trama
Ah, il perdono! Gesto meraviglioso grazie al quale chi perdona viene affrancato dal risentimento e chi è perdonato viene sollevato dal senso di colpa per aver compiuto il misfatto.
Ma cosa accade quando il perdono si rivela una vendetta per chi lo concede e una condanna per chi lo riceve? È il tema di questi quattro racconti di Eric-Emmanuel Schmitt. Con la consueta spigliatezza e ironia l’autore ci presenta quattro situazioni in cui l’atto di bontà diventa il mezzo di una vendetta sottile, quasi sadica.
Così abbiamo la storia di Lily, la gemella buona e brava che perdona alla sorella Mosetta di essere invidiosa e subdola; la storia di Mandine, che perdona a William di averla sedotta e abbandonata; la storia di Élise, che perdona a Sam Louis di aver violentato e ucciso sua figlia; e infine la storia dell’anziano aviatore Werner von Breslau, che perdona a se stesso di non essersi opposto al nazismo nel decennio che ha sconvolto il mondo. L’epilogo di ognuna delle quattro novelle ci ricorda che il risultato delle nostre azioni non è sempre quello che ci aspettiamo. E se a descriverlo è la penna di Schmitt, possiamo star certi che il finale inatteso è sempre un magistrale coup de théâtre.
«Quattro racconti che lasciano il lettore sconcertato e intrigato».
(Emmanuèle Peyret – Libération e Internazionale)
Estratto
LE SORELLE BARBARIN
A volerlo immaginare come un villaggio, il paradiso terrestre avrebbe le sembianze di Saint-Sorlin.
Lungo le vie lastricate che scendevano in dolce pendio verso il fiume ogni facciata era un giardino. Il glicine faceva pendere i suoi lampioncini malva dai piani superiori, i gerani scintillavano alle finestre, la vite illuminava il pianterreno, le digitali svettavano dietro le panchine e ciuffi di mughetto spuntavano fra le pietre compensando con un intenso profumo le dimensioni ridotte.
A chi lo attraversava, Saint-Sorlin-en-Bugey lasciava il ricordo di possedere una sola stagione, il mese di maggio. I fiori che vi abbondavano vividi, fitti e insolenti riducevano le case a semplici supporti. Sotto un cielo azzurro e ingenuo una congiura di rose invadeva i muri, rose rosa paffute, sbocciate, più mature di un frutto maturo, vibranti, rigogliose, con petali carnosi che invitavano alla carezza o al bacio, rose nere pudiche e imporporate, rose rosse asciutte e snelle, rose gialle dalla fragranza penetrante di pepe, rose arancioni mute e
senza odore, rose bianche impaurite, effimere, troppo in fretta deluse, già ossidate. Qua e là, come selvagge venute ad accamparsi in città, scarne rose canine dal fogliame granuloso esibivano bacche rosso rubino da cui gli abitanti ricavavano una marmellata. Lungo il bordo del lavatoio folte ortensie lilla conferivano ai luoghi una rispettabilità borghese. Dalla chiesa di Sainte-Marie-Madeleine alle rive del Rodano, Saint-Sorlin era tutto un prosperare di vegetazione.
A place de la Halle camminava Lily Barbarin, un’anziana signora il cui charme ben si accordava con le viuzze civettuole. Sorridente, esile, con il colorito delicato, il naso ben disegnato e gli occhi chiari, era l’immagine stessa della bontà. Se Saint-Sorlin raffigurava il paradiso, Lily incarnava sicuramente la nonnina ideale! Benevola, ansiosa di aiutare i propri concittadini, sembrava vivere la vecchiaia con educata riservatezza mista ad altruismo. Eppure la vita avrebbe dovuto condurla all’odio, relegarla nel risentimento. Non era forse stata tormentata per decenni? Non era forse stata disprezzata, bistrattata, tradita, detestata? E soprattutto, non doveva forse il giorno dopo comparire davanti a un tribunale per un’accusa di omicidio?
Come il borgo idilliaco aveva albergato il suo carico di rancori, gelosie e delitti, così l’anziana signora, sotto una maschera liscia e fresca, aveva rasentato l’inferno. Ne aveva varcato le porte? Aveva commesso l’irreparabile?
Il suo accusatore, Fabien Gerbier, la osservava dalla propria bottega di calzolaio. Massiccio, alto, con l’occhio nero e il sopracciglio aggrottato, assestava martellate sulle suole con una violenza il cui oggetto era Lily Barbarin. Malgrado l’età della signora, la sua fragilità e la presunzione di innocenza, Gerbier riteneva intollerabile che se ne andasse in giro a piede libero suscitando l’indulgenza dei compaesani. Era stato lui a manifestare sospetti, motivare i gendarmi, allertare la polizia, far partire una procedura giudiziaria, e sempre a lui era dovuto il braccialetto elettronico che stringeva la caviglia di Lily, dato che le autorità lassiste si erano rifiutate di metterla in prigione prima dell’udienza.
L’indomani Fabien Gerbier sarebbe andato al processo a Bourg-en-Bresse. L’indomani avrebbe assistito allo spettacolo della giustizia in azione. L’indomani si sarebbe finalmente saputa la verità.
