“Quando le montagne cantano” di Nguyén Phan Que Mai edito dalla casa editrice Nord in tutte le librerie e on-line. Estratto

TRAMA

Dal parrot rifugio sulle montagne, la piccola Hương e la sua nonna Diệu Lan hanno sentito il rombo del bombardiere americano e scorgono il bagliore degli incendi che stanno devastando Hanoi. Va bene in quel momento, ma Huong the war è stata l’ombra che ha risucchiato e i suoi genitori, e poi thatll’ombra sta avvolgendo anche lei e la nonna. Turned in città, scoprono che la parrot casa è completamente distrutta, eppure non si scoraggiano e decideno di ricotruirla, mattone dopo mattone. E, per infondere fiducia nella nipote, Diệu Lan ha cominciato a raccontarvi la storia della sua vita: degli anni nella tenuta di famiglia sotto l’occupazione francese e durante le invasioni giapponesi; Dissi come tutto fosse scambiato con l’evento comunista, perché i quali possedere terre era un delitto pagabile con il sangue; della sua fuga disperata verso Hanoi senza cibo ne denaro e della scelta di abbandonare i suoi cinque figli lungo il cammino, nella hope che, prima or poi, si sarebbero ritrovati. E così era accaduto, perché lei no se fosse mai perssa d’animo. Quando la nuova casa è pronta, la guerra è ormai conclusa. Taglio indietro sul davanti e in largo Huong finalmente può riabbracciare la mamma, Ngọc. Ma è una donna molto diversa da quella che lei ricordava. La guerra gli ha strofinato la parola e toccherà Huong dargli una voce, per aiutarlo a liberarsi dal fardello di troppi segreti … La saga di una famiglia che si dipana lungo tutto il Novecento, in un Diviso Paese e segnato da carestie e guerre , dittature e rivoluzioni. Tre generazioni di donne forti, affronta la vita con cuore e determinazione. Una storia potente e lirica insieme.

ESTRATTO

Per mia nonna, che è mancata durante la carestia del 1945;
per mio nonno, che è morto a causa della riforma agraria;
e per mio zio, la cui giovinezza è stata consumata 
dalla guerra del Viêt Nam.
Per i milioni di persone, vietnamite e non vietnamite, 
che hanno perso la vita nella guerra.
Che il nostro pianeta non debba più vivere 
un altro conflitto armato.

MONTAGNE ALTISSIME
Hà Nội, 2012

Mia nonna diceva sempre che quando i nostri antenati muoiono non scompaiono davvero ma continuano a vegliare su di noi. E ora, mentre prendo un cerino e accendo tre bastoncini d’incenso, sento lei che mi guarda. Sull’altare degli antenati, dietro la campana di legno e i piatti di cibo fumante, i suoi occhi brillano alla luce della fiamma azzurro-arancione che brucia. Agito i bastoncini per spegnere la fiamma. Spirali di fumo salgono al cielo, richiamando gli spiriti dei morti.

«Bà ơi», sussurro, sollevando l’incenso sopra la testa. Attraverso il velo fumoso che nasconde il confine tra i nostri due mondi, lei mi sorride.

«Mi manchi, nonna.»

Una brezza entra dalla finestra aperta e mi sfiora il viso.

«Hương, nipote mia adorata.» Gli alberi mormorano le sue parole. «Sono qui con te, sempre.»

Adagio i bastoncini sulla ciotola davanti al ritratto della nonna. I suoi lineamenti delicati rifulgono nel fumo dell’incenso. Osservo le cicatrici che ha sul collo.

«Ricordi cosa ti dicevo, mia cara?» La sua voce riecheggia tra i rami agitati. «Le sfide affrontate dal popolo vietnamita nel corso della Storia sono come montagne altissime. Se sei troppo vicino, non puoi scorgerne le vette. Ma, allontanandoti dalle correnti della vita, riesci a guardarle in tutta la loro maestosità…»

CHICCHI BIANCHI TINTI DI ROSSO

Hà Nội, 1972-1973

La nonna mi tiene la mano mentre camminiamo verso scuola. Il sole è un grosso tuorlo d’uovo che fa capolino tra i tetti in lamiera. Il cielo è azzurro come la camicetta preferita di mia madre. Chissà dov’è. Avrà trovato il papà?

Stringo il colletto della giacca perché il vento sferza la terra e solleva una nuvola di polvere. La nonna si china a coprirmi il naso col suo fazzoletto. La mia cartella le dondola sul braccio mentre si protegge il viso con la mano.

