Era la «Fräulein di Ferro», la giovane e affascinante ereditiera delle fonderie Falkenberg, fiore all’occhiello del Reich nazista. Ora, un anno dopo la resa della Germania, Clara Falkenberg non è più nessuno. Col padre in prigione e le proprietà confiscate, è costretta a vivere sotto falso nome per sfuggire agli occupanti alleati. E, quando un ufficiale inglese arriva pericolosamente vicino a scoprire la sua vera identità, Clara decide di nascondersi dalla sua amica Elisa, l’unica persona di cui possa fidarsi. Ma Essen è una città distrutta ed Elisa è scomparsa. Vagando tra le macerie, Clara incontra Jakob, un reduce che la guerra ha privato di tutto e che ora traffica al mercato nero per sfamare le sorelle. Forse lui potrebbe essere disposto ad aiutarla. Perché forse non la considera una criminale, bensì una figlia devota che ha fatto quanto era necessario per sopravvivere, nascondendo il suo disprezzo per il regime e obbedendo agli ordini per salvare l’impresa di famiglia. Forse lui la ritiene innocente, eppure è Clara che più si guarda indietro più si sente colpevole. E capisce che, se vuole davvero cominciare una nuova vita, deve prima fare i conti con quello che resta del passato e con le conseguenze delle sue azioni… In guerra, il mondo si divide in vittime e carnefici, traditori ed eroi. Eppure il confine non è sempre così netto e, a volte, è possibile tracciarlo solo quando è troppo tardi. Perché non aver fatto a di male non significa aver agito per il bene, e spesso sono le azioni che non abbiamo il coraggio di compiere a gravare di più sulla coscienza. Questo romanzo spiazzante ci mostra tutte le contraddizioni di chi si è trovato all’improvviso dalla parte dei vinti, delineando il coinvolgente ritratto di una donna forte, compassionevole e severa, soprattutto con se stessa.
Alle mie figlie,
Olivia e Amelia
Questo romanzo è opera di fantasia: nomi e personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice, e qualunque rassomiglianza con persone reali – viventi o no – è del tutto fortuita.
1
Tutti rubavano. «Organizzare», lo chiamavano. Organizzavano carbone dai treni in corsa. Organizzavano automobili parcheggiate in strada. Organizzavano tubazioni da case con bombe inesplose sul tetto. Soprattutto organizzavano alimenti. Scavavano negli orti e abbattevano vacche. Dirottavano autocarri e rapinavano negozi. Proprio quella mattina, Clara aveva letto di un uomo che aveva preso a randellate in testa un amico per una fetta di pane. Aveva avuto appena un brividino al collo, dopodiché era passata ad altro. Organizzare: lo facevano tutti, in un modo o nell’altro.
Invece di sedersi vicino alla lampada a petrolio come le altre donne, Clara appoggiò la schiena al muro, nel punto più lontano dalla luce. Dopo il tramonto, quando gli Alleati ripristinavano l’elettricità, tutte si ritrovavano illuminate dall’alto, in un bagliore glassato che metteva in evidenza il colore degli occhi, i nei e tutti gli altri dettagli che lei avrebbe preferito far passare inosservati. Toccò il documento d’identità che teneva in tasca, saggiandone il cartoncino dozzinale e la superficie liscia della fotografia. Era quasi legale, emesso dal municipio, con tanto di firme e marche da bollo.
Ma la identificava come Margarete Müller.
Nella sala d’aspetto non c’era abbastanza luce per leggere, perciò le donne si scrutavano in silenzio. Erano quasi tutte madri, più giovani di lei, con facce grigie e figli in grembo. Nella parte di Margarete Müller, Clara si sforzò di non saltare all’occhio. Il cappotto di lana rattoppato era come quello delle altre, le sue calze erano rammendate come le loro, a parte una smagliatura all’altezza del ginocchio sinistro, appena sotto l’orlo della gonna. Non aveva avuto il tempo di accomodarla. Ma le donne la fissavano. Fissavano le scarpe col tacco che si era messa nonostante il gelo. Fissavano la gonna, un po’ troppo corta per essere decorosa. Fissavano il colore scarlatto delle sue labbra, un rossetto di recupero, risalente agli anni della guerra. Lei lo sapeva, cosa stavano pensando: Indecente. Impresentabile. Scandalosa. Solo perché si vedeva un pezzetto di ginocchio. Le madri sanno essere crudeli.
