonna che si stava candidamente dorando dei primi tenui raggi di sole. La santità del luogo e i visi venerabili e solenni delle statue che lo arricchivano si opponevano alla sua debolezza, dando ancor più vigore al rimorso che lo affliggeva. 

Si era allontanato dalla spiritualità alcuni anni prima, da quello che predicava settimanalmente ai propri fedeli, per svanire, gemendo, nell’abisso della perdizione. 

Questo non avrà fine. Cingendo il rosario d’ebano, con la mano tremante e peccaminosa, chiese perdono ad alta voce, ignaro di quello che sarebbe accaduto. 

-Madre possa tu perdonare i miei peccati, Madre possa tu perdonare i miei peccati! – 

Lo ripeté all’infinito, fino a quando il pensiero avvicendò il tono della sua voce gracchiante e soffocata.

Mentre rivelava mentalmente il suo consueto pentimento, dei ringhi cupi e rabbiosi, pervasero improvvisamente le navate laterali: dei latrati che ben presto avrebbero posto fine alla sua inutile esistenza. 

Il lezzo primitivo di due belve appannava il profumo d’incenso dell’uomo che li stava accarezzando. Soltanto allora il frate percepì quelle oscure presenze, infine un’esclamazione si infranse nella chiesa come vetri rotti.

-Alzati, frate!

Il tono sottile ma severo di quella voce lo atterrì. Si voltò piano, con il cuore che cominciava a pulsare freneticamente mentre strane congetture lo pervadevano. 

Dopo pochi istanti, alcuni intensi raggi di sole si diffusero, rischiarando le sembianze di chi appariva essere poco più che un ragazzo, tuttavia l’inumano sfolgorio che traboccava dai suoi occhi primeggiò sul tenue albore del mattino.   

-Ti ho detto di alzarti, frate!

Padre Jacopo non oppose resistenza, era il suo sguardo che glielo imponeva e non poteva dominarlo. Vide le sue mani forti e vigorose elevarsi al cielo, poi udì le sue parole: -Così dice il Signore: “I sacerdoti sono diventati senza scrupoli, li ho sorpresi a commettere il male perfino dentro al mio tempio, perciò li farò camminare su una strada sdrucciolevole, cammineranno nel buio, si urteranno e cadranno”.

Il monaco era come smarrito, ma dalle sue labbra fluirono parole di stupore, velate allo sdegno. 

-Che cosa sei venuto a fare qui? Che cosa vuoi da me?

Il cappuccio nero che velava in parte quel viso sconosciuto si sollevò lievemente: due labbra sottili e una fila di denti bianchi come l’avorio contrastarono il colore del saio che lo ammantava. Era simile al suo, ma scuro come una tersa notte invernale o come le lugubri praterie degli inferi.  

– Ormai non c’è più nulla da fare. 

Gli vide eseguire un rapido cenno con la mano destra, come un severo maestro d’orchestra. Le belve si approssimarono all’altare, la bava fluiva copiosamente dalle loro fauci assetate. I loro dorsi striati erano muscolosi e imponenti, gli occhi iniettati di sangue. I ventri, vuoti e desiderosi di essere colmati, si muovevano sotto l’impeto dei respiri gorgoglianti e affannati.

 Gli occhi del frate non poterono fare a meno di fissare gli incisivi affilati come coltelli.  In preda all’orrore, padre Jacopo, imprecando, rivelò la sua vera indole: -Tu sei un pazzo, un eretico! Allontana subito quei bastardi da me! In nome di Cristo Dio Onnipotente!

Le belve non si allontanarono, procedevano con brevi movenze quasi meccaniche e quell’uomo non fece nulla per fermarli. Il monaco non solo poteva percepire il colore dei loro occhi, ma anche lo spasmo dei muscoli pronti a scattare. 

Il giovane proseguì: – Credi forse che Lui sia un Dio dalla vista corta, che non possa vedere anche da lontano?

Lo vide sospirare come morso dalla compassione anche se il suo sguardo rivelava una feroce risolutezza. -Hai dimenticato la parola del Signore, tu, falso profeta?

Gli aguzzi e letali denti di quelle belve scintillarono nella penombra della piccola chiesa.  Padre Jacopo celò il suo volto dietro le mani tremanti. Il resto del suo corpo era paralizzato. L’urina iniziò a scorrere lungo le sue gambe vacillanti. 

Per un attimo ebbe la forza di fronteggiarlo: sollevando il capo, lo scrutò fisso negli occhi, tentando di carpire le sue intenzioni. Quell’esile ragazzo che mai avrebbe potuto generare terrore, data l’esiguità dei suoi muscoli adolescenziali e la femminilità dei suoi lineamenti, continuò, imperterrito.   

– “Quelli che dovrebbero vegliare su Israele sono ciechi. Non si accorgono di nulla. Sono cani muti incapaci di abbaiare, sono cani voraci che non si saziano mai.”  

Questa volta, mentre lacrime di terrore scorrevano lungo il viso di Padre Jacopo, la mano sinistra di chi appariva come un novizio dal manto nero, si serrò con l’indice puntato, imitando l’atteggiamento di disprezzo e di superiorità che il vecchio era solito praticare dal pulpito durante le omelie. Anche se il gesto si consumò in un istante al frate parve durevole, come il percorso del sole durante un pomeriggio estivo. 

-Avete assunto le sembianze dei cani, rotolandovi nella più infima delle perdizioni, ora saranno i vostri simili a decretare la vostra fine.

Quelle furono le ultime parole che il monaco benedettino poté udire, poi delle mandibole rapide e sanguinolenti, posero lentamente fine alla sua esistenza misera e peccaminosa. 

Padre Jacopo nei lunghi attimi che lo condussero alla morte, provò un dolore indicibile, mai avrebbe pensato che l’espiazione dei suoi peccati potesse avvenire in quel modo, attraverso una cerimonia di purificazione così orribile.

Fu avvolto da una furiosa tempesta di lame acuminate che strapparono brandelli del suo corpo, i suoi occhi, la sua bocca si riempirono di sangue misto a bava,  l’olezzo delle sue viscere  penetrò nelle sue narici, mentre il sangue e i fluidi corporei zampillando, adornarono, con piccoli rivoli, l’antica pavimentazione.

Piergiovanni Salimbeni è nato a Varese nel 1975.
E’ un giornalista indipendente nel settore ottico sportivo, naturalistico e astronomico. Appassionato di lettura, storia medioevale e testi apocrifi e misteriosi.
Vive in una verde valle delle Prealpi Lombarde con sua moglie, due figlie, due cani e tre gatti.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"

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