Disponibile dal 4 Ottobre 2022
TRAMA
Dall’autrice del bestseller La ragazza della neve
N°1 in classifica
Oltre 1 milione di copie
«Un libro che si legge tutto d’un fiato.»
Washington Post
La vita in tempo di guerra non è un pranzo di gala. Lo sanno bene Helena e Ruth Nowak, due gemelle che tentano di proteggere i loro fratelli minori dagli stenti della vita nella Polonia occupata. Il loro piccolo villaggio rurale, infatti, è stremato dall’occupazione nazista. Il cibo scarseggia, e paura e sospetto ormai sono alla base dei rapporti tra gli abitanti. La costante minaccia di arresti sommari ha distrutto ogni speranza di solidarietà: chiunque può trasformarsi in una spia, e ci si deve guardare le spalle anche dagli amici più cari. Helena e Ruth possono contare solo su loro stesse. Ma, nonostante siano gemelle, in effetti appaiono davvero molto diverse. La prima è fiera, caparbia e impulsiva; la seconda è mite e gentile, timida e riservata. Per questo, quando il loro destino si intreccia con quello di un soldato americano ferito, i temperamenti delle due sorelle entrano in collisione: Helena intende salvarlo, nascondendolo in casa, mentre Ruth teme di mettere in pericolo la vita dei suoi fratelli. Da quel momento, ogni scelta avrà il potere di scatenare effetti devastanti sul futuro di entrambe.
I suoi romanzi hanno venduto 200.000 copie in Italia
Oltre 1 milione di copie nel mondo
Tradotti in 27 Paesi
«Una storia affascinante piena di personaggi attraenti, intrighi, suspense e romanticismo.»
New York Times
«Un libro bellissimo, pieno di personaggi interessanti.»
Publishers Weekly
«Una storia avvincente, che ha come sfondo la seconda guerra mondiale. Pam Jenoff sa ricostruire le ambientazioni storiche con maestria. Una lettura emozionante.»
Booklist
«La scrittura di Pam Jenoff è evocativa e coinvolgente…»
The Globe And Mail
«Emozionante e intelligente. Non riuscivo a staccarmi dalle pagine.»
Jessica Shattuck
A mia madre,
che ancora ci migliora la vita ogni giorno
Prologo
New York
2013
«Sono tornati», sussurra Cookie. «Bussano alle porte, fanno domande». Non rispondo, ma annuisco e mi si forma un nodo in gola.
Mi siedo sulla logora sedia a fiori e reclino la testa, studiando l’intonaco sul soffitto, increspato a formare onde e sporgenze come una meringa spumosa. Chiunque abbia detto: «Nessun posto è come casa» di sicuro non è mai stato al centro anziani di Westchester. Centoquaranta unità fatte con lo stampino, distribuite su dieci piani di seicentoventi metri quadrati ciascuno, che si intersecano come un enorme alveare in uno stabile a forma di L.
Sebbene non mi piaccia la monotonia, non posso dire che sia terribile vivere qui. Il cibo è fresco, seppur un po’ scialbo, con tanta di quella frutta e verdura che non riesco a dare per scontata nemmeno dopo così tanti anni. Fuori c’è un cortile con una fontana e un vialetto che attraversa dei sontuosi prati verdi. E il personale, forse pagato meglio rispetto ad altri che svolgono questo sporco e frustrante lavoro, non è scortese.
Come la donna dai capelli bianchi che ha appena finito di passare lo straccio sul pavimento della cucina e che adesso risciacqua il secchio nella vasca. «Grazie, Cookie», dico dalla sedia accanto alla finestra mentre lei chiude l’acqua e asciuga la vasca. Dovrebbe esserci lei al mio posto, con una persona che se ne prenda cura, invece di pulire per me.
Cookie si avvicina e indica le mie robuste scarpe marroni accanto al letto. «Esci a passeggiare oggi?»
«Sì».
Lancia un’occhiata fuori dalla finestra. Il grigio cielo di novembre si fa via via più scuro, la promessa di un temporale. Quasi ogni giorno passeggio fino in fondo al viale e a quel punto uno degli inservienti mi si avvicina e mi convince a rientrare. Quando cammino sotto l’immutabile cupola di nuvole, i rumori dell’autostrada e degli aerei spariscono piano piano, e all’improvviso non mi trascino più tutta curva: sono una ragazza che risale il bosco circondata da tutte le persone che un tempo le camminavano a fianco.