Provò a ignorarle, concentrando lo sguardo sulla porta dell’ambulatorio, ancora ben chiusa, uno spesso pannello in rovere che impediva il passaggio dei suoni. Quando si aprì e ne uscì la voce del dottor Blum, le donne drizzarono la schiena, si ravviarono i capelli e si pizzicarono le guance per accenderne il colorito. L’uomo accompagnò fuori una donna con una bambina dalle treccine bisunte e dal pallore malaticcio, lo stesso che aveva avuto anche Clara, fino a poco tempo prima. Scandagliò con lo sguardo la sala d’aspetto, forse contando le pazienti e calcolando la quantità di tempo ed energie necessaria a visitarle tutte quante. Clara si era messa in cura da lui sei mesi prima, e da allora era smagrito, al punto che le ossa del cranio sembravano sul punto di bucare la pelle. Il dottore si accovacciò davanti alla bambina per parlarle faccia a faccia, a differenza di qualunque medico Clara avesse mai visto – di solito erano troppo altezzosi per queste cose – e le posò una mano sul lato della testa. Tutte le presenti lo scrutarono. Lui trasalì ed estrasse, apparentemente dall’orecchio della piccola, un incarto da caramella. Vuoto. Accigliandosi in maniera esagerata, come un pagliaccio, lasciò cadere la carta, che sfarfallò fino al pavimento. Riprovò, di nuovo trasalì… ed ecco una mentina avvolta in una stagnola. La bambina l’agguantò e sfrecciò verso la porta, seguita dalla madre, che però uscendo si concesse un istante per sbattere le ciglia al dottore. Clara lo conosceva abbastanza da essere al corrente di quella sua abitudine di distribuire dolciumi misteriosamente comparsi in ambulatorio. Li prendeva al mercato nero e, ogni volta che ne trovava, si riprometteva di razionarli per farli durare una settimana o più, in modo che i bambini malati avessero un motivo per non vedere l’ora di farsi visitare. Ma non ce la faceva mai: alla fine della prima giornata, il barattolo era già bell’e vuoto. Lo sapevano tutti, presso lo studio medico.
Quando rivolse nuovamente lo sguardo alle donne, loro tossirono nel fazzoletto, si portarono una mano alla fronte e diedero pizzicotti ai bambini. Uno dei più piccoli, un maschietto, scoppiò a piangere. Che modo crudele di attirare l’attenzione. Clara si concesse un istante per esaminare la smagliatura nella calza, chinandosi quel tanto che bastava a far risalire la gonna un po’ di più.
In tono neutro, il dottor Blum disse: «Fräulein Müller?»
Clara gli passò accanto, zoppicando – all’arrivo non le era venuto in mente di farlo, se n’era ricordata solo adesso – e alle sue spalle i colpi di tosse delle donne si fecero ostili.
Finalmente soli. Il dottore la sollevò di peso e la mise a sedere sul lettino. «Sei in anticipo, tesoro. La visita era alle cinque.»
«Mi tocca disdire. Oh, non fare quella faccia da cane bastonato!» Gli posò le mani a coppa sulle orecchie morbide e fragili, e gli baciò il volto meravigliosamente ordinario, una guancia puntuta, poi l’altra, e infine le labbra screpolate. Era bassetto, perfino troppo per i suoi gusti: avrebbero avuto all’incirca la stessa statura, se lei avesse assunto la stessa postura eretta che aveva negli anni della guerra. A quell’epoca, gli Alleati l’avevano canzonata dicendo che si era fatta sostituire la colonna vertebrale con una verga di ferro. L’avevano descritta come una creatura innaturale, metà umana e metà macchina. Su Punch era uscita una caricatura di lei che divorava carbone e beveva petrolio, con ruote dentate al posto delle giunture. Lei l’aveva incorniciata e appesa accanto alla poltroncina dello studio, per ricordare a se stessa come appariva agli occhi del mondo.
Ma il dottor Blum non era al corrente di tutto ciò.
«Amore…» gli disse, accarezzandogli una guancia. «Vado a Essen per qualche giorno.»
«Dicevi che ci saresti andata a fine mese, per Natale.»
«Sai quant’è matto il clima, ho pensato di fare una visitina adesso, prima che il gelo incolli i treni ai binari. Non vorrei restare bloccata chissà dove.»