Da settimane gli abitanti di Saint-Sorlin, a tavola, si compiacevano di raccontare la storia di Lily Barbarin ai forestieri o agli amici di passaggio. O meglio, la storia delle sorelle Barbarin, perché sebbene soltanto una fosse ancora viva non si poteva parlare dell’una senza evocare l’altra.
«Incredibile!».
Le sorelle Barbarin videro la luce nello stesso giorno. Mentre la prima sollevò ammirazione, la seconda, spuntando tra le cosce sfinite della madre mezz’ora dopo, provocò sgomento. Nessuno l’aveva prevista. In un’epoca in cui i medici sondavano poco i fianchi delle pazienti, a rivelare sesso e numero dei figli era la nascita.
«Due, signora Barbarin! E così, zitta zitta, ci ha sfornato due splendide bambine!».
La levatrice era esultante.
Sovranamente simili, uguali dagli occhi azzurri alle dita dei piedi, le sorelle Barbarin riempivano i genitori di orgoglio. Già fare un figlio era una cosa straordinaria, ma due e perfettamente identiche era un vero prodigio!
«Bellissime!».
Affascinati, gli adulti presenti non si soffermarono sull’impeto con cui la seconda aveva fatto irruzione né sul vagito indignato che aveva emesso, neanche se la fosse presa con il genere umano per non averla intuita e attesa.
«Come le chiamerete?».
Senza esitazioni i Barbarin battezzarono Lily la maggiore di trenta minuti, come avevano già stabilito, mentre sulla più piccola, imprevista, restarono un attimo interdetti. Alla fine si decisero per Mosetta, perché se avessero avuto un maschio l’avrebbero chiamato Mosè.
Lily e Mosetta… Quelli che si stupirono per la disparità dei due vocaboli, uno che suonava delizioso e l’altro che suonava strano, facevano bene a preoccuparsi. Un nome di ripiego: se non era foriero di un destino malaugurato quello…
Lily e Mosetta vissero quattro anni di felicità. I Barbarin erano entusiasti di quella somiglianza spettacolare, tanto che si divertivano ad accentuarla non separando mai le bambine, vestendole allo stesso modo e chiamandole “le gemelle”.
Prima di apprendere la lingua della società Lily e Mosetta parlarono un proprio idioma, un chiacchiericcio liquido e articolato che passava dall’una all’altra senza interruzione, un misto di ronzii e cinguettii tanto chiaro per loro quanto incomprensibile per gli altri.
«Che intesa meravigliosa!» esclamavano spesso i vicini vedendole gattonare, giocare, mangiare, dormire, correre e lanciarsi in soliloqui perennemente insieme.
A ben vedere, tuttavia, non si poteva parlare di “intesa” nel senso corrente del termine, perché per intendersi, cioè esprimersi, ascoltare e rispondere, bisogna essere in due,
mentre Lily e Mosetta crescevano l’una accanto all’altra senza avere la sensazione di essere distinte. All’alba della loro vita era evidente che le sorelle ignoravano la propria dualità, formavano una sola e unica persona, un’entità con due corpi, un organismo con quattro gambe, quattro braccia, quattro labbra e due bocche. Quando una cominciava un gesto, l’altra lo finiva. Erano immerse nell’armonia come se fossero ancora unite da una placenta invisibile, avvolte da una sacca protettrice, una bolla satura di liquido amniotico in cui si sviluppavano serene a temperatura costante, vibrando in risonanza.
Quale fu l’evento che lacerò la sacca, la lama che separò le due sorelle?
La mattina in cui le bambine compirono quattro anni i Barbarin misero un pacchetto blu nelle mani di Lily e uno rosso in quelle di Mosetta. Ognuna, incantata, guardò golosamente il proprio regalo, poi si voltò per esaminare sorridendo quello della sorella. Mosetta si sbarazzò del pacchetto rosso e prese quello blu, che la attirava di più. Lily non fece obiezioni.
«No!» intervennero i genitori. «Quello blu è di Lily e quello rosso di Mosetta».
Redistribuirono i pacchetti, ma pochi secondi dopo Mosetta, cocciuta, tentò di nuovo di afferrare quello della sorella.
«Non hai capito, Mosetta: il tuo è quello rosso, non quello blu».
Mosetta aggrottò le sopracciglia. Le piaceva più il pacchetto blu di quello rosso, e non capiva perché glielo negassero. Provò a tirarlo a sé, ma un colpetto sul polso la fermò. Contrariata, rimase a bocca aperta.
«Su, bambine, aprite i regali!».
Sotto gli occhi di Mosetta, Lily scartò il pacchetto blu e tirò fuori una scatola con dentro una bambola.
«Oh!» fecero le bambine in coro.
Come la sorella, anche Mosetta si estasiava davanti alla magnifica creatura bionda, vestita di satin bianco, che stava seduta nella scatola.
«Che bella!» sussurrò Lily.
«Davvero!» approvò Mosetta.
Lily sollevò delicatamente la plastica, prese la bambola e la mise in piedi. Mosetta osservava la scena dando l’impressione di farne parte.
Poi Lily accarezzò i capelli d’oro della bambola, gesto che Mosetta incoraggiò, e le dette un bacio sulle guance rosa, cosa che fece arrossire Mosetta come se il bacio l’avesse ricevuto lei.
«Mosetta, e il tuo regalo?».
La bambina impiegò dieci secondi a capire che i genitori si stavano rivolgendo a lei.
«Non sei curiosa?» si intestardirono loro.