Tengo sempre un paio di scarpe accanto al letto, anche quando la neve o la pioggia mi costringono a rimanere al coperto. Alcune abitudini sono dure a morire. «Come sta Luis?», chiedo cambiando argomento.
Quando nomino il nipotino di dodici anni, gli occhi di Cookie si spalancano. La maggior parte degli ospiti non si disturba a memorizzare i nomi di inservienti che cambiano di continuo, figurarsi quelli dei loro familiari. Sorride orgogliosa. Si porta una mano al petto, e il braccialetto attorno al polso emette un rumore come di vecchie ossa. «Ha preso il massimo in tutte le materie. Anzi, stavo proprio per andare a prenderlo, perciò se non ti serve altro…».
Dopo che Cookie è andata via, mi soffermo a guardare le pareti bianche e insipide dell’appartamento, le veneziane ingiallite dal passare degli anni. Non male. Ma non è casa. Casa era il nostro appartamento in una delle palazzine storiche di Park Slope, comprato molto prima che il quartiere andasse tanto di moda. Aveva delle interessanti crepe sul soffitto e le pareti erano talmente vicine l’una all’altra che avrei potuto toccare i due lati della camera da letto se avessi disteso le braccia a sufficienza. Non c’era l’ascensore e le scale erano strette e ripide, così quando i miei fianchi da anziana non sono più riusciti ad arrampicarsi ho capito che era ora di andarmene. Kari e Scott mi hanno invitato a trasferirmi da loro a Chappaqua: di certo non gli manca lo spazio. Ma mi sono rifiutata: persino stare in un posto come questo è meglio che sentirsi un peso.
Mentre osservo un vecchio centro commerciale mezzo vuoto dall’altra parte del parco mi chiedo come passerò la giornata. Tutta la mia vita è trascorsa in un istante, ma qui il tempo sembra dilatarsi, e mi chiede di essere riempito. Se uno ne avesse voglia ci sarebbero attività come il cucito,
i corsi di Yiddish, l’aquagym e le uscite a teatro. Ma preferisco tenermi compagnia da sola. Il silenzio non mi è mai dispiaciuto, nemmeno in passato.
Cade una goccia, poi un’altra, dal rubinetto della cucina che Cookie non è riuscita a chiudere. Mi alzo a fatica e non trattengo una smorfia per la fitta alla coscia, una ferita che non è mai guarita del tutto, nemmeno dopo più di mezzo secolo. Il dolore è più acuto ora che le giornate si sono fatte più corte e fredde.
Fuori sento il suono di una sirena che si avvicina. Sta venendo a prendere qualcuno. Rabbrividisco. Adesso non ho più paura della morte: prima o poi arriverà per tutti. Ma è un suono che mi riporta a tempi antichi, quando le sirene erano segnale di pericolo e l’importante era solo mettersi in salvo.
Attraverso la stanza e scorgo il mio riflesso nello specchio. I miei capelli ormai sono come quelli di tutte le donne della mia età, con quel taglio corto e gonfio che sembra un casco da football bianco e peloso. Ruth si sarebbe rifiutata, ne sono sicura, e avrebbe tenuto i capelli lunghi e fluenti. Sorrido. È sempre stata bella, e teneva molto al suo aspetto. Io no, e men che mai adesso, però ora ho l’autostima che mi mancava da giovane: è come se mi fossi liberata di alcune aspettative che non potevo soddisfare. Eppure c’è stato un tempo in cui mi sono sentita bellissima. Il mio sguardo vaga fino a incontrare la fotografia solitaria sulla mensola, un giovane con la divisa militare impeccabile, i capelli scuri e corti e l’espressione onesta. È l’unica foto che ho di allora. Ma i volti degli altri sono impressi nella mia memoria come se li avessi visti ieri.
Un colpo alla porta mi distrae dai pensieri. Il personale bussa anche se ha le chiavi, un tentativo di mantenere in piedi la decadente facciata dell’autosufficienza. Però non aspetto nessuno, ed è troppo presto per il pranzo. Forse Cookie si è dimenticata qualcosa.
