“La libraia di Auschwitz”
Titolo originale: A Delayed Life
Autrice: Dita Kraus
Traduzione di: Laura Miccoli
genere: romanzo storico
data di pubblicazione: 7 Gennaio 2021
pagine: 411
prezzo: 12,00 euro
Una commovente storia vera
«Le memorie di una testimone degli orrori dell’Olocausto.»
A soli tredici anni Dita viene deportata ad Auschwitz insieme alla madre e rinchiusa nel settore denominato Campo per famiglie (tenuto in piedi dalle SS per dimostrare al resto del mondo che quello non fosse un campo di sterminio): quello che conteneva il Blocco 31, supervisionato dal famigerato “Angelo della morte”, il dottor Mengele. Qui Dita accetta di prendersi cura di alcuni libri contrabbandati dai prigionieri. Si tratta di un incarico pericoloso, perché gli aguzzini delle SS non esiterebbero a punirla duramente, una volta scoperta. Dita descrive con parole di una straordinaria forza e senza mezzi termini le condizioni dei campi di concentramento, i soprusi, la paura e le prevaricazioni a cui erano sottoposti tutti i giorni gli internati. Racconta di come decise di diventare la custode di pochi preziosissimi libri: uno straordinario simbolo di speranza, nel momento più buio dell’umanità. Bellissime e commoventi, infine, le pagine sulla liberazione dei campi e del suo incontro casuale con Otto B Kraus, divenuto suo marito dopo la guerra. Parte della storia di Dita è stata raccontata in forma romanzata nel bestseller internazionale La biblioteca più piccola del mondo, di Antonio Iturbe, ma finalmente possiamo conoscerla per intero, dalla sua vera voce.
La vera storia di Dita Kraus, la giovanissima bibliotecaria di Auschwitz, diventata un simbolo della ribellione, finalmente raccontata da lei stessa.
Il libro di cui vi sto per parlare è una storia che vi commuoverà e vi farà scoprire alcune vicende di cui penso la maggior parte di noi non è a conoscenza…
Sono pagine intrise di gioia, di dolore ma anche di speranza e di resilienza. Edith Polachovà che noi conosciamo come Dita Kraus, in questo libro, ci apre le porte del suo cuore, coinvolgendo il lettore a rivivere con lei le tappe più cruciali della sua esistenza.
Parte della storia di Dita è già stata scritta in maniera romanzata dall’autore Antonio Iturbe nel romanzo “La biblioteca più piccola del mondo” mentre nel romanzo “La libraia di Auschwitz” la donna in prima persona ci racconta passo dopo passo quello che ha vissuto.
“La libraia di Auschwitz” è diviso in tre parti: nella prima la donna ci racconta la sua infanzia felice e il suo legame speciale che aveva con la sua adorata nonna, nella seconda ci narra della sua deportazione e quella della sua famiglia e nella terza, invece, ci fa rivivere insieme a lei e al marito Otto, la fatica di rialzarsi dopo un vissuto così drammatico trasmettendoci tutta la sua tenacia nel volersi riappropriare della sua vita e della sua dignità umana…
“Pensavo che forse, se avessi messo in pausa la speranza e non ci avessi più pensato, un giorno le cose sarebbero andate a buon fine.”
Dita trascorre la sua infanzia a Praga insieme ai genitori, ai nonni e agli zii, è una bambina amata da tutti dalla sua famiglia ma anche dalle sue amiche di scuola ma in particolar modo dalla sua cara nonna.
Dita è una bambina diligente, educata e le piace molto andare a scuola, socializzare, uscire con le amiche. Difatti, quando nel 1940 furono indette le prime leggi razziali nei confronti degli ebrei , per lei fu molto difficile, tuttavia non si arrese e con l’aiuto dei suoi genitori trovò comunque il modo di studiare in clandestinità.
Agli ebrei era permesso risiedere solo in alcuni quartieri che erano stai loro assegnati e si ritrovarono a dover condividere piccoli appartamenti con altre famiglie.
Poi arrivò una nuova restrizione, gli ebrei dovevano andare in giro con una stella attaccata ai cappotti la “Magen David” e da lì ebbe inizio il declino.
Iniziarono le prime deportazioni…
Era il 20 novembre del 1942 quando Dita e la sua famiglia furono deportati nel ghetto di Terezìn, una volta arrivati vennero separate dal padre.
Nel ghetto la vita era molto faticosa, però le ragazze tra loro potevano parlare di cultura e condividere la passione per la lettura.
In quel luogo ogni donna era addetta a una mansione , Dita cambia diversi lavori finché non va a lavorare nella Heim svolgendo faccende domestiche, le ragazze che lavoravano in quel posto potevano ritenersi “privilegiate”. Purtroppo in una notte di Dicembre del 1942, la ragazza ,la madre e le altre compagne di sventura furono caricate su un convoglio diretto ad Auschwitz.
Ad Auschwitz la vita era davvero dura: il lavoro era pesante , si pativa la fame e l’uomo era stato privato da ogni genere di dignità, vennero derubati dei loro nomi sostituendoli con sei numeri tatuati sul braccio.
“Mi incisero un 7 e poi l’inchiostro nella siringa finì. Il 3 era a malapena visibile. Con l’inchiostro fresco completarono il tatuaggio: il numero per intero era 73.305. Quello di mia madre è il successivo.”