«Mi piace la bambola».
«Hai ragione, è proprio bella».
«Mi piace».
«Sì, ma è di Lily».
Sorvolando sull’osservazione, Mosetta allungò la mano perché Lily le ridesse la bambola.
I genitori decisero di prendere provvedimenti.
«Insomma, Mosetta, è la bambola di Lily!».
Strapparono il giocattolo che Mosetta teneva stretto al petto e lo rimisero di forza nelle mani di Lily.
«È tua e la tieni tu!».
Mosetta ci pensò su qualche secondo, poi tese le mani verso Lily, che le restituì la bambola. I genitori si intromisero. La violenza cominciò a fare capolino.
«Oh, basta con questa storia! Lascia in pace il regalo di Lily e scarta il tuo».
Istintivamente, sentendo il tono autoritario, Mosetta scoppiò a piangere.
«Che tonta! Ricevi un regalo e neanche lo guardi. Valeva la pena darsi tanto da fare…».
Mosetta capiva soltanto che non poteva fare come voleva. Lily si precipitò ad abbracciarla e, per contagio, si mise a singhiozzare. Tranquillizzata, Mosetta versò ancora qualche lacrima, poi considerò la situazione: la madre le stava porgendo ostinatamente il pacchetto rosso.
Senza scampo, con un’espressione chiusa, Mosetta strappò la carta nella quale era avvolto uno splendido orsacchiotto.
«Ma che bell’orso!» esclamarono i genitori per invogliarla.
Mosetta lo guardò imbronciata.
«Ti piace?».
La bimba si voltò verso la sorella, che osservava golosamente il peluche, e sospirò:
«Sì».
Poi, ritenendosi libera, si impadronì della bambola.
Seguì una scenata. Esasperati, i genitori alzarono la voce, Mosetta ricominciò a piangere e Lily, solidale, a strillare.
«Ah no, Lily! Non ti ci mettere anche tu! Non fare la sciocca come tua sorella!».
Fioccarono gli improperi, sbatté la porta. I genitori scomparvero lasciando le bambine singhiozzanti sul pavimento in mezzo ai resti della carta regalo.
Quel compleanno aveva asserito l’individualità delle gemelle: ciascuna aveva nebulosamente realizzato che non si confondeva con l’altra. A quattro anni erano nate di nuovo, ma stavolta in due. Ben distinte. Lily e Mosetta.
Per Lily fu un’informazione, per Mosetta una tragedia. Non soltanto aveva smesso di essere la sorella, ma per giunta era sola. E la trattavano meno bene. Ognuno di noi durante l’infanzia viene folgorato dalla percezione improvvisa dello spazio che c’è tra se stessi e il resto del mondo, dal rendersi conto di esistere come individuo, di essere differente, di essere un corpo singolo in mezzo a corpi estranei, un involucro mentale a sé. Ingiustizia della consapevolezza… Per alcuni è una magnifica scoperta, per altri un crollo. Per i primi è un sipario che si apre sul mondo, per i secondi un muro che li relega in una prigione. La solitudine è un reame di cui alcuni vedono il trono, altri le frontiere.
Lily gioì a esplorare la natura intorno a sé, dove per giunta si aggirava provvista di una gemella! Offesa e diffidente, Mosetta trovò il mondo inospitale e notò che la presenza della sorella le sottraeva influenza, dimensione, preminenza… In quel compleanno Lily aveva guadagnato una sorella, Mosetta aveva scoperto una rivale.
A partire da quel giorno le gemelle, pur continuando a essere un’unica persona agli occhi del villaggio, smisero di esserlo ai propri.
Nelle varie circostanze, di fronte a genitori, insegnanti e compagni, istintivamente si fondevano. Se la madre, tornando a casa, inciampava su una lampada rotta, le bambine si coalizzavano. «Non sono stata io!» gridava Lily. «Non sono stata io!» le faceva eco Mosetta. Inutile attendere, nessuna delle due avrebbe denunciato la colpevole. Ogni intrusione dell’autorità nel loro spazio ne rinsaldava la complicità, con la conseguenza che o smettevano di punirle o la punizione veniva applicata a entrambe. A loro importava poco essere private del dolce, essere costrette dalla maestra a ore supplementari di studio o non essere più invitate dall’amichetto che dopo la loro visita non aveva più trovato le sue biglie: il loro sodalizio era più importante della collera e della riprovazione degli estranei. Facevano blocco.
Tuttavia, lontano dagli sguardi del prossimo, il blocco si crepava. E se dal punto di vista fisico differivano soltanto di un chilo, essendo Lily leggermente più grassottella, psicologicamente le crepe si approfondivano.
Lily era l’intraprendente. Audace, ambasciatrice delle gemelle, a suo agio nel ruolo di apripista, dava impulso a incontri, giochi, spostamenti. Visto che era lei ad avvicinare le
persone, le persone si attaccavano inizialmente a lei, e visto che la sua spontanea posizione di comando consolidava abitudini si sentiva più spesso parlare di “Lily” o delle “gemelle” che di “Mosetta”. Alcuni si limitavano a dire “l’altra”, molti ne dimenticavano il nome.
