Trama
Per Alex Cross, i casi più difficili sono sempre quelli che coinvolgono le persone a lui care.
Dopo più di trent’anni, Cross torna a Starksville, la sua città natale nel North Carolina. Ma quella che dovrebbe essere una vacanza si trasforma in un incubo. Suo cugino Stefan è coinvolto in un crimine terribile: insegnante di educazione fisica, è accusato di aver seviziato e ucciso uno studente, Rashawn Turnbull. Lui si proclama innocente, ma le prove sono schiaccianti. A peggiorare le cose si aggiunge la dichiarazione di un’altra studentessa di Stefan, che lo accusa di stupro.
Mentre cerca di dimostrare l’innocenza di suo cugino in una città ancora molto ostile ai neri, dove tutte le autorità sembrano essere corrotte, Cross scopre un segreto di famiglia che lo costringe a mettere in discussione ogni sua convinzione.
Inseguendo il fantasma di una persona che credeva morta ormai da tempo, il detective rimane coinvolto in un caso per il quale la polizia sembra non trovare soluzione: un’orribile serie di omicidi nell’alta società locale.
Dovrà quindi seguire le tracce di un brutale assassino, cercando allo stesso tempo la verità sul proprio passato, ma le risposte potrebbero essere drammatiche…
Estratto
1
Coco lasciò il cadavere nella vasca ed entrò nell’enorme cabina armadio in mutandine nere di seta, guanti neri lunghi fino al gomito e stop. Con occhio esperto passò velocemente in rassegna la sezione dedicata al casual senza trovare niente di suo gusto.
Il suo interesse gravitava sulle creazioni di alta moda, gli eleganti vestiti da sera, lo stile e la seduzione. Con occhio allenato e mano sensibile nonostante i guanti, esaminò un abito senza spalline grigio topo di Christian Dior e un vestito di Gucci dalla vertiginosa scollatura sulla schiena.
Li trovò di buon taglio, ma riscontrò alcune imprecisioni nelle cuciture, eseguite con troppa sciatteria per essere capi da diecimila dollari e più. Anche al top di gamma le sarte non erano più quelle di una volta. La maestria di un tempo era perduta. Era un peccato, una vergogna. Uno scandalo, l’avrebbe definito la buonanima di sua madre.
Ciononostante, i due vestiti finirono nella borsa portabiti in vista di un futuro utilizzo.
Coco spostò altri indumenti in cerca di qualcosa in grado di colpire lo sguardo, di suscitare un’emozione profonda, di indurre a esclamare: «Sì, era questo il mio sogno, la mia fantasia! Questa è la donna che sarò stasera!»
La ricerca di Coco si concluse con un abitino Elie Saab taglia quarantadue: perfetto. Color indaco, in seta pura, smanicato, profonda scollatura davanti e dietro, stupendamente rétro. Doveva essere anni Cinquanta, o Sessanta, e sembrava uscito da Mad Men.
Date carta bianca al vostro personal shopper!
Coco rise fra sé, benché non ci fosse nulla da ridere nell’abitino che aveva in mano. Era un capo da leggenda, di quelli capaci di lasciare a bocca aperta un intero ristorante con tre stelle Michelin o una sala da ballo affollata di vip, quel raro tipo di creazione sartoriale in grado di attirare lo sguardo di ogni uomo e l’invidia di ogni donna nel raggio di almeno cento metri.
Coco lo tolse dalla gruccia e andò ad ammirarsi davanti allo specchio in fondo alla cabina armadio. Si compiacque della propria snellezza, dell’alta statura, della postura regale da ballerina e del viso da top model, grandi occhi nocciola e pelle perfetta. Seno piccolo, fianchi stretti… Perché la vita era stata così crudele con Coco? Avrebbe potuto sfilare sulle più prestigiose passerelle a Parigi e Milano…
Con un moto di stizza, Coco guardò quella parte di sé che le impediva di realizzare il suo sogno e diventare una top model. Nonostante le fasce sotto le mutandine nere, infatti, non c’erano dubbi sul fatto che Coco era un uomo.
2
Facendo attenzione a non sbavare il trucco, Coco si infilò l’abitino Elie Saab pregando che la morbidezza della seta non lasciasse trapelare il suo segreto.
La sua preghiera fu esaudita. Quando se lo lasciò scivolare lungo le spalle sottili e i fianchi stretti, nonostante la testa completamente rasata, Coco sembrava una donna. Una bellissima donna.