Lui parve scettico. Strano: era sempre stato tanto comprensivo, disponibile all’ascolto. Al primo incontro, Clara si era rivolta a lui lamentando un improvviso senso di debolezza, testa ovattata, un peso che la schiacciava così tanto da costringerla a sedersi per non svenire. Lui le aveva prescritto pastiglie che sapevano di zucchero e rivoltanti intrugli che le lasciavano una patina oleosa in gola. Le aveva detto che aveva «un tantino di anemia». Ma ormai lei conosceva già la vera diagnosi: fame. Il malanno nazionale. Per la prima volta in vita sua, aveva patito la fame così a lungo da riportare danni all’intero organismo.
«Margarete, tu non me la racconti giusta. Sei pallidissima. E non hai dormito, lo vedo dalle occhiaie.»
Lei abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate. «Sono solo preoccupata. Non per noi, ma per Elisa, la mia amica di Essen. Ti ho parlato di lei, no?»
«Non mi pare.»
«Non risponde alle mie lettere. È da settimane che sono in pensiero. Devo andare a vedere se sta bene.»
«Non puoi aspettare Natale? Avevamo progetti per stasera…»
Lei gli spiegò nuovamente il problema del meteo e dei giorni di permesso che era riuscita a farsi dare dal direttore del cementificio in cui lavorava, un uomo che era rimasto strabiliato dalla sua perizia in fatto di produzione e logistica: trovava incredibile che fosse così preparata, giovane com’era. Lei aveva accolto il complimento con un sorriso umile, mormorando qualcosa a proposito della preziosa esperienza acquisita… a Essen.
«Tornerò in men che non si dica. Festeggeremo il Natale assieme.»
Il dottor Blum si ritrasse e andò alla scrivania arruffandosi i capelli. Aprì il cassetto con uno strattone, ne estrasse qualcosa e tornò da lei, tendendo entrambe le mani chiuse a pugno. «Scegli.»
Clara s’illuminò tutta. «Mentina? Cioccolatino?»
Lui inarcò un sopracciglio, e quell’espressione asimmetrica le strappò un sorriso. Blum non aveva mai dato prova di questo genere di spirito, e Clara apprezzò quel lato di lui, finora sconosciuto. Puntò un dito sul pugno sinistro. Lui l’aprì, dito dopo dito.
«Oh… Oh, santo cielo!» disse lei.
Al bagliore della lampada, l’anello sul palmo della sua mano aveva un lucore cupo, come oro vecchio. Era una semplice veretta senza pietre, e al solo vederla le sudarono le mani.
«Ecco che programmi avevo per stasera. Ho trovato il coraggio…» Lui si schiarì la gola e diede inizio al discorso. «Cara Margarete, io non sono un uomo facoltoso…» Le diede un resoconto della sua situazione finanziaria, delle spese relative all’ambulatorio, della poca attrattiva di vivere nell’appartamento al piano di sopra, e del fatto che la guerra avesse divorato tutti i suoi risparmi. «Ma non patirai la fame», concluse. «Te lo garantisco. Possiamo permetterci di vivere onestamente, senza rubare o chiedere l’elemosina come gli altri.»
Lei stava ancora osservando l’anello. Si conoscevano da poco e per i primi tempi non erano stati altro che medico e paziente. Avrebbe voluto chiedergli la ragione di tanta fretta, ma lui era tutto rosso e faceva così tante promesse sulla loro vita assieme, che lei non ebbe cuore d’interromperlo.
«E poi pensavo che potresti occuparti dell’amministrazione», continuò lui. «Ci sai fare, tu, con queste cose. Non ti dico che scompiglio ho, tra fatture e libri contabili. Da quando ho perso la mia assistente, non so più a che santo votarmi.»
«Ah, quindi cerchi manodopera a poco prezzo?»
«Ma no!» Lui la strinse a sé. «Però, ora che me lo dici…»
Lei gli diede un buffetto su un braccio. Era più nervosa di quanto non desse a vedere: il matrimonio era sempre stato un argomento delicato, per la sua famiglia, e tuttora la metteva a disagio. Cercò d’immaginare il dottor Blum che si presentava al futuro suocero: papà avrebbe preso in simpatia quest’uomo così posato, affidabile e generoso. Già li vedeva stringersi la mano, il dottor Blum con un inchino deferente, papà con una mano alzata, che diceva: Bando alle formalità. Siamo in famiglia, e poi i tempi sono cambiati. Un’opportunità per cambiare vita.
