“Resta con me, sorella” di Emanuela Canepa

Quali sogni ti erano concessi in Italia, negli anni Venti del Novecento, se non eri un uomo? Con la consueta capacità di scrutare nell’animo femminile e nell’ambiguità delle relazioni, Emanuela Canepa racconta due donne che, imprigionate dal potere maschile o dalla propria incapacità di opporvisi, sognano di liberarsi dalle catene della Storia. Da quando suo padre è morto di febbre spagnola, Anita, orfana di madre dall’età di sette anni, vive con la matrigna e i suoi due figli. Uno lavora con lei nel giornale in cui il padre prestava servizio. Un giorno il fratellastro ruba dalla cassa e Anita decide di prendersi la colpa, perché il suo misero stipendio di donna non basterebbe a mantenere la famiglia, mentre quello del fratellastro sì. Rinchiusa nel carcere della Giudecca, incontra Noemi, una ragazza ombrosa da cui tutte si tengono alla larga – «ha il demonio dentro», dicono – e dalla quale persino le suore mettono Anita in guardia. Ma lei ne subisce il fascino e, malgrado Noemi non riveli mai il motivo per il quale è stata condannata, Anita si confida con lei. Le due stringono un patto: progettano di costruire un futuro insieme, una volta fuori. Sono convinte di poter trovare la propria strada nel mondo anche senza un marito. Ma oltre la soglia della prigione l’esistenza travolge e confonde come il brulichio incessante per le strade di Venezia, obbligando Anita a fare i conti con sé stessa e con il segreto inconfessabile che Noemi nasconde.

Alle due vite di Alessandro e Luca,
quella che è stata e quella che sarà.

Molto prima che l’estate fosse fuggita, verde erba
marciva al suolo: – molto prima che il mio cuore e
il tuo avessero terminato il loro gioco, la verde erba tornò a
germogliare di nuovo. Molto prima che il metro del nostro amore
avesse misura, il mio cuore s’era esausto, e
il sole ancora brillava liquido e fissava i miei
stanchi occhi.

AMELIA ROSSELLI

Chi vorrà piangere questa donna?
Non sembra forse la piú lieve delle perdite?
Il mio cuore solo non potrà mai scordare
chi la vita dette per un unico sguardo.

ANNA ACHMATOVA

Prologo

Si fa notte

Fuori ormai è buio e la redazione si è svuotata.

A quest’ora, dopo una giornata di lavoro, l’aria nella stanza è quasi solo fumo e inchiostro. Anche quando il custode spalanca le finestre l’odore si attenua e non scompare, ma si finisce per farci l’abitudine.

Anita copia in bella un articolo che deve andare in tipografia entro la mezzanotte. Conosce l’autore, Otello Agliardi, un veterano che fino a oggi non si è mai accorto della sua presenza e che è ancora in ufficio, lo vede chino alla scrivania sotto il cono di luce della lampada. Ha il sigaro in bocca, la barba sporca di cenere, scrive e cancella di furia inseguendo una frase che forse si ostina a sfuggirgli.

I suoi articoli arrivano sempre sul tavolo di Anita, l’unica capace di venire a capo del groviglio di serpi che è la sua calligrafia insieme barocca e austera. All’inizio di ogni paragrafo il tratto d’inchiostro si attorciglia in volute intorno alle maiuscole e poi si assottiglia fino a ridursi pressappoco a una linea continua che a ogni riga diventa piú arduo decifrare. Agliardi è un romagnolo sanguigno che ricorda Giosuè Carducci, specie se prende la parola in mezzo a un manipolo di colleghi. Parte con ampi preamboli e distinguo, e nel momento preciso in cui gli pare di aver afferrato il nocciolo della questione sbatte i pugni a braccia tese contro la scrivania e accelera il ritmo trascinando tutto con sé, al punto che è difficile stargli dietro e anche solo trovare lo spazio di infilare una replica. Ha la tempra del tribuno. Focoso, irascibile, repubblicano in modo sfacciato, è ostile alla pace di Versailles e sostiene Turati da molto prima del recente trionfo elettorale dei socialisti del ’19, di cui si compiace quasi come fosse opera sua. Ma la politica attiva non gli interessa. Preferisce di gran lunga esercitare il diritto di critica.

Anita vorrebbe concentrarsi sulla forma dell’articolo che sta copiando in bella. Il suo compito non è solo trascrivere, ma anche fare piccoli interventi discreti per rendere piú fluida la lingua, rammendi invisibili che non devono intaccare l’orgoglio dell’autore. Continua però a distrarsi. L’articolo è dedicato a un episodio di cronaca minuta a cui ha casualmente assistito anche lei. Una rissa fra venditori ambulanti di ceri finita al coltello proprio sul sagrato della basilica del Santo, con grande scandalo dei pellegrini e l’intervento della forza pubblica. Chissà per quale motivo una storia cosí irrilevante è tra le mani di Agliardi, cronista politico e giornalista di ben altro calibro. Forse una punizione. È già capitato. Non è raro alle intemperanze e con gli anni si è fatto piú nemici che estimatori.

