“Piccole cose da nulla” di Claire Keegan

Sono giorni che Bill Furlong gira per fattorie e villaggi con il camion carico di legna, torba e carbone. Nessuno vuole restare al freddo la settimana di Natale. Sotto la neve che continua a scendere, tutto va come sempre in quel pezzo d’Irlanda. Poi, nel cortile silenzioso di un convento, Bill fa un incontro che smuove la sua anima e i suoi ricordi. Lasciar correre, girarsi dall’altra parte, sarebbe la scelta più semplice, di certo la più comoda. Ma forse, per Bill Furlong, è arrivato il momento di ascoltare il proprio cuore. «Mentre proseguivano e incontravano altre persone che conosceva e non conosceva, si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’uno con l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?».

questa storia è dedicata alle madri
e ai figli che hanno sofferto
nelle Case della madre e del bambino
e nelle Magdalene Laundries in Irlanda

e a Mary McCay, maestra

La Repubblica d’Irlanda si fonda sulla fedeltà di ogni uomo e donna irlandese, che dunque rivendica. La Repubblica garantisce libertà religiosa e civile, pari diritti e pari opportunità a tutti i suoi cittadini, e dichiara la sua determinazione a perseguire la felicità e la prosperità di tutta la nazione e di tutte le sue parti, avendo cura di tutti i figli della nazione, senza differenza.

ESTRATTO DALLA PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA D’IRLANDA, 1916

1.

In ottobre gli alberi erano gialli. Poi gli orologi tornavano un’ora indietro e arrivavano i venti di novembre, soffiavano senza sosta e spogliavano i rami. Nella cittadina di New Ross i camini buttavano fumo, che svaniva dileguandosi in lunghi fili lanuginosi prima di disperdersi sulle banchine, e ben presto il fiume Barrow, scuro come birra, si gonfiava di pioggia.

Perlopiú la gente sopportava il maltempo, scontenta: bottegai e artigiani, uomini e donne alle poste e in coda per la disoccupazione, al mercato, al caffè e al supermercato, alla sala bingo, nei pub e in friggitoria non facevano che parlare, ciascuno a modo suo, del freddo e di quanto era piovuto, domandandosi se fosse normale – perché non era mica una cosa normale, eh? – e comunque non ci si credeva, ecco un’altra giornata di freddo barbino, l’ennesima. I bambini si tiravano il cappuccio sulla testa prima di affrontare il percorso fino a scuola, mentre le madri, che ormai ci avevano fatto il callo a correre a testa bassa alla corda del bucato, ammesso che ancora osassero stendere fuori, nemmeno ci speravano di avere anche solo una camicia asciutta prima di sera. E poi scendeva la notte e ancora una volta gelava, e lame di freddo si infilavano sotto le porte tagliando le gambe a chi ancora si inginocchiava a recitare il rosario.

Nel suo deposito, Bill Furlong, il commerciante di carbone e legname, si fregava le mani, dicendo che se andava avanti cosí presto avrebbero dovuto cambiare le gomme al camion.

– Fa avanti e indietro tutto il giorno, – disse ai suoi uomini. – C’è il caso che tra un po’ ce le ritroviamo consumate fino ai cerchioni.

Ed era vero: un cliente non faceva in tempo a uscire dal deposito che subito ne arrivava fresco fresco un altro, oppure suonava il telefono, e quasi tutti volevano una consegna rapida se non immediata, e no, non andava bene la settimana dopo.

Furlong vendeva carbone, torba, antracite, carbonella e legna. I clienti ne ordinavano un quintale, mezzo quintale, una tonnellata o un’intera camionata. Vendeva anche formelle di torba imballate, legna minuta e bombole a gas. Peggio di tutto era il carbone, e in inverno toccava andare a ritirarlo sulle banchine una volta al mese. Gli uomini ci mettevano due giorni pieni per caricarlo, trasportarlo e, una volta tornati al deposito, smistarlo e pesarlo tutto. Nel frattempo i battellieri polacchi e russi, che se ne andavano in giro per la città con i loro berretti di pelo e i loro cappottoni abbottonati, senza quasi spiccicare una parola in inglese, erano una bella novità.