Trovò un paio di autoreggenti nere e le indossò con gesti lenti e sensuali, poi si avvicinò alla sezione calzature, che era vicino agli specchi. Arrivato al duecentesimo paio, smise di contare.
Eri la reincarnazione di Imelda Marcos, Lisa?
Rise e scelse i sandali Sergio Rossi neri con tacco a spillo. Gli stringevano un po’ in punta, ma si sa che chi bella vuole apparire un poco deve soffrire.
Allacciato il cinturino alla caviglia, Coco uscì dalla cabina armadio per attraversare la gigantesca suite e andare diritto al portagioie sulla toeletta, senza neppure fare caso all’arredamento di gran lusso.
Scartò alcuni gioielli e dedicò la sua attenzione a un paio di orecchini con perle nere e girocollo coordinato di Cartier: avrebbero completato l’abitino senza oscurarne la bellezza. Come diceva sua madre, Concentrati su una cosa e completala con gli accessori giusti.
Indossò le perle nere e prese la borsa di Fendi che aveva posato prima sulla toeletta. Senza badare alla polo, i jeans e le scarpe da barca, spostò la carta velina e tirò fuori una scatola ovale.
Tolse il coperchio e vide la parrucca. Aveva più di cinquant’anni, ma era perfettamente conservata. Era di capelli veri, naturalmente biondi e ancora morbidi e lucenti.
Si sedette di fronte alla toeletta e infilò una mano nel borsone per prendere la striscia di nastro biadesivo antiscivolo per tappeti. La tagliò in quattro pezzetti di circa due centimetri e mezzo e si sfilò un guanto aiutandosi con i denti.
Tolse la pellicola, la buttò nella borsa e si applicò le striscioline adesive sul cranio rasato: una sopra la fronte, un’altra un po’ più indietro e le altre due sopra le orecchie.
Dopo essersi rimesso il guanto, prese la parrucca dalla scatola e, guardandosi allo specchio, se la posizionò sul capo facendola aderire per bene. Alla fine sospirò soddisfatto.
Le parve meravigliosa come la prima volta che l’aveva vista, decenni prima. Era opera di un maestro parigino che l’aveva acconciata con la scriminatura centrale e un taglio sfilato sulla nuca e più lungo davanti. Le ciocche ai lati della faccia di Coco arrivavano a sfiorare la collana di perle.
Contento del risultato, Coco si ritoccò il trucco e sorrise seduttivo alla donna riflessa nello specchio.
«Sei particolarmente bella, stasera» si disse, deliziato. «Un capolavoro.»
Strizzò l’occhio alla propria immagine e si alzò canticchiando: «I feel pretty, oh so pretty».
Guardò di nuovo nel portagioie e scelse alcuni articoli promettenti con smeraldi di dimensioni cospicue. Li mise nella borsa Fendi e tornò nella cabina armadio per spingere da una parte le camicie da uomo e arrivare alla cassaforte.
Era munita di tastierino digitale. Coco inserì il codice, che sapeva a memoria, e la aprì, felice di trovarci dentro dieci mazzette di banconote da cinquanta dollari alte dieci centimetri l’una. Le cacciò nella borsa e chiuse la cassaforte. Poi infilò tutto quanto dentro un portabiti e se lo mise a tracolla.
Uscendo dalla cabina armadio, raccolse un mazzo di chiavi e prese da una mensola un’estrosa pochette Badgley Mischka nera e oro. Che fortuna!
Vi infilò dentro le chiavi.
Tornato nella suite, ebbe un attimo di esitazione e rientrò nel bagno, che era delle dimensioni di un monolocale, per dire a voce alta: «Lisa, tesoro, scusami ma ora è meglio che vada!»
Inclinò la testa a sinistra e rivolse un’occhiata triste e interessata alla donna mora nella vasca. Lisa era morta e aveva gli occhi azzurri fuori delle orbite e le labbra gonfiate dal collagene imbalsamate nella smorfia che aveva fatto quando la radio Bose collegata all’alimentazione era finita dentro la vasca piena d’acqua. Era incredibile che, nonostante la moderna tecnologia e i sistemi di protezione, un elettrodomestico dentro una vasca da bagno continuasse a essere mortale.
«Devo ammettere, amica mia, che avevi più gusto di quanto sospettassi» disse Coco al cadavere. «Vedendo il tuo guardaroba, si capisce che avevi un sacco di soldi e li spendevi bene. Vuoi proprio saperlo? Sei molto bella anche da morta. Brava. Complimenti.»
Le mandò un bacio, si voltò e se ne andò.