Ad Anita piace poco il taglio che Agliardi ha scelto per l’articolo. Il resoconto dà ampio spazio al caos, alle condizioni dei feriti, all’arrivo delle guardie regie, agli arresti. Eppure c’erano altri particolari che avrebbero meritato un posto in cronaca. Le ragioni del disaccordo, per esempio – lei ricorda bene i due uomini accapigliarsi sul margine del suolo pubblico occupato, ognuno accusando l’altro di essersi accaparrato una parte dell’area non sua. E ha molto chiaro l’innesco della rissa. La moglie del piú anziano si era messa in mezzo per tenerli separati, il rivale l’aveva spintonata, lei era caduta a terra battendo la testa sul selciato. La rabbia dell’altro era esplosa facendo saltare fuori il coltello. Niente di tutto questo trova posto nel resoconto. In controluce si capisce benissimo che per Agliardi è un incarico sgradito, svolto controvoglia e senza fantasia.

Anita è stanca, ha fame, vorrebbe andare a casa. Scivola nel torpore e si distrae. Procede di due righe e deve risalire di tre. Si ritrova sempre allo stesso punto.

La riscuote Delia comparendole a fianco all’improvviso. Si è già tolta la giacchetta a taglio dritto delle impiegate e ha indossato cappello, cappotto e guanti. – Io vado, – dice. – Tu?

Anita sente salire l’irritazione. Nessuna delle donne dovrebbe restare sola in redazione, specie se ci sono ancora giornalisti, e soprattutto dopo il buio. È una regola non scritta che tutte conoscono: le ultime due impiegate devono avere l’accortezza di andare via insieme.

Lei però deve finire: – Ne ho per una mezz’ora, almeno.

Spera che l’altra capisca che è una preghiera. In circostanze diverse è stata lei ad aspettare Delia, che è spesso in ritardo. La ragazza si colora di rosso e assume un’espressione confusa: – Oggi non posso, ho promesso a mia madre. Abbiamo ospiti a cena.

Anita sorride con una punta di amarezza. Non è colpa di Delia; non è cattiva, lo sa. Per una volta le farebbe comodo che Biagio l’aspettasse, anche se in condizioni normali è lei che fa di tutto per evitarlo. Detesta la sua compagnia, lui la ricambia della stessa moneta, e nessuno dei due tenta di nasconderlo. Ma è molto probabile che sia già fuori da ore. Esce regolarmente prima di tutti. Spesso Anita ha sorpreso sulla sua schiena lo sguardo irritato del direttore che nota ogni cosa: i permessi, le assenze, le pause lunghissime del pranzo.

Lei si sforza di non essere confusa con Biagio a causa di quella fratellanza artificiale che li unisce. Vorrebbe che nessuno dimenticasse che, sebbene vivano sotto lo stesso tetto, portano un cognome diverso e non hanno sangue in comune.

Lui sarà a casa da tre ore almeno. Oggi in effetti non l’ha notato dileguarsi come al solito verso le cinque, era troppo concentrata. Quando gli torna utile sa essere scivoloso come un’anguilla.

– Vai, – dice a Delia per liberarla dall’incomodo. L’altra sembra poco convinta. – Non preoccuparti, – aggiunge.

Delia abbassa la voce: – Resteresti da sola. Potrebbero farti un richiamo.

– Lo so, ma questo deve arrivare in tipografia per stasera –. Solleva un angolo del foglio. – Che vada in anticipo o che resti per finire sono comunque passibile di rimprovero, e preferisco che sia per evitare l’accusa di un lavoro fatto male.

Insieme a Delia si avviano altri due giornalisti, giovani uomini chiassosi che ridono a voce alta. Si girano verso Anita con malizia, ora che rimane sola in redazione con Agliardi. Ma si sbagliano, perché anche lui si toglie il sigaro di bocca e si alza per andare.

– Buonanotte, signorina, – le dice sollevando il cappello. Anita sgrana gli occhi, sorpresa. Sono quasi due anni che è lí, e non ricorda che Agliardi le abbia mai rivolto la parola.

– Arrivederci a domani, – gli risponde.

Nella sala deserta si avverte solo il respiro della grande stufa a carbone ormai quasi spenta.

Il custode non si è ancora visto.

Anita sorride fra sé. Se riesco a evitarlo sarà una buona giornata, pensa. Ha molto bisogno di fortuna, e si tiene quel pensiero confortante nel petto.