Mosetta andava dietro alla sorella senza neppure sognarsi di mettere in discussione quell’ordine quasi naturale delle cose, e tuttavia percepiva l’ombra che Lily le faceva. Per due anni non mostrò mai il minimo rancore verso quella sorella necessaria ed eterna, quella sorella lontano dalla quale si sentiva incompleta. Tutt’al più se la prendeva con gli adulti, incuranti, insofferenti e privi di memoria, e d’altronde Lily stava sempre dalla sua parte, la difendeva sempre quando lei si lamentava di una mancanza di riguardo del tale o talaltro individuo.
Dato che a Natale e ai compleanni ricevevano ormai regali diversi, le gemelle avevano adottato una strategia: in pubblico facevano finta di essere contente, e appena sole procedevano a una redistribuzione. Mosetta, sistematicamente delusa dai doni ricevuti, pretendeva quelli di Lily, che non solo glieli cedeva senza esitare, ma neanche si offendeva quando in seguito Mosetta rifiutava di prestarglieli.
Intorno ai sette anni provvide la scuola elementare a incrinare la loro unione. Mosetta era più lenta e meno precisa della sorella, faceva fatica a imparare. Le maestre lo dissero ai
genitori nel corso di un incontro che fece infuriare Mosetta, perché il suo ritmo di studi, analogo a quello di un terzo della classe, non peggiore di quello dei suoi compagni, sarebbe passato inosservato se non avesse avuto accanto quella sorella brillante. Nel momento in cui veniva paragonata a Lily, da alunna normale diventava una scolara mediocre! Se la prese con lei per quel confronto imposto, la maledisse in cuor suo perché era più brava e, quando tornava a casa con un brutto voto, prese l’abitudine di darne la colpa a Lily.
Verso i dieci anni successe l’irreparabile: un’insegnante propose di separare le gemelle e metterle ognuna in una classe adeguata al proprio livello. Per quanto la docente vantasse i meriti della differenziazione, promettesse un miglior sviluppo e lodasse l’efficacia della formula individuale, Mosetta chinò il capo e guardò Lily con odio.
Da quel momento prese a devastarne con regolarità la camera, le sciupò i libri, le ruppe le matite, le strappò i disegni, le bucò i vestiti. Lily però non diceva una parola, sistemava, riparava e continuava a proteggere la sorella. Non le passava per la testa di criticarla, convinta com’era che Mosetta fosse poco considerata.
Calma e riflessiva, Lily faceva in modo che le meschinità della sorella non venissero alla luce. Se la sua aggressività la faceva soffrire troppo dava prova di un sangue freddo più che astuto. Per esempio il giorno della prima comunione, tenendo molto alle cose che aveva
chiesto, si recò di buon’ora al tavolo su cui erano posati i doni e invertì le etichette, in modo che la sera stessa, quando nell’intimità della notte Mosetta volle fare a cambio di regali, Lily rientrò in possesso di quelli che desiderava.
L’equilibrio si modificò nel corso del dodicesimo anno di età.
Una mattina Mosetta fissò Lily e disse:
«Hai una brutta faccia».
Lily la guardò sbigottita.
«Anche tu».
Andarono insieme allo specchio e constatarono che l’immagine riflessa dava loro ragione: i loro volti stavano cambiando.
Una settimana dopo Mosetta puntò gli occhi sui fianchi di Lily.
«Smettila di ingozzarti, stai ingrassando. Di questo passo farai saltare le cuciture della gonna».
«Anche tu».
Di nuovo lo specchio confermò il comune disastro. Come un’arma segreta gli ormoni si erano impadroniti del loro corpo e avevano cominciato a trasformarlo.
Non passava mattina senza che una notasse nell’altra un’imperfezione che ritrovava subito su di sé, un brufolo sulla punta del naso, seni che si gonfiavano, peli che spuntavano, grasso sulle cosce, pelle più unta, odore diverso… Avevano lasciato le rive dell’infanzia dirette al continente delle donne, ma per il momento vogavano su acque ingrate.
Lily, stupita, scopriva sulla gemella il proprio nuovo corpo. Quanto a Mosetta, non sopportava che la sorella le infliggesse lo spettacolo della disfatta. Era come passare ventiquattr’ore su ventiquattro davanti allo specchio. Lily, che ai suoi occhi era orrida, le ricordava in continuazione la propria bruttezza. Ostentando i suoi stessi difetti, Lily le suscitava un tale tormento che Mosetta la odiava.
Fortunatamente, una volta che gli estrogeni ebbero portato a termine la colonizzazione e rifinito la metamorfosi, le sorelle Barbarin si rivelarono carine. Tutte e due altrettanto carine.
Mosetta esultava.
La disuguaglianza creata dalla scuola era finita. Tornavano a essere identiche!
Paradossalmente, i primi flirt le riavvicinarono. Spaventate dal proprio desiderio, bramose di esercitare i nuovi poteri sui ragazzi, affascinate dal gioco della seduzione, si consultavano di continuo, tanto da sviluppare una forte complicità più simile alla solidarietà fra soldati di fronte a un pericolo inatteso che a un’amicizia reale. Si raccontavano tentativi, fallimenti e successi, col risultato che Mosetta, meno ardita di Lily, approfittava dei passi falsi della sorella per muoversi più scaltramente e dunque piaceva di più.
Certe volte si lasciarono prendere dall’ebbrezza di menare per il naso un ragazzo sostituendosi l’una all’altra per un bacio furtivo o una burla romantica. All’età in cui le adolescenti temono l’ascendente dei maschi, le gemelle, fiere di domare le apparenze, si vantavano di dominare gli spasimanti.