Si muoveva con disinvoltura nell’imponente villa. Scese la grande scala ricurva e arrivò nell’atrio. Era quasi il crepuscolo e l’ultimo sole della Florida gettava una luce dorata sulla parete in fondo, illuminando un ritratto a olio.
Coco pensò che l’artista aveva restituito al meglio la bellezza di Lisa, immortalandola al culmine della sua femminilità, eleganza e maturità. Niente sarebbe più cambiato, ormai. Da quel giorno Lisa sarebbe stata la donna del ritratto, non il corpo esanime che aveva lasciato al piano di sopra.
Coco uscì dalla porta principale e si trovò di fronte il vialetto circolare. Era fine giugno e nell’entroterra il caldo era intollerabile, ma lì, fronte oceano, soffiava una brezza che rendeva quasi piacevole stare all’aria aperta.
Coco percorse il viale, fra aiuole perfettamente curate, lussureggianti piante tropicali e orchidee profumatissime. I pappagalli sulle palme facevano un gran baccano, quando Coco premette il pulsante di apertura del cancello.
Percorse a piedi un isolato, guardando le belle ville dagli splendidi giardini e godendosi il ticchettio dei tacchi a spillo sul marciapiede e la carezza della seta sulle cosce.
Poco più avanti c’era un’auto sportiva verde scuro, una rara Aston Martin DB5. Aveva visto tempi migliori e aveva bisogno di un po’ di manutenzione, ma per Coco era un oggetto d’amore paragonabile alla coperta preferita di un bambino insicuro, che non se ne separa finché non cade a pezzi.
Salì in macchina, posò il portabiti sul sedile del passeggero, inserì la chiave e mise in moto. Abbassò la capote, innestò la marcia e si immise nel traffico ormai tranquillo della sera.
Stasera sono bellissima, pensò. Ed è una splendida serata qui, nel mio paradiso di Palm Beach. Ho mille occasioni a portata di mano. Sento che mi aspetta un futuro roseo.
Come diceva la mamma, se una donna ha stile, non si lascerà sfuggire le occasioni.
PARTE PRIMA
STARKSVILLE
1
Quando vidi il cartello che indicava che mancavano quindici chilometri a Starksville, North Carolina, mi calò addosso un’oppressione che mi accorciò il respiro e mi fece venire la tachicardia.
Mia moglie Bree, che era seduta vicino a me a bordo della Ford Explorer, se ne accorse. «Tutto bene, Alex?» mi chiese.
Cercai di scrollarmi di dosso quella cappa angosciante e risposi: «Un grande romanziere del North Carolina, Thomas Wolfe, scrive che ’non puoi tornare a casa’. Forse aveva ragione».
«Perché non puoi tornare a casa, papà?» domandò dal sedile posteriore mio figlio Ali, che stava per compiere sette anni.
«È un modo di dire» risposi. «Se nasci in un piccolo centro e vai a stare in una grande città, quando torni al paese tutto ti sembra diverso. Volevo dire questo.»
«Ah» replicò lui, e tornò a giocare sull’iPad.
Mia figlia Jannie, quindici anni, teneva il muso da quando eravamo partiti da Washington. «Non sei mai più tornato al paese? Neanche una volta?»
«No» risposi guardando nello specchietto. «Neanche una volta in… quanti anni, Nana?»
«Trentacinque» rispose mia nonna, Regina Cross, arzilla vecchietta di novanta e passa anni. Era seduta in mezzo ai miei due figli e allungava il collo per guardare fuori. «Abbiamo mantenuto i contatti, ma fra una cosa e l’altra non siamo mai riusciti a venire a trovarli.»
«Fino a adesso» puntualizzò Bree. Mi sentivo addosso il suo sguardo.
Uno sguardo indagatore. Visto che siamo entrambi ispettori della Metro Police di Washington, mi sentivo sotto esame.
Non volendo riaprire una discussione che andava avanti da giorni, dichiarai con fermezza: «Il comandante ci ha ordinato di prendere un periodo di riposo e cambiare aria. E il sangue non è acqua».
«Saremmo potuti andare al mare» sospirò Bree. «Tornare in Giamaica.»
«A me piace un sacco la Giamaica» disse Ali.
«E invece andiamo in montagna» ribattei.
«Quanto ci dobbiamo stare?» brontolò Jannie.
«Fino alla fine del processo di mio cugino» risposi.
«Cioè, tipo, un mese?» domandò lei sgomenta.
«Penso meno» replicai. «Ma non lo escludo.»