Il signor dottore. Il dottor Adolf Blum. Il nome di battesimo le dava ancora i brividi, però magari bastava chiamarlo… Adi? A parte quell’unico dettaglio, era l’uomo perfetto, con la sua placida vita in quell’angolino di Germania, senza parenti né amici intimi. Come lei, evitava la socialità. Non leggeva giornali, e inizialmente la cosa le era parsa strana, ma d’altronde tutti quanti ne avevano piene le tasche, della politica. Ogni volta che alla radio passava la sigla del notiziario, lui girava il sintonizzatore su una stazione di musica. La sua passione era la polka. Da un uomo che amava la polka, non c’era nulla da temere.
Clara guardò la macchia di umidità sul soffitto e la scrostatura sul davanzale. Non era mai stata nelle stanze al piano di sopra, ma le immaginava buie, basse e strette. Non era un granché, come casa, ma forse bastavano una mano di vernice, mobilia di qualità e un pochino di cura, per farne un luogo in cui suo padre potesse sopportare di abitare, una volta scarcerato. Un posto tranquillo e comodo, per ristabilirsi, lontano dalla scena pubblica. Ne avrebbe avuto bisogno. Soprattutto, avrebbe trovato utile avere un medico in famiglia. Clara immaginò la scena del suo trasloco: già si vedeva a tenerlo a braccetto per aiutarlo a salire la scala. Batté le palpebre per scacciare quell’immagine. «Posso porre una condizione?»
Il dottor Blum si sfilò gli occhiali. Le sue iridi azzurre sembravano dipinte ad acquerello. «Davvero?»
«Davvero.»
Il suo bacio aveva il sapore di una caramella calda. Fu difficile staccarsene.
«Non voglio clamori sulle nozze», gli disse lei. «Niente annunci sul giornale. Cerimonia modesta, solo i testimoni.»
«Certo, come preferisci tu.»
L’unica testimone cui tenesse era Elisa: non era disposta a sposarsi senza che la sua più vecchia amica le intrecciasse una corona nuziale con le carte delle gomme da masticare, o le desse consigli sugli uomini. Due mesi prima, Clara si era finalmente arrischiata a spedirle una lettera, ma non aveva ancora ricevuto risposta. Probabilmente le poste erano inaffidabili come qualunque altra cosa, di questi tempi. Però c’era anche la possibilità che Elisa non avesse voluto risponderle, visto che, alla fine della guerra, Clara era partita da Essen senza nemmeno salutarla. Le era parso più sicuro che nessuno fosse al corrente dei suoi progetti. Così, se qualcuno avesse fatto domande, Elisa non sarebbe stata costretta a mentire. Ma quei due mesi di silenzio erano molto preoccupanti. Clara aveva cominciato a fare scorte di alimenti e a controllare quasi ogni giorno l’operatività della linea ferroviaria per Essen. Le bastava una breve visita, per vedere come stessero Elisa e suo figlio, e scusarsi per essersene andata senza preavviso. Era convinta che, dopo le doverose spiegazioni, l’amica l’avrebbe perdonata. Inoltre Clara avrebbe potuto consegnarle di persona l’invito alle nozze.
Rigirò l’anello tra le dita. Una volta sposata, avrebbe abitato lì a Hameln, non a Essen. Le faceva strano, a pensarci. Un cambiamento drastico. Ma probabilmente più sicuro, alla lunga. «Ah, tesoro, un’altra cosa. La foto di nozze… Una sola, per noi. Non per amici e conoscenti.»
Si aspettava che il dottor Blum gliene chiedesse il motivo, invece lui si limitò a infilarle l’anello al dito. Un gesto lento. Fortemente allusivo. «Nessun problema.»
Si abbracciarono. Clara non si capacitava del fatto di stare per sposarsi. La notte prima non aveva dormito e temeva di non essere lucida, eppure tra le braccia di lui si sentiva protetta, e voleva farlo durare ancora un po’. Agganciò un dito alla cintola dei suoi pantaloni. Lui ne rimase sorpreso, ma solo per un attimo. La premette forte contro il lettino medico, con impellenza, quasi con disperazione. Clara ricambiò la spinta: lo desiderava anche lei, nella stessa misura. Erano passati anni dall’ultima volta che era stata con un uomo, un’esperienza tutt’altro che entusiasmante.
Anika Scott è nata in Illinois, in una base dell’aeronautica militare, ed è cresciuta in Michigan, appena fuori Detroit. È laureata in Relazioni politiche internazionali e Giornalismo. Ha lavorato per anni per il Philadelphia Inquirer e per il Chicago Tribune, per poi trasferirsi in Germania e diventare giornalista freelance. Attualmente vive a Essen col marito e le due figlie.
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