Si volevano bene? Sicuramente Lily adorava la sorella, si preoccupava della sua felicità, era contenta quando Mosetta era contenta e triste quand’era triste. Mosetta era importante quanto se stessa, se non di più. Alla vicinanza carnale che le accomunava dalla nascita Lily aveva aggiunto un affetto profondo, essenziale.
Per Mosetta era più una questione d’abitudine che d’affetto. Sebbene provasse un bisogno quasi fisico di Lily, non era devastata dallo sconforto quando la sorella stava male, non prendeva mai iniziative per lei o per loro in quanto coppia, non la includeva nel futuro che sognava, e capitava pure che si rallegrasse nel vederla in difficoltà.
«Lui è Fabien».
Un pomeriggio caldo come un forno Lily presentò a Mosetta un giovane bruno con gli occhi ardenti, il petto in fuori, la vita snella e le gambe arcuate come se fosse appena sceso da cavallo.
Da quando l’aveva conosciuto a casa di una compagna, una settimana prima, Lily le parlava di Fabien senza nasconderle che per la prima volta si sentiva innamorata.
Impaziente, eccitata dall’irruzione dell’amore nelle loro vite, Mosetta osservò Fabien e capì l’emozione di Lily: era alto, slanciato, con un’eleganza nel contegno temperata da una certa sfrontatezza, i capelli ricci un po’ troppo lunghi e gli occhi verdi con grandi pupille scure che lo facevano sembrare ipnotizzato dalle ragazze. Ben piantato, con labbra carnose che disegnavano un sorriso crudele e allegro, era una via di mezzo tra il genero ideale e la canaglia.
Il suo sguardo fece arrossire Mosetta, uno sguardo stupefatto di fronte alla perfetta rassomiglianza delle sorelle, uno sguardo carico di desiderio… Era chiaro che il ragazzo trovava le gemelle Barbarin di suo gusto. Mosetta abbassò subito le palpebre. “Pericolo!” le urlava una vocina interna. Il cuore prese a batterle forte. Sentì il sudore bagnarle le ascelle e strinse i pugni temendo che il sangue impazzito le facesse esplodere le vene del collo.
Durante il pomeriggio che trascorsero tutti e tre insieme Mosetta lasciò che fosse Lily a decidere i divertimenti, le passeggiate, il momento del tè, il tipo di tè, i biscottini che avrebbero mangiato col tè, il punto del giardino in cui avrebbero preso il tè… Ritrovando la riservatezza e la timidezza dell’infanzia si tenne in disparte, ridendo solo per fare eco alla maggiore e aprendo bocca solo per acconsentire. Turbata dal ragazzo e travolta da un voluttuoso torpore, pensava al rallentatore. La situazione la imbarazzava. Era consapevole che la sorella si stava innamorando sempre di più, ma allo stesso tempo si trovava alle prese con un ambiguo stato di tensione: da una parte appoggiava l’entusiasmo di Lily, dall’altra si rimproverava di condividerlo. Era talmente sfinita da quella tensione che emise un sospiro di sollievo quando finalmente Fabien se ne andò.
«Be’, che ne pensi?» si affrettò a chiedere Lily.
«Lo stesso che pensi tu!» rispose Mosetta tutto d’un fiato.
«Gli piaccio, no?».
Mosetta ripensò all’espressione eccitata di Fabien quando sbirciava Lily.
«È chiaro!».
Lily esplose in gioiose piroette. Mosetta evitò di dirle che anche quando Fabien guardava lei aveva individuato nei suoi occhi la stessa eccitazione.
Quando Lily ebbe finito il balletto intorno al tavolo Mosetta si grattò la testa.
«È soprattutto una cosa fisica fra te e lui?».
«Non solo».
«Ma è cominciata con uno sguardo».
«Certo, non l’ho mica conosciuto per corrispondenza…».
«Neanche al telefono…».
«Neanche al telefono! Hai ragione, Mosetta: il primo sguardo ci ha folgorati come una scarica da trecento volt. Anzi, da mille. Un colpo di fulmine».
«E quindi è soprattutto una cosa fisica!».
«No, è prima di tutto fisica. Poi c’è il resto… Già, tutto il resto…».
Sognante, Lily ripeté più volte «tutto il resto» in tono misterioso.
Mosetta annuì: non riusciva a circoscrivere quel “tutto il resto”. Per due ore la loro conversazione era stata infiorettata solo da luoghi comuni, frasi trite, battute stantie e silenzi imbarazzati inframmezzati da risate eccessive. Se ne rendeva tanto più conto in quanto, più che partecipare alla chiacchiera, vi aveva assistito. A considerare le cose che gli interessavano, Fabien si rivelava un ragazzo banale, brutale, terra terra, simile a migliaia di altri, la cui unica caratteristica saliente era una frenetica avidità di essere apprezzato.
Nonostante l’aria da vivace cacciatore il suo cervello funzionava più lentamente del suo sguardo seduttivo.
Tenendo per sé quelle valutazioni Mosetta si rallegrò della propria lucidità, che senza ombra di dubbio surclassava quella della povera sorella innamorata.