Non appena la nuvola di polvere si deposita riprendiamo a camminare. Tendo le orecchie, ma non sento uccelli. Cerco con gli occhi, ma non vedo un solo fiore lungo la strada. Non c’è erba intorno a noi, solo mucchi di mattoni rotti e lamiere contorte.

«Guava, stai attenta.» La nonna mi tira via dal cratere lasciato da una bomba. Mi chiama per soprannome, per proteggermi da quegli spiriti malvagi che secondo lei aleggiano sulla Terra in cerca di bei bambini da rapire. Dice che Hương, il mio vero nome, li attrarrebbe perché significa «fragranza».

«Oggi, quando torni a casa, ti faccio trovare il tuo piatto preferito, Guava.»

«Il phở?» Saltello per la felicità, pensando alla zuppa che amo tanto.

«Esatto… I bombardamenti mi hanno tenuto lontano dai fornelli. Ma adesso che c’è un po’ di calma dobbiamo festeggiare.»

Prima che io possa rispondere, una sirena distrugge il nostro momento di pace. Una voce femminile si diffonde da un altoparlante attaccato a un albero: «A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a cento chilometri di distanza».

«Ôi trời đất ơi!» esclama la nonna, invocando il Cielo e la Terra. Poi comincia a correre, tirandosi dietro anche me. Fiumi di persone si riversano fuori dalle loro case, come formiche in pericolo che abbandonano i nidi. Lontano, sul tetto del Teatro dell’Opera di Hà Nội, le sirene imperversano.

«Laggiù.» La nonna corre verso un rifugio antiaereo scavato a bordo strada. Solleva il pesante coperchio di cemento.

«Non c’è posto», urla una voce da sotto. Dentro quella fossa rotonda, grande abbastanza per ospitare una sola persona, c’è un uomo mezzo inginocchiato. L’acqua melmosa gli arriva al petto.

La nonna chiude subito il coperchio. Mi tira con sé verso un altro rifugio.

«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a sessanta chilometri di distanza. Ci prepariamo al contrattacco.» La voce si fa più incalzante. Le sirene sono assordanti.

Tutti i rifugi sono pieni. Le persone ci sfrecciano davanti come uccelli con le ali spezzate, abbandonano biciclette, carretti, borse. C’è una bambina da sola in mezzo alla strada che piange e chiama i genitori.

«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! I bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a trenta chilometri di distanza.»

Resa goffa dalla paura, inciampo e cado.

La nonna mi aiuta a rialzarmi. Getta la mia cartella al lato della strada, poi si china per prendermi a cavalcioni. Si mette a correre, sorreggendomi le gambe.

Il frastuono si avvicina. In lontananza si sentono le esplosioni. Stringo le mani sudate sulle spalle della nonna, nascondendomi dietro la sua schiena.

«A tutti i cittadini! A tutti i cittadini! Altri bombardieri americani si avvicinano ad Hà Nội. Sono a cento chilometri di distanza.»

«Correte alla scuola. Non la bombarderanno», urla la nonna a un gruppo di donne con bambini piccoli in braccio o sulle spalle. Lei ha cinquantadue anni ed è forte. Supera il gruppo di donne e raggiunge coloro che ci stanno davanti. Sballottata su e giù, affondo il viso tra i suoi capelli lunghi e neri che profumano come quelli di mia madre. Finché sentirò questo profumo, sarò al sicuro.

«Hương, adesso corri con me.» La nonna si accovaccia davanti alla scuola, ha il fiatone. Poi mi trascina dentro il cortile. Arrivate accanto a un’aula, scivola in un rifugio vuoto. Mi c’infilo anche io, e l’acqua mi arriva alla vita, attanagliandomi con le sue mani gelide. Fa freddissimo. Siamo all’inizio dell’inverno.

La nonna si allunga a chiudere il coperchio. Mi abbraccia, e il suo cuore che batte come un tamburo mi riecheggia nelle vene. Ringrazio Budda per questo rifugio, che è grande abbastanza per tutte e due. Temo per i miei genitori sul campo di battaglia. Quando torneranno? Avranno incontrato lo zio Ðạt, lo zio Thuận e lo zio Sáng?

Le esplosioni sono più vicine. La terra ondeggia, come un’amaca. Mi copro le orecchie con le mani. L’acqua si alza e mi bagna il viso e i capelli, mi oscura la vista. Polvere e sassi mi piovono in testa da una fessura. Si sente il fuoco della contraerea. Hà Nội si difende. Ancora esplosioni. Sirene. Urla. Un forte puzzo di bruciato.