All’improvviso la raggiunge un rumore che proviene dal corridoio, un oggetto metallico caduto in terra.

Il primo pensiero va al custode, ma un attimo dopo riconosce la sagoma di Biagio sgusciare dall’ufficio della contabilità, e richiudersi con grande cautela la porta alle spalle. Ha l’istinto di distogliere lo sguardo da lui come se la superficie del suo corpo fosse scivolosa, ma qualcosa la trattiene.

Biagio indossa cappotto e cappello, e le falde della sciarpa gli pendono irregolari ai lati del collo. Per una volta sembra libero dall’aura d’insolenza che d’abitudine è una cosa sola con la sua faccia.

Anita siede all’angolo piú distante del salone, la sua postazione è illuminata a malapena da una lampada da tavolo. Si rende conto che Biagio non l’ha vista.

Si muove a scatti, ha con sé una borsa a tracolla. La deposita sul tavolo piú vicino e si affaccia sul pianerottolo, poi rientra. Riprende la borsa, la apre gettando un’occhiata all’interno, infine la richiude e la infila di traverso sulla spalla.

– Cosa fai ancora qui? – gli chiede Anita alzandosi in piedi.

Biagio, che ha già le dita sulla maniglia, si immobilizza. Esita, ma in un attimo è di nuovo l’uomo di sempre, sul viso la solita boria.

– Sei tu che non dovresti restare qui dentro da sola se non c’è piú nessuno.

Anita deposita l’articolo nella cartella per la tipografia e sfila il cappotto dall’attaccapanni – Ho finito, infatti. Sto venendo via anch’io.

– Ma adesso ci sei. Non è raccomandabile.

Anita lo fissa con disprezzo. È troppo stanca per litigare con quel fratellastro che la vita le ha imposto tardi, e che non le è mai piaciuto, fin dal primo momento in cui ha messo piede in casa, ma tiene per sé le proprie considerazioni. Vuole solo andarsene.

Raccoglie le sue cose.

– Io stavo lavorando. Tu invece non mi hai detto perché sei qui a quest’ora.

Biagio sposta la borsa sul fianco opposto. – Ho avuto da fare fino a tardi. Non sei tu l’unica santa martire dello scrupolo, in famiglia.

Anita non ci crede neppure un momento. È capitato che si fermasse oltre l’orario nell’illusione di non essere visto – perché oltre che indolente è anche piuttosto stupido, e convinto di possedere una scaltrezza che non ha – ma in quei casi non era mai solo, e il dovere era l’ultima delle sue preoccupazioni. In redazione e in tipografia, nei sotterranei, stazionano saltuariamente un paio di garzoni che sono del suo stesso stampo. Qualche volta Anita li ha sorpresi nell’ufficio di Biagio a giocare a dadi, anche se per fortuna non capita spesso. Calboni, il responsabile della contabilità, è una persona seria. Quasi mai lascia l’ufficio prima di Biagio, e di rado lui ha mano libera per i suoi traffici. Ma dei compari stasera non c’è traccia.

Anita allunga la mano verso la borsa a tracolla. Biagio si ritrae con rabbia. Si trasforma ancora, adesso è contratto, teso. Al riflesso della luce che viene dal pianerottolo il viso pare una maschera di cuoio. Tutta questa instabilità la mette in allarme, è eccessiva perfino per una creatura volubile come lui.

– Cos’hai lí dentro?

Biagio stringe gli occhi. – Non devo rendere conto a te delle cose mie –. Afferra di nuovo la maniglia ed esce.

Anita segue l’istinto. Invece di andargli dietro, imbocca il corridoio e spalanca la porta dell’ufficio contabilità.

Biagio rientra a precipizio ma non abbastanza in fretta da bloccarla.

Nell’ufficio tutto sembra in ordine. Anita accende una lampada e fa qualche passo. Biagio la blocca: – Di cosa t’impicci? Se fai confusione, domani Calboni lo sento io!

Anita non si volta nemmeno.

– Calboni pensa malissimo di te in ogni caso.

Biagio le serra il braccio con violenza.

– Mi fai male.

– Andiamo a casa, è tardi!

Nell’angolo, tra l’archivio e la finestra, c’è la cassaforte, un parallelepipedo di metallo poco piú alto di un metro. Anita la ricorda bene. Capitava spesso in quell’ufficio, da bambina, all’epoca in cui suo padre Pietro dirigeva la contabilità del giornale. La cassaforte è forse l’unico pezzo d’arredo che negli anni non è mai stato sostituito.

Si divincola dalla presa e si dirige nell’angolo. Biagio prova di nuovo a fermarla senza esito. Userebbe la forza se non fosse un completo inetto, ma non è capace di scacciare nemmeno un insetto che lo molesta. Anita si piega sulle ginocchia e tira la maniglia. Lo sportello resiste.