In quei periodi di intenso lavoro, era Furlong a fare quasi tutte le consegne, lasciando i suoi uomini a prendere gli ordini e a tagliare e spaccare in due i carichi di alberi abbattuti che portavano i coltivatori. Per tutta la mattina si sentiva un gran segare e spalare, ma quando suonava la campana dell’Angelus, a mezzogiorno, gli uomini posavano gli attrezzi, si lavavano via il nero dalle mani e se ne andavano da Kehoe, dove li aspettava un pasto caldo completo di zuppa, e fish & chips il venerdí.

«Sacco vuoto non sta in piedi», diceva sempre la signora Kehoe mentre, dietro il nuovo banco del buffet, tagliava la carne e scodellava verdura e purè con i suoi lunghi cucchiai di metallo.

Gli uomini si sedevano, contenti di togliersi il freddo di dosso e riempirsi la pancia prima di farsi una fumata e affrontare di nuovo il freddo che faceva fuori.

2.

Furlong veniva dal niente. Meno di niente, avrebbe detto qualcuno. Sua madre era rimasta incinta a sedici anni mentre lavorava come domestica dalla signora Wilson, la vedova protestante che abitava nella grande casa padronale qualche chilometro fuori città. Quando venne fuori il pasticcio, e la famiglia chiarí che non avrebbe piú avuto a che fare con lei, la signora Wilson, invece di metterla alla porta, le disse che poteva rimanere a lavorare lí. La mattina in cui Furlong fu partorito, fu la signora Wilson a far portare sua madre all’ospedale, e in seguito a farli accompagnare a casa entrambi. Era il primo aprile del 1946, e qualcuno disse che il bambino era destinato a farsi infinoc-chiare da tutti.

Furlong passò la maggior parte dei suoi primi mesi di vita in una cesta di vimini nella cucina della signora Wilson e in seguito nella grossa carrozzina parcheggiata vicino alla credenza, imbrigliato lí dentro per tenere le alte caraffe azzurre fuori dalla sua portata. Nei suoi primi ricordi c’erano dei gran vassoi, un fornello nero – brucia! brucia! – e un lucido pavimento di piastrelle quadrate di due colori, su cui imparò a gattonare e a camminare, per poi rendersi conto che assomigliava a una scacchiera dove una pedina saltava l’altra o veniva mangiata.

Quando diventò piú grande, la signora Wilson, che non aveva figli suoi, lo prese sotto la sua ala, cominciò ad affidargli dei lavoretti e gli insegnò un po’ a leggere. Aveva una piccola biblioteca e senza curarsi particolarmente del giudizio degli altri si faceva la sua vita, che era morigerata, campando della pensione che riceveva come vedova di guerra e dei profitti che le venivano da qualche mucca Hereford e da un piccolo gregge di pecore Cheviot, tutte trattate benissimo. Ned, il bracciante, viveva lí anche lui, e gli attriti in casa o con i vicini erano rari perché i limiti della proprietà erano ben definiti, la terra era amministrata come si deve e non c’erano debiti in giro. Non c’erano nemmeno tensioni particolari in materia di fede, perché nessuna delle due parti mostrava un particolare fervore religioso; la domenica la signora Wilson si limitava a cambiarsi d’abito e scarpe, si appuntava in testa il suo cappellino elegante e Ned la accompagnava alla sua chiesa con la Ford, e poi proseguiva per portare madre e figlio alla loro, dopo di che, quando tornavano a casa, il libro delle preghiere e la Bibbia venivano riposti sulla mensola sopra l’attaccapanni fino alla domenica o alla festività successiva.