Durante i due mesi delle vacanze estive Fabien soggiornava ad Ambérieu, non lontano da Saint-Sorlin. Totalmente libero di spostarsi a piacimento grazie al ciclomotore che gli aveva dato il padrino, moltiplicò le visite alle sorelle Barbarin.
Fra Lily e Fabien la temperatura salì con la stessa velocità del mercurio nei barometri di quell’estate torrida. A fine luglio Lily annunciò a Mosetta che non avrebbe più aspettato: presto avrebbe fatto l’amore con Fabien.
«Senza sposarvi?».
«Sì!».
«Neanche fidanzarvi?».
«Chi se ne importa».
«Cioè?».
«Cerca di capirmi, Mosetta. È chiaro che mi auguro di passare tutta la vita con Fabien, perché lo amo. Ma come faccio a essere sicura che accadrà? “Tutta la vita” è un pò astratto, no? E poi sta qui solo d’estate, a settembre tornerà a Lione. La mia vita è adesso, non domani. Non fare quella faccia stupita! Quante volte io e te abbiamo detto che rifiutiamo il matrimonio? Se succede, tanto meglio. Se non succede, almeno sarò stata a letto con Fabien».
Mosetta protestò a lungo e con passione per ore e giorni. Certo, diversamente dalle generazioni precedenti anche lei rivendicava la libertà di essere donna prima di essere moglie, ma una forza cocciuta la portava a opporsi a Lily sfoderando argomenti su argomenti per tenerla a freno. Che forza? Un timore dalle mille sfaccettature, la paura di perdere la sorella e la paura di tornare a essere la seconda, “l’altra”, la gemella, la piccola in ritardo, quella lenta… insomma, la tonta! Trattenendo Lily dal prendere il volo tra le braccia di Fabien si batteva per se stessa, non per la sorella.
A metà agosto si tranquillizzò perché Lily non parlò più di concedersi a Fabien. Anzi, cambiava discorso appena la sorella affrontava l’argomento. Mosetta era trionfante. Aveva impedito a Lily di crescere. Meglio due larve che un bruco e una farfalla.
La sera del 15 agosto, dopo i tradizionali festeggiamenti dell’Assunzione che avevano permesso a tutti di ubriacarsi, Mosetta captò dei mormorii ai piedi della casa addormentata.
Il campanile aveva appena suonato la mezzanotte.
Inquieta, scese dal letto e andò alla finestra a passi felpati. Per strada, sotto una luna rossa, vide la sorella con i sandali in mano andare scalza verso un bel ragazzo col giubbotto in sella a un ciclomotore. Lily si inerpicò sul portapacchi e gli abbracciò il torace abbandonandosi contro la sua schiena, già consenziente, mentre Fabien, spingendosi con i piedi, sfruttò la discesa e il peso del mezzo per arrivare alla strada provinciale che attraversava il villaggio senza mettere in moto. La coppia girò l’angolo senza fare rumore. Pochi secondi dopo si sentì il ronzio del motore che aumentò brevemente di volume prima di perdersi in lontananza…
Sul paesaggio spento si posò di nuovo la cappa plumbea del silenzio.
Mosetta rabbrividì. Non si era mai sentita tanto sola…
Dove andavano? Non lo sapeva. In compenso immaginava quello che stavano andando a fare… Un gatto dagli occhi fluorescenti la fissava dal tetto di fronte. Mosetta si morse il pugno dalla rabbia. Ecco perché negli ultimi tempi la sorella era stata zitta: aveva già deciso. Lily si faceva beffe di lei due volte: primo perché non l’ascoltava, e secondo perché scopriva l’amore prima di lei.
«La odio! Non l’ho mai odiata tanto».
Immaginava la sorella sotto il corpo nudo di Fabien che si agitava inarcando le reni e sollevando le natiche.
«Troia! Nient’altro che una troia!».
A quelle parole sibilate a fior di labbra il gatto si sollevò diffidente e drizzò la coda.
Tornando nella penombra della camera Mosetta scorse il ridicolo riflesso di se stessa sulla grande specchiera dell’armadio: un gamberetto in pigiama.
«Stronza!» ripeté all’indirizzo della sorella.
Offeso, il gatto scappò sulle tegole.
Quella mattina, così come le successive, Mosetta rimase senza fiato di fronte all’evoluzione della sorella. Lily era raggiante, imperiale, ieratica, maestosa come un’alba, così luminosa da imporre rispetto. Da incantevole bambina era diventata una bella donna con i capelli fluenti di vitalità, il colorito ambrato, la bocca di fragola e gli occhi scintillanti. Col volto sempre illuminato dal sorriso decuplicava l’ampiezza dei propri gesti: invece di camminare si slanciava, se rimaneva immobile si trasformava in sfinge, e quando si allungava su un divano emanava una sensualità torrida da Afrodite in posa per uno scultore invisibile. Qualcosa l’aveva leggermente appesantita, un qualcosa che la rendeva più provocante, più aggraziata, più fatale… Forse il segreto della voluttà?
Mosetta la invidiava talmente che smise di criticarla. Non desiderava altro che assomigliarle di nuovo.