Vado verso la porta e sbircio attraverso lo spioncino, un’altra abitudine che non mi ha mai abbandonato. Fuori ci sono una giovane donna e un poliziotto in uniforme. Mi si stringe lo stomaco.
Un tempo la polizia portava solo guai. Ma qui non possono farmi del male. Sono venuti a darmi brutte notizie?
Dischiudo la porta. «Sì?»
«Signora Nowak?», domanda il poliziotto.
Quel nome mi schiaffeggia come un panno gelido. «No», balbetto.
«Il suo cognome da nubile era Nowak, giusto?», insiste gentilmente la donna. Cerco di capire quanti anni abbia. Ha i capelli legati in una coda bassa, da ragazzina, ma l’accenno di rughe agli angoli degli occhi indica alcuni anni in più. È circospetta, una caratteristica che riconosco in me stessa, lo sguardo tormentato di chi conosce la sofferenza.
«Sì», rispondo infine. Non ho più motivo di nascondere chi sono, non c’è più niente che possano portarmi via.
«E viene da un villaggio nel sud della Polonia di nome… Biekowice?»
«Biekowice», ripeto di riflesso, correggendo la sua pronuncia in modo da far sentire la e corta alla fine. È una parola familiare come il mio stesso nome, anche se non la pronuncio da decenni.
Studio l’anonimo tailleur blu della donna cercando di capire cosa faccia nella vita e perché mi stia chiedendo di un villaggio dall’altra parte del mondo di cui solo una manciata di persone hanno sentito parlare. Ma di questi tempi la gente non si veste più a seconda del lavoro che fa: i dottori rifuggono il camice bianco, altri professionisti perdono l’uniforme in nome di completi casual. Magari è una scrittrice, o una di quei registi di cui mi ha parlato Cookie? Non è raro vedere troupe di documentaristi e giornalisti nell’atrio e nei corridoi. Vengono per le nostre storie, ci frugano nei ricordi come ratti nelle macerie, cercando qualche boccone nei rifiuti prima che la pioggia spazzi via tutto.
Però nessuno è mai venuto a cercare me, e io non mi sono mai offerta volontaria, cosa di cui non mi sono mai pentita. Semplicemente non sanno chi sono. La mia non è la storia di ghetti e campi, ma di un piccolo villaggio sulla collina, una cappella nel buio della notte. Immagino che meriterebbe di essere scritta. I più giovani non ricordano, e quando me ne sarò andata io non rimarrà nessun altro. La storia sparirà nel vento insieme a chi l’ha vissuta. Ma non ci riesco. Non perché i ricordi siano troppo dolorosi: li rivivo ancora e ancora, ogni sera, un film perenne nella mia testa. È solo che non trovo parole che rendano giustizia alle persone e alle cose che ci sono accadute.
No, i registi non cercano me. E in ogni caso non si farebbero certo scortare dalla polizia.
La donna si schiarisce la gola. «Quindi, Biekowice… lo conosce?».
Da cima a fondo, vorrei dire. «Sì. Perché?», trovo il coraggio di chiedere, anche se sospetto che non vorrò sentire la risposta. Il mio accento, sepolto anni fa, sembra essere tornato in vita all’improvviso.
«Ossa», si intromette il poliziotto.
«Scusatemi…». Non so cosa voglia dire ma mi aggrappo comunque alla porta, colta da un improvviso capogiro.
La donna lancia un’occhiataccia al poliziotto, come desiderando che non avesse detto nulla. Quindi, rendendosi conto che ormai è troppo tardi per tornare indietro, annuisce.
«Sono state ritrovate delle ossa umane in un cantiere nei pressi di Biekowice», dice. «E crediamo che lei possa fornirci delle informazioni in merito».
1
Polonia
1940
Il rombo sordo non turbò il sonno di Helena. Stava sognando i makowiec, i rotoli ai semi di papavero che faceva la mamma, spessi e caldi con una spolverata di zucchero. Perciò quando il rumore crebbe d’intensità, intromettendosi nel suo sogno e facendole tremare le mani, si aggrappò con più forza al dolce e si affrettò a portarselo alla bocca. Ma prima che potesse dare un morso, uno schianto scosse la casa e un piatto in cucina cadde a terra, infrangendosi in mille pezzi.