«E io come faccio ad allenarmi per la stagione autunnale?»
Mia figlia, una velocista nata, si allenava scrupolosamente, al limite dell’ossessione, da quando a inizio estate aveva vinto una gara importante.
«Ti allenerai due volte alla settimana con la squadra di Raleigh, che fa parte della federazione AAU» replicai. «Vengono a correre qui per l’altitudine. Il tuo allenatore sostiene che correre in quota ti farà bene, no? E allora smettila di lamentarti: il problema è risolto.»
«Che attitudine c’è a Starksville?» chiese Ali.
«Altitudine» lo corresse Nana, ex insegnante di lettere, nonché vicepreside. «L’altitudine è la distanza verticale di un luogo rispetto al livello del mare» spiegò.
«Seicento metri sul livello del mare, all’incirca» risposi. Indicai le silhouette dei monti. «Là di più.»
Jannie stette zitta qualche minuto, poi domandò: «Ma Stefan è innocente?»
Pensai ai capi di imputazione. Stefan Tate era un insegnante di educazione fisica accusato di aver seviziato e ucciso un ragazzino di tredici anni, Rashawn Turnbull. Stefan era figlio di mia zia, la sorella della mia defunta madre, e quindi…
«Papà?» intervenne Ali. «È innocente o no?»
«Scootchie ne è convinta» risposi.
«Mi è simpatica, Scootchie» disse Jannie.
«Anche a me» risposi, guardando Bree in tralice. «E quindi, se ha bisogno di me, cerco di esserci.»
Naomi Cross, detta Scootchie, era la figlia del mio defunto fratello Aaron. Alcuni anni prima, quando studiava legge alla Duke University, Naomi era stata rapita da un sadico assassino che si faceva chiamare Casanova. Per fortuna ero riuscito a liberarla e da allora si era creato fra noi un legame molto stretto.
Passammo fra un campo di granoturco alla nostra destra e un vivaio di pini sulla sinistra.
Riconobbi quel luogo dai recessi della memoria e mi venne l’angoscia. Sapevo che in fondo al campo di granoturco avrei trovato un cartello che mi dava il benvenuto in un paese in cui avevo sofferto molto e che avevo fatto di tutto per dimenticare.
2
Ricordavo un cartello di legno, sbiadito e soffocato dal kudzu, ma quello che mi trovai davanti era di metallo sbalzato, piuttosto nuovo e libero da rampicanti.
BENVENUTI A STARKSVILLE, NC
21.000 ABITANTI
Oltre il cartello c’erano due stabilimenti industriali abbandonati da tempo. Senza più finestre e ormai cadenti, erano circondati da una recinzione metallica cui erano affisse notifiche di confisca. Ricordavo vagamente che uno era una fabbrica di calzature e l’altro di biancheria per la casa. Lo sapevo perché mia madre aveva lavorato in quest’ultima per un periodo, quando ero piccolo, prima di precipitare in un abisso di sigarette, alcol e stupefacenti e quindi morire di cancro al polmone.
Guardai nello specchietto retrovisore e dall’espressione afflitta di mia nonna capii che anche lei stava pensando a mia madre, sua nuora, e probabilmente anche a mio padre, suo figlio. Passammo davanti a uno squallido centro commerciale che non ricordavo di aver mai visto e quindi davanti ai locali che un tempo ospitavano un supermercato Piggly Wiggly.
«Ogni volta che mia madre mi dava un nichelino, venivo qui a comprare caramelle o una Mr. Pibb» dissi, indicando il negozio.
«Un nichelino?» si stupì Ali. «Con cinque cent riuscivi a comprarti le caramelle?»
«Ai miei tempi ci riuscivi anche con uno» disse Nana.
«Cos’è la Mr. Pibb?» chiese Bree, che era di Chicago.
«Una bibita gassata alla prugna» risposi.
«Chissà che schifo!» esclamò Jannie.
«Invece è buona» replicai. «Assomiglia alla Dr Pepper. Mia madre ne andava matta. E anche mio padre. Ti ricordi, Nana?»
«E come faccio a non ricordarmelo?» Mia nonna sospirò.
«Avete notato che non li chiamate mai per nome?» chiese Bree.
«Christina e Jason» replicò Nana con un filo di voce. Guardai di nuovo nello specchietto e mi accorsi di quanto era demoralizzata.
«Che tipi erano?» domandò Ali senza alzare gli occhi dall’iPad.
Per la prima volta da decenni mi sentii triste al pensiero che non ci fossero più. Restai zitto.