A scuola, Furlong veniva regolarmente schernito e preso a male parole; una volta era rientrato col dietro del cappotto coperto di sputi, ma la sua relazione con la grande casa gli aveva dato un certo margine di sicurezza, e lo aveva protetto. Perciò era andato avanti a studiare, frequentando per un paio d’anni la scuola professionale prima di finire al deposito di carbone, a fare piú o meno lo stesso lavoro degli uomini che ora erano sotto di lui, e aveva fatto strada. Aveva testa per gli affari, tutti lo consideravano una persona a posto e di cui ci si poteva fidare, perché aveva assorbito le buone abitudini protestanti; si alzava presto e non aveva il vizio del bere.

Adesso viveva in città con la moglie, Eileen, e le cinque figlie. Aveva incontrato Eileen quando lei lavorava nell’ufficio della Graves & Co. e l’aveva corteggiata nel modo classico, portandola al cinema e a fare lunghe passeggiate serali sull’alzaia. Di lei lo avevano attratto i lustri capelli neri e gli occhi grigio-azzurri, l’intelligenza pratica, svelta. Quando si erano fidanzati ufficialmente, la signora Wilson aveva regalato a Furlong qualche migliaio di sterline, per mettersi in proprio. A detta di qualcuno, gli aveva dato quei soldi perché il padre era uno dei suoi uomini: certo non l’avevano chiamato William in onore di qualche re.

Ma chi fosse suo padre Furlong non l’aveva mai scoperto. Un giorno sua madre era morta all’improvviso, accasciandosi sull’acciottolato mentre spingeva una carriola piena di mele selvatiche per fare la gelatina. Un’emorragia cerebrale, avevano detto i medici in seguito. All’epoca Furlong aveva dodici anni. Parecchio tempo dopo, quando era andato all’anagrafe per ritirare una copia del suo certificato di nascita, nello spazio dove avrebbe dovuto esserci il nome di suo padre c’era scritto solo «Ignoto». Nel consegnarglielo, la bocca dell’impiegato dietro il banco si era piegata in un sorriso sgradevole.

Va detto che Furlong era poco propenso a rimuginare sul passato: lui era concentrato a mantenere le bambine, che avevano i capelli neri come Eileen e la carnagione chiara. A scuola promettevano già bene. Kathleen, la piú grande, il sabato lo accompagnava nel suo ufficetto prefabbricato, e in cambio di qualche soldino di mancia gli dava una mano con i registri: era già in grado di annotare le entrate della settimana e di tenere quasi tutta la contabilità. Anche Joan aveva la testa sulle spalle e di recente era entrata nel coro della chiesa. Adesso andavano tutte e due alle medie, alla St Margaret.

La figlia di mezzo, Sheila, e la penultima, Grace, che erano nate a undici mesi una dall’altra, sapevano a memoria le tabelline, facevano già le divisioni a piú cifre e conoscevano i nomi di tutte le contee e di tutti i fiumi d’Irlanda, e a volte li disegnavano sedute al tavolo della cucina e poi li coloravano con i pennarelli. Erano portate anche loro per la musica e il martedí dopo la scuola prendevano lezioni di fisarmonica al convento.

Loretta, la piú piccola, per quanto timida aveva i quaderni pieni di note di merito, stava leggendo tutti i libri di Enid Blyton e aveva vinto un importante premio artistico per bambini col disegno di una grassa gallina azzurra che pattinava su uno stagno gelato.

Qualche volta Furlong, vedendole fare una dopo l’altra le piccole cose da nulla – genuflettersi in chiesa o ringraziare un negoziante per il resto – provava una profonda, intima gioia all’idea che quelle erano le sue figlie.

foto presa dal web

Claire Keegan è cresciuta in una fattoria di Wicklow, in Irlanda. Dove l’acqua è più profonda, nominato «Los Angeles Time Book of the Year», ha vinto il Rooney Prize per la letteratura irlandese. I suoi racconti si sono aggiudicati l’Olive Cook Award, il Kilkenny Prize, il Martin Healy Prize, il Macaulay Fellowship, il William Trevor Prize e il Francis MacManus Award. Vive in una zona dell’Irlanda rurale.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"