Scattò dritta a sedere, cercando di vedere nell’oscurità.
«Ruth!». Helena scosse la sorella. Ruth, raggomitolata come una pallina calda con le braccia avvolte attorno ai tre bambini addormentati nel mezzo, aveva da sempre il sonno più profondo.
«Bombe!».
Ruth saltò in piedi, subito sveglia, e afferrò le due sorelline mettendosele una per fianco. Helena la seguì, tirandosi dietro il fratello Michal ancora intontito, e insieme corsero verso la cantina come avevano provato decine di volte, senza fermarsi a infilare le scarpe allineate ai piedi del letto.
Helena fu la prima a strisciare giù per le scale, poi fu il turno di Michal. Quindi Ruth fece passare Dorie, che aveva cinque anni, prima di scendere a sua volta con Karolina, la più piccola, avvolta attorno al collo. Helena posò i piedi a terra e si tirò Dorie in grembo, sentendo l’odore del latte nel fiato della sorella. Rabbrividì quando l’umidità del fango a terra le penetrò inevitabilmente nella camicia da notte, poi si preparò all’esplosione seguente. Ripensò agli orrori del bombardamento di Varsavia dei quali aveva sentito parlare, e sperò che la loro casetta potesse resistere.
«È il temporale?», chiese Dorie a voce bassa, preoccupata.
«Nie, kochana». Il corpo della bambina si rilassò tangibilmente nelle braccia di Helena. Dorie non riusciva a immaginare niente di peggio di un temporale. Se solo fosse stato così semplice.
Ruth le tremava accanto. «Jeste´s pewna?», «Sei sicura fossero bombe?».
Helena annuì, poi si rese conto che Ruth non poteva vederla. «Tak». Ruth non l’avrebbe contraddetta. Le sorelle si fidavano l’una dell’altra, e quando si trattava della loro incolumità, Ruth delegava il compito a Helena. Michal le posò il groviglio di ricci sulla spalla, e lei lo abbracciò stretto sentendo le ossa che sbucavano sotto la pelle. Aveva dodici anni e sembrava diventare ogni giorno più alto: le loro scarse razioni semplicemente non bastavano.
Passarono dieci minuti poi altri venti senza rumori. «Credo sia finita», disse Helena sentendosi sciocca.
«Allora non erano bombe».
Helena immaginò le labbra della sorella che mettevano il broncio.
«No». Attese che Ruth la rimproverasse per averli trascinati fuori dal letto senza motivo. Ma quando lei non lo fece, si alzò e aiutò Dorie a salire su per la scala. Si infilarono di nuovo nel letto,un tempo appartenuto ai genitori.
Più tardi, alle prime luci dell’alba, mentre risaliva la collina boscosa davanti casa Helena ripensò a quel rumore. L’aria dei primi giorni di dicembre era frizzante, il cielo carico del presagio del freddo imminente. Non se l’era immaginato – ne era certa. Aveva sentito il rombo dell’aereo che volava troppo basso, e il suono seguente era stato quello di un’esplosione. Ma poteva vedere lontano chilometri da quella prospettiva, e quando si guardò alle spalle la cittadina e la campagna ondulata erano intonse, i tetti sbiaditi e i cespugli marroni di sempre non presentavano danni.
Helena era arrivata a metà collina quando un gallo cantò. Sorrise compiaciuta, come se lo avesse battuto al suo stesso gioco. Si fermò, si voltò e osservò di nuovo l’orizzonte, le dolci colline di Małopolska. Dietro, verso sud, c’erano gli Alti Tatra, le vette innevate offuscate dalla nebbia. Sollevò lo sguardo verso la mezzaluna crescente che indugiava nell’alba pallida.
Pam Jenoff, è nata nel Maryland ed è cresciuta nei dintorni di Philadelphia. Ha frequentato la George Washington University. Dopo un’esperienza al Pentagono, è stata trasferita al Dipartimento di Stato e poi assegnata al Consolato degli USA a Cracovia, in Polonia; rientrata dall’estero, oggi insegna nella facoltà di Giurisprudenza della Rutgers University, in New Jersey. I suoi romanzi sono tradotti in 27 Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La ragazza della neve, Le ragazze di Parigi, La ragazza con la stella blu e Un ospite speciale.
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