La nonna giunge le mani davanti al petto. «Nam Mô A Di Ðà Phật, Nam Mô Quan Thế Âm Bồ Tát.» Fiumi di preghiere a Budda si riversano dalle sue labbra. Chiudo gli occhi e faccio come lei.

I bombardamenti continuano a imperversare. Poi un istante di silenzio. Uno stridio acuto. Io mi raggomitolo. Un’esplosione tremenda ci manda a sbattere contro il coperchio del rifugio. Il dolore mi annebbia la vista.

Ricado addosso alla nonna. Ha gli occhi chiusi, le mani sono un fiore di loto che si schiude sul suo petto. Lei continua a pregare mentre il frastuono delle bombe lascia il posto alle urla della gente.

«Nonna, ho paura.»

Ha le labbra viola, tremano per il freddo. «Lo so, Guava… Anche io ho paura.»

«Ma, se bombardano la scuola, questo rifugio ci crollerà addosso?»

Lei cerca di muoversi in quello spazio angusto e mi abbraccia. «Non lo so, mia cara.»

«Ma, se succede, noi moriremo, nonna?»

Mi stringe forte. «Guava, se bombarderanno la scuola, è possibile che il rifugio ci crollerà addosso, ma moriremo solo se Budda lo vorrà.»

Non morimmo quel giorno di novembre del 1972. Dopo che le sirene segnalarono la fine del pericolo, io e la nonna uscimmo dal rifugio, tremanti come foglie sottili. Barcollammo fuori dalla scuola. Diversi edifici erano crollati, c’erano macerie ovunque lungo la strada. Avanzammo lentamente sopra cumuli di detriti, tossendo. Spirali di fumo e di polvere mi bruciavano gli occhi.

Stringevo forte la mano della nonna mentre guardavo donne inginocchiate a terra che piangevano accanto a cadaveri i cui volti erano stati coperti con lacere stuoie di paglia. Di quei corpi, vedevamo soltanto le gambe. Erano maciullate, striate di sangue. Tra loro ne scorsi una più piccola, da cui penzolava una scarpetta rosa. Quella bambina poteva aver avuto la mia età.

Fradicia, sporca di fango, la nonna mi trascinava dietro di sé, camminando sempre più veloce mentre passavamo accanto a resti sparpagliati di corpi e a case crollate.

Sotto l’albero di bàng, invece, splendeva un sole glorioso, improbabile. Casa nostra era miracolosamente rimasta intatta. Lasciai la mano della nonna e corsi ad abbracciare la porta.

Lei volle subito aiutarmi a cambiarmi e a mettermi a letto. «Resta a casa, Guava. Vai subito lì sotto se arrivano gli aeroplani», disse indicandomi il rifugio che mio padre aveva scavato accanto all’entrata della camera da letto. Era grande abbastanza per ospitarci entrambe ed era asciutto. Mi sentivo meglio adesso che ero sotto gli sguardi protettivi dei miei antenati, la cui presenza s’irradiava dall’altare di famiglia, allestito sulla libreria.

«Ma tu… Tu dove vai, nonna?»

«A scuola, a vedere se i miei alunni hanno bisogno d’aiuto.» Mi tirò la coperta pesante fin sotto il mento.

«Ma, nonna, è pericoloso…»

«È vicino, Guava. E correrò a casa non appena sentirò la sirena. Prometti che resterai qui?»

Annuii.

Fece per avviarsi alla porta, poi tornò indietro. Si avvicinò al letto e mi posò una mano amorevole sulla guancia. «Prometti che non uscirai?»

«Cháu hứa.» Sorrisi, per rassicurarla. Non mi lasciava mai uscire da sola, anche se non c’erano i bombardamenti. Temeva sempre che mi potessi perdere. E io mi chiedevo se fosse vero quello che dicevano i miei zii sul fatto che la nonna con me era iperprotettiva per via di quanto era successo ai suoi figli.

Non appena uscì, chiudendosi la porta alle spalle, io mi alzai a prendere il quaderno. Intinsi la punta della penna nel calamaio. Adorati mamma e papà, scrissi, iniziando così una nuova lettera per i miei genitori, mentre mi chiedevo se le mie parole li avrebbero mai raggiunti. Loro si spostavano con le truppe e non avevano un indirizzo fisso.