Si rivolge al fratellastro. Intuisce che sta facendo uno sforzo immenso per controllarsi.

– Cosa hai fatto?

– Proprio niente.

– Apri la borsa.

Biagio si allontana. – Non ti permettere.

– Non ti ho mai visto restare fino a quest’ora. Lo capisci che se manca qualcosa sei il primo a cui penseranno?

Biagio sussurra. – Io sono fuori dalle quattro.

– Cosa dici?

– Sono uscito alle quattro, ti ripeto. Prima di Calboni. Mi hanno visto tutti, in redazione e in tipografia. Anche il custode.

Anita è incredula: – Sei impazzito? Ti vedo io, ora, e sei ancora qui.

Biagio annuisce: – Appunto, solo tu. Chiunque altro può giurare che sono andato via tre ore fa.

Dio, pensa Anita, nemmeno lui può essere cosí stupido.

Si alza in piedi di scatto: – Va bene, non è troppo tardi. Qualsiasi cosa tu abbia preso, rimettila dov’era.

Biagio comincia a sembrare meno sicuro di sé.

– Non posso. La cassaforte adesso è chiusa, l’hai constatato anche tu.

Per un istante Anita trema, quasi prossima alla gioia. Lo arresteranno, andrà in galera, dove del resto è sempre stata certa che sarebbe finito. E lei sarà libera di vivere in pace con Luisa senza quell’inutile impiastro tra i piedi.

Si riscuote subito. È un’illusione. Come faranno senza lo stipendio di Biagio? Lei porta a casa un’elemosina con cui a malapena saldano la metà della pigione, e poi non ne avanza neppure per mettere in tavola una pagnotta di grano duro. Anita lo sa meglio di tutti, da quando era poco piú che una bambina è lei che tiene i conti in casa, e a fine mese fa mille acrobazie perché tornino i calcoli. Ha provato a proporsi come contabile all’inizio, per i numeri ha una speciale vocazione. Ma è una donna. Calboni non vedeva di buon occhio l’idea che maneggiasse dei soldi. Ha preferito relegarla alla correzione di bozze dove il rischio di fare danno era minore, e al posto suo ha scelto Biagio. Oltretutto, se lo accusano di furto, è quasi certo che anche lei perderà il lavoro, come potrebbero tenerla? Non è a sé stessa che pensa, potrebbe vivere di niente o trovarsi un altro impiego. Luisa però non ha nemmeno quindici anni, va a scuola, è una ragazzina affettuosa e inquieta. Prendersene cura è la sola cosa che dà un senso alla fatica di Anita.

– Per favore, – dice piano, perché l’istinto le suggerisce che la condotta piú saggia da seguire è appellarsi alla residua dignità di Biagio, alla sua natura di uomo, nella speranza che risvegli in lui almeno l’ombra della responsabilità di un capofamiglia, – te lo chiedo in ginocchio. Qualunque cosa tu abbia preso ti costerà una denuncia. Non è tardi, rimettila a posto. Se la cassaforte è chiusa, puoi usare un cassetto. Sembrerà una dimenticanza.

Biagio pare prendere seriamente in considerazione l’ipotesi. Anita lo vede agitato da un rimasuglio di coscienza, il poco che resta in lui di discernimento e onore. Per un momento spera, ma l’istante passa e tutto si riassorbe.

– Usciamo da qui. Tu devi solo dire che mi hai visto andar via alle quattro, nient’altro.

– Non ti coprirò mai, – risponde Anita.

Le sale l’odio al ricordo di suo padre. La memoria di lui, che in quell’ufficio è stato trent’anni guadagnandosi il rispetto dei colleghi, insudiciata da un farabutto.

Biagio ha un moto di insofferenza. – E invece ti conviene stare zitta –. Conosce bene i punti deboli di Anita. – Pensa alle conseguenze. Per te, e per Luisa.

Dalla sala della redazione arriva il tonfo di un carico pesante lasciato cadere sul pavimento. Il secchio del custode.

Emanuela Canepa (Roma, 1967) vive a Padova. Il suo esordio L’animale femmina (Einaudi 2018 e 2019), vincitore all’unanimità del Premio Calvino 2017, ha avuto un’ottima accoglienza di critica e di pubblico e ha vinto il Premio Letterario Fondazione Megamark, il Premio Anima della Confindustria e il Premio per la Cultura Mediterranea – Fondazione Carical nella sezione Narrativa Giovani. Sempre per Einaudi ha pubblicato Insegnami la tempesta (2020) e Resta con me, sorella (2023). Per Tetra è uscito Quel che resta delle case (2022).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"