Dita fu mandata a lavorare nel blocco n 31, il Kinderblok, il blocco occupato dai bambini, lì le venne affidato l’incarico di libraia, il suo compito era quello di sorvegliare i libri che venivano trovati nei bagagli.
“I bambini venivano nel kinderblock di mattina, l’Appell si teneva all’interno e poi i gruppi, divisi in base all’età , si sedevano in cerchio su due piccoli sgabelli insieme all’insegnante.”
Fu proprio lì che Dita incontrò Otto Kraus ,inconsapevole del fatto che il destino li avrebbe fatti rincontrare una volta finita la guerra .
Dita e la madre superarono le selezioni del dottor Megele e furono deportate ad Amburgo, quelle che rimasero ad Auschwitz furono assassinate nel 1944.
Ad Amburgo la permanenza si rivelò meno traumatica, Dita iniziò a lavorare nelle raffinerie.
Nel campo le donne avevano formato dei gruppi, era importante sentire il sostegno delle altre in quell’esistenza così difficile.
“Avevamo bisogno di qualcuno che ci ascoltasse, qualcuno con cui parlare della casa e della famiglia, delle paure e delle angosce .(…)
Eravamo del tutto esposte l’una all’altra.”
Dopo Amburgo Dita e sua madre vennero mandate in altri campi finché non arrivarono a Bergen-Belsen.
“Non provavo alcun dolore, né alcuna pietà. Non provavo nulla. Capivo che quanto vedevo intorno a me era orribile, oltre ogni comprensione umana, ma non provavo lacuna emozione. Camminavo scavalcando i cadaveri, mi sedevo insieme a Margit e a mia madre e parlavo, vedevo donne cadere e morire oppure udivo l’ultimo sospiro di una moribonda. Ma non avvertivo né dolore né sofferenza, neppure per me stessa. Esistevo solo sul piano biologico, privata di qualunque umanità”
Nell’Aprile del 1945 quando tutto sembrava ormai perduto l’esercito britannico arrivò in loro soccorso, e crebbe in loro la speranza che tutto potesse finalmente finire.
Finalmente per i detenuti era arrivata la tanto agognata libertà, furono nutriti e tenuti in quarantena a causa del tifo e di altre malattie che erano presenti nel ghetto.
Dita aiutò l’esercito britannico a indagare sui fatti che erano accaduti nei campi, fece da interprete, i ruoli si erano finalmente invertiti, ora i prigionieri erano le stesse persone che avevano fatto soffrire tutta quella povera gente.
Quando arrivò il momento di ritornare a casa purtroppo per Dita accadde qualcosa di veramente doloroso.
Dita rientrò a Praga pensando di essere l’unica sopravvissuta di tutte le persone che conosceva, ma una volta rientrata trovò una bellissima sorpresa.
Dopo la guerra non fu facile per i sopravvissuti riappropiarsi delle loro vite, dovettero fare molti sacrifici.
Dita e Otto si sposarono e si trasferirono in Israele, e per sette anni vissero in una piccola comunità, ebbero tre figli ma ancora una volta il destino si dimostrò funesto con loro…
Dita è l’unica bambina superstite del blocco 31, infatti lei è la portavoce di quelle vite che sono state spezzate prematuramente in maniera disumana.
“La libraia di Auschwitz” è una storia realmente accaduta, una testimonianza dolorosa che aiuta a non far dimenticare gli avvenimenti più crudeli che sono successi nell’arco della storia.
La storia di una donna che oggi novantenne è sopravvissuta ai più atroci dei maltrattamenti, una vita di rinunce, di sofferenza, di dolore, di forza racchiusa in 413 pagine che Dita ha voluto regalarci.
Immagino questa donnina, ormai di una certa età, seduta a scrivere le pagine della sua vita, penso che non sia stato affatto facile per lei rimettere insieme i tasselli della sua esistenza, ogni ricordo doloroso porta con sé una ferita ancora aperta, penso che non sia facile ricordare tutto ciò senza sentire l’anima lacerarsi.
Edith però è anche il simbolo della resilienza, la sua forza di volontà l’ha aiutata a superare quei momenti difficili di quando era ragazzina, facendosi portavoce dei fatti che sono successi.
L’ hanno scorso ho letto “Il maestro di Auschwitz” scritto dal marito di Dita, Otto Kraus e l’avevo trovata una lettura priva di emozioni, non mi aveva trasmesso nulla, leggendo “La libraia di Auschwitz” Dita parlando del carattere del marito ho capito il perché mancava di phatos quel libro, perché Otto raccontava di quello che aveva vissuto in maniera distaccata mentre la moglie si è spogliata dalle sue emozioni regalando al lettore una storia avvincente, coinvolgente , una giostra di emozioni che penso siano quelle che prova lei ogni qualvolta debba raccontare la sua storia.
Per questo voglio dire grazie a questa donna che ha trovato la forza di aprirsi al mondo facendosi carico di un bagaglio emozionale molto pesante, ma necessario: PERCHE’ NON DOBBIAMO DIMENTICARE!
“Ora non devo più attendere…che la guerra finisca, che ci liberino, che io mi sposi, che nasca mio figlio, che arrivino più soldi, che l’anno scolastico finisca, che giunga la pace…
Non devo mettere più in pausa nulla; ora sono tornata al passo con la mia vita.”
DITA KRAUS