Così fece tutta la carina per riallacciare il dialogo. A forza di gentilezze, lasciandole capire che sebbene fosse al corrente di quello che succedeva ogni notte rimaneva la sua leale complice, Mosetta riguadagnò la fiducia di una Lily che non vedeva l’ora di aprirsi. La sorella le descrisse il fienile in cui Fabien la portava, la luce delle stelle sui loro volti, il brivido che provava quando lui la spogliava, il proprio potere sessuale che individuava negli occhi del maschio ardente ed estasiato, la propria potenza erotica che in Fabien provocava sia pazienza che impazienza, sia delicatezza che foga. Incitata da Mosetta le raccontò nei particolari i loro amplessi, quello che lui faceva a lei, quello che lei faceva a lui, quello che le piaceva sempre di più, quello per cui andava pazza e quello che presto avrebbe osato… Parlò della paura, che da principio paralizzava, poi stimolava. Delineò il percorso del pudore, il disgusto che si prova da piccoli all’idea di certi palpeggiamenti e che si dissolve durante l’amore, un disgusto che si trasforma nel suo contrario, la brama; insomma, quel disgusto che era in realtà il segno distintivo delle mocciose.
Incantata da quei racconti Mosetta diventava donna per procura, quasi ritrovando l’inseparabilità dei loro primi anni. Sennonché la notte, quando Lily si allontanava da casa sul ciclomotore di Fabien, Mosetta, sola nel suo letto, trascurata, rinnegata, arrabbiata di poter soltanto fantasticare, ricominciava a maledirla.
Il 31 agosto la vita della famiglia Barbarin fu turbata da un evento drammatico. Erano a cena quando un cugino bussò alla porta e annunciò che nonna Garcin si stava spegnendo e voleva vedere la figlia.
Nel panico, la signora Barbarin decise di recarsi immediatamente dalla madre a Montalieu, quindici chilometri verso sud. Il signor Barbarin si precipitò a prendere la macchina in garage per accompagnare la moglie.
La Citroën era ferma davanti alla porta d’ingresso col motore acceso. Seguita dalle gemelle, la signora Barbarin varcò la soglia, poi si voltò di colpo verso Lily.
«Vieni anche tu».
Lily fece un passo indietro in corridoio.
«Io?».
«Sì».
Sebbene afflitta per la sorte della nonna, Lily pensò a Fabien che quella sera l’avrebbe aspettata come tutte le altre sere e lanciò a Mosetta uno sguardo sgomento.
«Io?» ripeté.
«Sì, dài! Sbrigati! Mettiti le scarpe».
«Sei sicura?» balbettò la figlia.
«Ma sì, andiamo al capezzale della nonna».
«Perché io e non Mosetta?».
Seccata, affrettata, la madre non perse tempo a formulare con cura la risposta ed entrando in macchina disse soltanto:
«Perché tua nonna ti vuole molto bene!».
Le ragazze ebbero un fremito. Mosetta si appoggiò al muro del corridoio: sarebbe caduta se la parete non l’avesse sostenuta. Cosa? La sua adorata nonnina non l’adorava a sua volta? Preferiva Lily? Anche lei?
Lily si rese conto della mazzata che era appena stata assestata alla sorella, e la guardò impietosita. La madre colse lo sguardo, capì di aver detto una frase infelice e invece di scusarsi si arrabbiò.
«Insomma, basta! Non complicate le cose, tutte e due. Non stasera, accidenti! Lily, tu vieni con me. Mosetta, tu tieni d’occhio la casa. A domani!».
Sbatté la portiera. Lily ebbe venti secondi per salire dietro, poi la macchina partì in quarta.
Mosetta si trattenne a lungo nel vano della porta. Sola… Sola ancora una volta… Lontana dai drammi familiari… Lontana dagli affetti familiari… Sola… Con l’incarico di fare la guardia alla casa… Come un cane… Sola…
Prese la decisione seduta stante. Salì in camera di Lily, si chiuse in bagno, si lavò, si preparò, si mise il suo profumo e indossò uno dei suoi vestiti.
Dopo mezzanotte, quando comparve Fabien, Mosetta lo aspettava sotto il portico dei vicini, come avrebbe fatto Lily.
Salì sul portapacchi, si strinse a Fabien, si incollò alla sua schiena e si lasciò trasportare…
Due ore dopo, tra le braccia dell’uomo, era diventata una donna. Non era riuscita a riconoscere tutto ciò che le aveva raccontato la sorella, solo una parte. Da principio si era concentrata, probabilmente troppo per godersela, poi, negli ultimi abbracci, si era abbandonata e aveva finalmente provato potenti emozioni.
Riposavano nudi fianco a fianco, stesi sulla schiena, guardando la luna che appariva dietro il lucernario del tetto. Quella sera il cielo era pieno di stelle come non mai. Tacevano sfiniti cercando di riprendere fiato.
Dapprima beata, man mano che il corpo si rilassava e che il cuore rallentava il battito Mosetta cominciò a pensare che stava per arrivare la parte più difficile: la conversazione. Fino a quel momento si erano solo scambiati qualche mormorio nel villaggio, poi avevano guidato nella notte e appena arrivati si erano subito gettati l’uno sull’altra sul giaciglio improvvisato tra le balle di fieno.
Si sarebbe tradita parlando? Di colpo ne ebbe paura.
Fabien si girò verso di lei, si appoggiò al gomito e si mise ad accarezzarle i fianchi osservandola.
Imbarazzata, Mosetta sorrise. Anche lui sorrise.
«Allora, Mosetta, ti è piaciuto?».
Lei esitò impietrita, poi trovò la forza di emettere una risata che non suonasse falsa.