Mia nonna rispose: «Erano anime belle e tormentate, Ali».
«Sta per passare un treno, Alex» mi avvertì Bree.
Staccai gli occhi dallo specchietto retrovisore e vidi i segnali luminosi lampeggianti e le sbarre che si abbassavano. Mi fermai dietro a due auto e un furgone e guardai il treno merci che passava lentamente sferragliando.
Di colpo mi rividi bambino – otto anni? nove? – lungo quei binari nei boschi dietro casa mia. Correvo sotto la pioggia, al buio, in preda al terrore. Di che cosa avevo tanta paura?
«Guarda quei due là, sul treno!» disse Ali, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
C’erano effettivamente due persone su uno dei carri merci. Uno era afroamericano, l’altro bianco, sui vent’anni. Si stavano sedendo con le gambe penzoloni sulla parte anteriore del carro, come preparandosi per un lungo viaggio.
«Una volta quelli che viaggiavano clandestinamente sui treni venivano chiamati hobo» disse Nana.
«Sono troppo benvestiti, per essere hobo» osservò Bree.
Il carro con i due clandestini superò il passaggio a livello e capii il motivo dell’affermazione di mia moglie: i due ragazzi avevano un berretto da baseball con la visiera dietro, occhiali scuri, cuffie, bermuda larghi, T-shirt nera e scarpe da basket coloratissime. Riconobbero qualcuno a bordo della macchina davanti a noi e gli fecero una sorta di saluto militare con tre dita. Dal finestrino dell’auto spuntò un braccio per rispondere al saluto.
Scomparvero verso nord, prima loro e poi anche il resto del treno, le sbarre si alzarono e le luci smisero di lampeggiare. Subito dopo il passaggio a livello, le due macchine svoltarono a destra e io dovetti rallentare per consentire al furgone di girare a sinistra seguendo le indicazioni per FERTILIZZANTI CAINE.
«Che schifo!» protestò Ali. «Cos’è che puzza in questo modo?»
Sentivo anch’io cattivo odore. «Urea.»
«Nel senso di pipì?» chiese Jannie disgustata.
«Urina di origine animale» specificai. «Escrementi in generale.»
«Non ci credo! E cosa ne fanno?» chiese Jannie con un gemito.
«Noi dove andiamo a stare?» domandò Ali.
«Ha organizzato tutto Naomi» rispose Bree. «Spero solo che, ovunque ci abbia sistemato, ci sia un impianto di condizionamento. Ci saranno oltre trenta gradi e se malauguratamente fossimo sottovento rispetto a quella fabbrica di concimi…»
«Ci sono ventisei gradi» precisai, guardando l’indicatore. «Siamo in alto.»
Mi orientavo per istinto: non ricordavo i nomi delle vie, ma sapevo muovermi per le strade del centro come se mancassi dal giorno prima e non da trentacinque anni.
Starksville era nata all’inizio del XIX secolo intorno a una piazza rettangolare al centro della quale si ergeva il monumento al colonnello Francis Stark, eroe della Confederazione e figlio del fondatore della cittadina che portava il suo nome. Starksville avrebbe potuto essere un borgo pittoresco, con i suoi edifici storici dalla facciata di mattoni, alcuni dei quali risalivano a prima della guerra di secessione.
Purtroppo, però, la crisi economica l’aveva colpita duramente. Per ogni esercizio commerciale aperto quel giovedì – un negozio di abbigliamento, una libreria, un’agenzia di prestiti, un’armeria e due enoteche – ce n’erano due chiusi, con le vetrine oscurate e un cartello IN VENDITA.
«Mi ricordo che un tempo non ci si viveva male, nonostante le leggi Jim Crow» disse Nana in tono sconsolato.
«Cosa sono le leggi Jim Crow?» chiese Ali arricciando il naso.
«Leggi che limitavano i diritti di quelli come noi» spiegò Nana, poi indicò con il dito ossuto una farmacia chiusa e un chiosco delle bibite che si chiamava Lords. «Per esempio, mi ricordo che qui c’erano cartelli che vietavano l’ingresso alle persone di colore.»
«È stato Martin Luther King a toglierli?» chiese mio figlio.
«Se vuoi, sì» risposi. «Anche se non credo che Martin Luther King sia mai venuto a…»
Jannie urlò: «C’è Scootchie!»
James Patterson è l’autore di thriller più venduto al mondo. In questa collana sono apparse le sue serie di maggior successo: i romanzi del detective Alex Cross e quelli delle Donne del Club Omicidi.