Stavo leggendo Bạch Tuyết và bảy chú lùn, immersa nel magico mondo di Biancaneve e i Sette Nani, quando la nonna tornò a casa, con la mia cartella al braccio. Le sanguinavano le mani, feritesi cercando di aiutare le persone intrappolate sotto le macerie. Mi abbracciò e mi strinse forte al petto.

Quella notte, m’infilai sotto la coperta ad ascoltare le preghiere della nonna e il ritmico rintoccare della sua campana di legno. Pregava perché Budda e il Cielo facessero finire la guerra. Pregava perché i miei genitori e i miei zii tornassero a casa sani e salvi. Io chiusi gli occhi e mi unii a lei nella preghiera. Chissà se i miei genitori erano vivi. Chissà se sentivano la mia mancanza come io sentivo la loro.

Saremmo volute restare a casa nostra, ma dalla radio arrivò l’ordine che tutti i cittadini dovevano evacuare Hà Nội. La nonna doveva portare i suoi alunni e le loro famiglie in un posto sperduto tra le montagne, dove avrebbero continuato le lezioni.

«Nonna, dove andiamo?» le chiesi.

«Al villaggio di Hòa Bình. Lì le bombe non arriveranno, Guava.»

Mi domandai chi avesse scelto un nome tanto bello per quel villaggio. Hòa Bình era la scritta trainata dalle ali delle colombe dipinte sulle pareti della mia scuola. Hòa Bình, nei miei sogni, era il blu, il colore del ritorno dei miei genitori. Hòa Bình significava una cosa semplice, intangibile eppure preziosissima per noi: «pace».

«È lontano questo villaggio, nonna? Come ci arriveremo?»

«A piedi. Sono solo quarantun chilometri. Assieme ce la possiamo fare, non credi?»

«E come faremo col cibo? Cosa mangeremo?»

«Oh, non ti preoccupare. I contadini ci daranno quello che hanno. Nei momenti difficili, le persone diventano generose.» La nonna mi sorrise. «Che ne dici di aiutarmi coi bagagli?»

Mentre ci preparavamo per il viaggio, la nonna si mise a cantare. Aveva una voce splendida, come mia madre. Inventavano canzoncine sciocche, e assieme cantavano e ridevano. Quanto mi mancavano quei momenti felici. E ora, mentre la nonna cantava, vasti campi di riso allargavano le loro verdi braccia per accogliermi, le cicogne mi prendevano sulle loro ali, i fiumi mi trasportavano via tra le loro correnti.

La nonna prese il lenzuolo che sarebbe diventato il nostro bagaglio. Al centro sistemò i vestiti e ci aggiunse anche il mio quaderno, la penna, il calamaio e i materiali che le sarebbero serviti per le lezioni. In cima a tutto mise la campana per le preghiere, poi annodò tra loro le estremità del lenzuolo, che divenne così una bisaccia da portare su una spalla. Sull’altra invece avrebbe portato una lunga canna di bambù che riempì di riso. Nella mia cartella aveva già messo l’acqua e il cibo per il viaggio.

«Quanto staremo via, nonna?»

«Non ne sono sicura. Forse un paio di settimane.»

Ero davanti alla libreria e accarezzavo le coste dei libri. Favole vietnamite, favole russe, La figlia del venditore di uccelli di Nguyễn Kiên, l’Isola del tesoro di un autore straniero di cui non sapevo pronunciare il nome.

La nonna si mise a ridere vedendo la pila di libri che avevo in mano. «Non ne possiamo portare così tanti, Guava. Scegline uno. Quando arriveremo al villaggio, ce ne presteranno altri.»

«Ma i contadini leggono i libri, nonna?»

«Anche i miei genitori coltivavano la terra, ricordi? Loro avevano tantissimi libri.»

Tornai alla libreria e alla fine scelsi La terra e le foreste del Sud di Ðoàn Giỏi. Forse mia madre era arrivata in miền Nam, proprio in quelle terre del Sud di cui parlava il libro, e aveva incontrato mio padre. Volevo sapere di più di quei luoghi, che ci erano stati sottratti dai francesi e che ora erano occupati dagli americani.

La nonna attaccò un biglietto sulla porta, in cui avvisava i miei genitori e i miei zii – nel caso in cui fossero tornati – che ci trovavamo a Hòa Bình. Posai una mano sulla porta, prima di partire. Attraverso le dita, sentii le risate dei miei genitori e dei miei zii. E ora, tanti anni dopo, ripensando a quel momento, ancora mi chiedo cosa avrei portato con me se avessi saputo ciò che ci sarebbe accaduto. Forse la foto in bianco e nero dei miei genitori nel giorno del loro matrimonio. So anche però che, quando si è vicini alla morte, non c’è tempo per la nostalgia.