«Ah ah ah, perché mi chiami Mosetta?».
Per fortuna aveva azzeccato l’intonazione: sembrava di sentire Lily che rideva di una buffa battuta. Così lo ripeté.
«Perché mi chiami Mosetta?».
«Perché sei Mosetta».
«Mosetta è a letto che dorme, come tutte le sere».
Le labbra di Fabien si allargarono in un sorriso caustico.
«Mi prendi per scemo?».
Mosetta rabbrividì, ma si ostinò.
«Vuoi dirmi perché mi chiami Mosetta?».
Fabien si limitò a indicare le macchie scure sulla parte bassa del lenzuolo.
«Non si può perdere la verginità due volte».
Mosetta diventò verde. Tracce di sangue! Nell’ardore degli abbracci non si era quasi resa conto di sanguinare.
«Che vuoi dire?».
«Secondo te cos’è quel sangue?».
Inorridita, capì nello stesso istante quel che era successo e quel che pensava Fabien. Raccolse le gambe contro il petto, infilò il mento tra le ginocchia e si chiuse in se stessa.
Lui ne seguiva i gesti con aria beffarda. Lei, a capo chino, non osava più guardarlo.
«Avevo avuto qualche sospetto» continuò il ragazzo parlando lentamente con voce lasciva. «Poi è arrivata la prova».
«Quando te ne sei accorto?».
Lui fece un’alzata di spalle e, sarcastico, indicò le chiazze brune.
«Abbastanza presto».
«E sei andato avanti?».
«Come te…».
Lei lo guardò sgomenta. Lui strizzò gli occhi e allargò la bocca in un sorriso.
«Possiamo rifarlo quando vuoi».
Mosetta si contrasse. Non le stava bene la piega che aveva preso la scena. Tutto le sfuggiva di mano.
Con un balzo si mise in piedi, prese i suoi abiti e si rivestì in fretta. Impavido, lui rimase nudo.
Quando fu pronta Fabien la afferrò violentemente alle caviglie facendole perdere l’equilibrio, la placcò a terra e la fece scivolare sotto di sé. La sua voce acquistò un timbro metallico.
«Dico sul serio: lo rifacciamo quando vuoi».
«Faresti una cosa del genere a mia sorella?».
«Che cosa?».
«Tradirla!».
«Certo che lo farei. Come del resto hai fatto tu».
Mosetta prese a divincolarsi e tirare calci.
«Maiale! Depravato! Lasciami».
Estasiato dalla sua resistenza, Fabien pesò su di lei, la domò, la immobilizzò. I suoi occhi, a pochi centimetri da quelli della ragazza, divennero feroci.
«Ma sentila, quella che dà lezioni di morale! Prima frega l’uomo alla sorella e poi si indigna!».
«Lasciami».
«Io almeno ho la scusa di averti scambiata per Lily».
Mosetta si voltò dall’altra parte. Lui si girò bruscamente sul fianco lasciandola andare e, impassibile, si vestì.
La gemella si massaggiava i polsi rimuginando sull’umiliazione subita.
Appena pronto, Fabien sembrò accorgersi della ragazza a terra e, galante, le tese la mano per aiutarla a rialzarsi.
«Quando vuoi e dove vuoi».
Lei si tirò in piedi senza replicare. Lui insisté, sfacciato.
«E anche con tua sorella, se la cosa vi stuzzica».
Mosetta uscì dal fienile a passo deciso. Lui le andò dietro fumando.
Seduta sul ciclomotore nella notte ostile e fresca Mosetta si rese conto della trappola in cui si era cacciata. Che avrebbe detto alla sorella? Niente, ovviamente. E se il giorno dopo Fabien le avesse raccontato la loro notte, anche soltanto in parte, come si sarebbe giustificata? Che cosa…
Tremò.
Era un’ingiustizia! Aveva appena provato sensazioni immense, oceaniche, aveva raggiunto la femminilità suprema, e non aveva il diritto di goderne per colpa di quella maledetta di sua sorella! L’orribile Lily! Un veleno, una guastafeste, un essere nocivo, un ostacolo al piacere!
All’entrata del villaggio, subito prima dei lampioni, quando Fabien spense il motore per farla scendere, Mosetta si piantò davanti a lui senza un tremore nello sguardo o nella voce.
«Non dire niente a mia sorella».
«Ah no?».
«Non dire niente o ti sputtano».
«Ah sì?».
«Dirò che ero scesa ad avvertirti che Lily non poteva venire perché era dalla nonna, e che tu mi hai costretta e violentata».
«Ehilà, sembra credibile!».
«E lo è, visto che l’hai ammesso: ti piace il fisico delle sorelle Barbarin. Quindi, per te, l’una o l’altra fa poca differenza…».
Lui storse il naso.
«Secondo te a chi crederà Lily?» continuò lei, aspra. «Alla persona con cui condivide tutto dal primo istante di vita, alla gemella da sempre e per sempre, o all’amichetto di un’estate?».
«Tu…».
Fabien impallidì.
Sentendo che stava vincendo, Mosetta assestò la stoccata finale.
«Del resto non hai motivo di raccontarle la nostra notte. Se ti credesse ti disprezzerebbe, e se non ti credesse ti maledirebbe. L’unica cosa sicura è che in tutti e due i casi la perderesti». …