Nell’Atene degli anni Cinquanta, il dottor Anderson e la sua squadra di giovani archeologi prendono alloggio all’Ava Hotel, a due passi dall’Acropoli, dove devono portare a termine i lavori per la ricostruzione della Stoà di Attalo. L’albergo è gestito da una coppia irregolare quanto affiatata: Kosta, famoso per i suoi cocktail, ed Eleftherìa, la regina della gestione quotidiana e della contabilità. Nel gruppo degli «americani» spicca Ketty Wallace, ruvida e affascinante, che con Anderson vive una storia d’amore tormentata. E che un mattino scompare nel nulla, portando con sé solo i soldi, i documenti, uno scialle e un segreto che non riguarda lei soltanto. Le indagini su questa scomparsa, irrisolta per decenni, diventano un controcanto inquietante dei destini dei protagonisti, intrecciati a quelli dell’hotel, che conoscerà una nobile ma inesorabile decadenza, mentre il legame tra Kosta ed Eleftherìa sarà messo alla prova dalle tensioni politiche del colpo di Stato e dalla crisi economica. Fino a che, in un giorno del 1992, arriva all’Ava Hotel un giovane di bell’aspetto, e il fantasma mai sopito di Ketty ritorna con tutte le sue domande. Il fascino della Grecia antica e i tormenti di quella moderna si inseguono e si rifrangono in un romanzo che parla di scelte: delle possibilità che ci concediamo e delle porte che decidiamo di chiudere. Una narrazione luminosa che è insieme storia d’amore, giallo dei sentimenti, affresco giocato tra le epoche.
Nell’Atene degli anni Cinquanta, il dottor Anderson e la sua squadra di giovani archeologi prendono alloggio all’Ava Hotel, a due passi dall’Acropoli, dove devono portare a termine i lavori per la ricostruzione della Stoà di Attalo. L’albergo è gestito da una coppia irregolare quanto affiatata: Kosta, famoso per i suoi cocktail, ed Eleftherìa, la regina della gestione quotidiana e della contabilità. Nel gruppo degli «americani» spicca Ketty Wallace, ruvida e affascinante, che con Anderson vive una storia d’amore tormentata. E che un mattino scompare nel nulla, portando con sé solo i soldi, i documenti, uno scialle e un segreto che non riguarda lei soltanto. Le indagini su questa scomparsa, irrisolta per decenni, diventano un controcanto inquietante dei destini dei protagonisti, intrecciati a quelli dell’hotel, che conoscerà una nobile ma inesorabile decadenza, mentre il legame tra Kosta ed Eleftherìa sarà messo alla prova dalle tensioni politiche del colpo di Stato e dalla crisi economica. Fino a che, in un giorno del 1992, arriva all’Ava Hotel un giovane di bell’aspetto, e il fantasma mai sopito di Ketty ritorna con tutte le sue domande.
Il fascino della Grecia antica e i tormenti di quella moderna si inseguono e si rifrangono in un romanzo che parla di scelte: delle possibilità che ci concediamo e delle porte che decidiamo di chiudere. Una narrazione luminosa che è insieme storia d’amore, giallo dei sentimenti, affresco giocato tra le epoche.
Se si potesse trascorrere quel che resta della vita in qualche modo, in modo nuovo. Svegliarsi in una limpida, tranquilla mattina e sentire che hai ripreso a vivere da capo, che tutto il passato è dimenticato, è svanito come fumo. Cominciare una vita nuova…
A. Čechov, Zio Vanja
PARTE PRIMA
1
Atene, 1956
«Good evening, professor Anderson.»
«Kalispera, Kosta.»
Le due lingue intrecciate. Il greco salutava in inglese, l’americano in greco. Ognuno giocava a fare l’altro.
Anderson accompagnò le parole con un gesto impacciato del braccio; entrando cercava di togliersi la giacca chiara e polverosa senza far cadere il fascio di carte che aveva in mano. Si muoveva in modo scomposto, come se stesse cercando di liberarsi di un insetto fastidioso.
«Vuole una mano?»
«No, no, grazie, ho fatto.»
Superato il banco della reception, si avviò verso la scala con la giacca su un braccio e facendosi vento con un cappello di paglia.
«It was really hot today, you’ll enjoy your bath.»
«Puoi dirlo. Oggi il caldo era soffocante: un bagno è quello che mi ci vuole.»
Pregustava l’acqua tiepida, il Martini ghiacciato che si sarebbe fatto portare in camera e il fresco della serata.
Aprendo la porta apprezzò la semioscurità della stanza, le tapparelle erano quasi abbassate, le finestre socchiuse e la pala sul soffitto girava silenziosa; dopo la luce accecante del pomeriggio, gli occhi chiedevano una calma d’ombra. Lasciò cadere la giacca su una poltrona e posò con cura le carte sulla scrivania. Gli piaceva quel momento del giorno in cui si scrollava di dosso la polvere e i rumori, il sudore e la fatica; gli sembrava che improvvisamente tutti i problemi da affrontare – un permesso governativo che mancava, i contrattempi con i capicantiere locali, un capitello incrinato, una piccola frana in uno scavo – si facessero da parte, a volte addirittura che si ricomponessero. Le ansie si ridimensionavano e la giornata, insieme alla temperatura, si placava.