Arrivati alla scuola dove insegnava la nonna, ci unimmo agli altri insegnanti, agli alunni e ai loro familiari, molti dei quali portavano biciclette cariche di bagagli. C’incamminammo, unendoci al fiume di persone che lasciava Hà Nội. Erano tutti vestiti di scuro e le parti metalliche dei veicoli erano state coperte per evitare che riflettessero il sole e attraessero così le bombe degli aerei nemici. Nessuno parlava. Si sentivano solo i nostri passi e di tanto in tanto il pianto di un bambino. Paura e preoccupazione avevano scavato solchi profondi sui volti della gente.

Io avevo dodici anni quando cominciammo quel viaggio a piedi di quarantun chilometri. Fu un viaggio difficile, ma la mano della nonna riscaldava la mia appena il vento gelido ci sferzava contro. Quando avevo fame, lei mi dava anche il suo cibo, fingendo di essere sazia. Per calmare le mie paure, cantava. Se ero stanca, mi portava sulla schiena, coi suoi lunghi capelli che mi accarezzavano il viso. Se pioveva, mi avvolgeva nella sua giacca. Aveva i piedi coperti di sangue e vesciche quando finalmente arrivammo al villaggio di Hòa Bình, annidato in una valle e circondato dalle montagne.

Ci ospitarono due vecchi contadini – i signori Tùng –, che permisero a me e alla nonna di dormire sul pavimento del loro soggiorno, perché la casa era piccola e non c’era altro posto. Durante il primo giorno a Hòa Bình, la nonna trovò un sentiero che saliva zigzagando in cima alla montagna e portava a una caverna. Alcuni abitanti del villaggio la usavano come rifugio antiaereo, e la nonna decise che noi avremmo fatto lo stesso. Anche se il signor Tùng sosteneva che gli americani non avrebbero mai bombardato il villaggio, noi passammo tutto il giorno successivo a far pratica, salendo e scendendo dal rifugio così tante volte che alla fine avevo le gambe a pezzi.

«Guava, dobbiamo essere in grado di salire fin quassù anche di notte o al buio», disse la nonna col fiatone. «E non dovrai mai lasciare il mio fianco, lo prometti?»

Guardavo le farfalle che svolazzavano davanti all’entrata della grotta. Desideravo tanto andare a esplorare i dintorni. Avevo visto i bambini del villaggio fare il bagno nudi in uno stagno, cavalcare bufali d’acqua attraverso campi fangosi, arrampicarsi sugli alberi per raggiungere i nidi degli uccelli. Avrei voluto chiedere alla nonna il permesso di unirmi a loro, ma mi guardava con occhi così preoccupati che alla fine mi limitai ad annuire.

Mentre ci sistemavamo in quella che per un po’ sarebbe stata la nostra casa, la nonna diede alla signora Tùng il riso che avevamo portato con noi e un po’ di denaro. Aiutammo a preparare da mangiare, andammo a raccogliere le verdure nell’orto e lavammo i piatti.

«Ah, dai proprio una grande mano, tu», mi disse la signora Tùng, e io mi sentii tutta orgogliosa. Casa sua era diversa, ma per certi versi molto simile alla nostra ad Hà Nội, coi vetri delle finestre oscurati da fogli neri per impedire che i bombardieri americani scorgessero le luci all’interno quando fuori era buio.

La nonna era bella mentre insegnava nel cortile del tempio del villaggio, i suoi alunni seduti per terra coi volti felici. Le sue lezioni non finivano mai senza che insegnasse loro una canzone.

«La guerra può distruggere le nostre case, ma non deve abbattere il nostro spirito», sosteneva. Io e i suoi alunni cantavamo a squarciagola, e con le nostre voci stridule sembravamo le ranocchie che ci venivano a far visita dai campi di riso lì intorno…

L’ Autrice

foto presa dal web

Nguyễn Phan Quế Mai, giornalista e poetessa, è nata nel 1973 in Vietnam, dove ha lavorato per anni come venditrice ambulante e coltivatrice di riso. Si è trasferita all’estero grazie a una borsa di studio, che le ha permesso di dedicarsi all’analisi degli effetti a lungo termine della guerra. Attualmente vive a Giacarta con il marito e i due figli e lavora per diverse organizzazioni internazionali. Quando le montagne cantano è il suo primo romanzo.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"