Molto, ne era convinto, era dovuto alla piacevolezza di quel piccolo albergo, che univa i vantaggi di un vero hotel a quelli di una accogliente dimensione familiare.
Nelle precedenti spedizioni si erano alternate le stanze di qualche albergo economico e quelle alquanto spartane messe a disposizione dalla Scuola americana di studi classici; una sola volta era stato al King George Palace, nella magnificenza dei suoi saloni, che ospitavano una clientela internazionale, la medesima da Londra a Istanbul. Sua madre gli aveva sempre parlato del Grande Bretagne, dove aveva alloggiato durante il viaggio di nozze in Europa, ma solo di recente era stato riaperto, dopo la lunga parentesi della guerra mondiale e di quella civile, che ne avevano fatto il quartier generale delle truppe occupanti prima e degli alleati poi.
Gli alberghi erano comunque sempre stati legati a permanenze brevi, di una settimana o poco più. Di solito aveva alloggiato in una delle stanze messe a disposizione dalla Scuola, dove l’atmosfera gli ricordava quella del college.
Questa volta invece si era trattato di fermarsi quasi un anno e, dal momento che i lavori di rinnovamento dei locali della Scuola impedivano di ospitare tutti i componenti della spedizione, erano stati gli stessi addetti all’accoglienza a proporgli un paio di soluzioni alternative, fra le quali aveva preferito l’Ava Hotel, a Lysikratous, una stradina secondaria racchiusa fra l’arco di Adriano e la lanterna di Lisicrate, proprio sotto l’Acropoli. Sembrava quasi una casa privata e sul lato opposto della via un palazzetto signorile in pietra chiara con un giardino foglioso confortava la sensazione di trovarsi in uno spazio domestico, che si apriva solo per accogliere i suoi pochi abitatori.
Quello che gli era subito piaciuto era stata la possibilità di avere non una stanza ma un vero appartamento – camera, living room e kitchenette – dove poteva farsi un Nescafé lungo lungo e nero con cui iniziare la giornata, prima di affrontare quello denso e polveroso che Kosta preparava per la colazione, servita nella piccola sala da pranzo; seduto sul divano o al tavolo del soggiorno, poteva rivedere con calma gli appunti sui lavori, programmare con i suoi collaboratori la giornata, ascoltare alla radio la musica preferita, ricevere gli amici in un ambiente privato e accogliente.
Tornare la sera nel suo piccolo, silenzioso appartamento voleva dire mettere una distanza fra sé e quel sud del mondo, recuperare uno scorcio di Filadelfia nella sagoma del monumento a Lisicrate che intravedeva dal balcone, e sentirsi davvero a proprio agio.
Mentre apriva il rubinetto della vasca, Kosta bussò alla porta con il Martini e una ciotola di pistacchi; Anderson sapeva che ci teneva a servirlo di persona: era un modo di ringraziarlo, visto che con la sua squadra di giovani archeologi aveva riempito l’albergo. Bisognava riconoscergli però che era premuroso con tutti, un misto di levantina arte di accoglienza e di genuina cordialità.
Lasciò scorrere l’acqua e andò nel living per aprire la porta.
«Grazie, Kosta. Posalo pure lì.» Indicò il tavolino vicino al divano.
«Come vanno i lavori? Mangia qui, stasera?»
«Mah, si procede, siamo a buon punto, ogni giorno si fa un passo avanti. Stasera… no, andiamo tutti alla taverna, da Vassili. Perché non ci raggiungi?»
«Magari più tardi. Quando abbiamo chiuso facciamo un salto.»
Anderson sollevò lo sguardo, incuriosito dal plurale.
«Con Eleftherìa; stasera chiude con me.»
«Oh, certo…» ammiccò Anderson guardandolo riflesso nello specchio che incorniciava il divano.
«È una brava ragazza, non creda.»
Uno alle spalle dell’altro si guardavano attraverso lo specchio, diaframma consapevole di due mondi che solo nella momentanea permanenza in un medesimo luogo trovavano punti di contatto.
Immerso nell’acqua tiepida, con il Martini in equilibrio precario sul bordo della vasca, rivide con calma l’andamento della giornata.
Rita Pugliese vive tra Milano e la Liguria. Ha insegnato a lungo nelle scuole superiori, ha tenuto corsi di didattica della scrittura, ed è autrice di numerosi testi per la scuola. Appena può, ama camminare in montagna e conoscere il mondo.
In copertina: elaborazione grafica da © Mark Owen / Trevillion Images e © micheile.com / Unsplash
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