Sinossi
Un viaggio a due attraverso l’Italia, intrapreso nel periodo più cruento della guerra, e la nascita di un’amicizia speciale.
Roma, aprile del 1944. L’archeologo Filippo Cavalcanti è incaricato dal Ministero di recarsi a Bressanone per controllare gli imballaggi di un carico di opere d’arte destinate alla Germania. Arrivato sul luogo, l’ormai anziano professore conosce Quintino, un intraprendente ragazzo ischitano spedito al confino in Alto Adige. Vista la situazione incerta in cui versa il Paese e il pericolo che minaccia entrambi, i due decidono di scappare insieme per riportare le opere d’arte a Roma. In un avventuroso viaggio da nord a sud, i due uomini, dalla personalità molto diversa, e nonostante la distanza sociale che li separa, avranno modo di conoscersi da vicino e veder crescere pian piano la stima reciproca. Grazie alle capacità pratiche di Quintino e alla saggezza di Cavalcanti, riusciranno a superare indenni diversi ostacoli ma vivranno anche momenti difficili incontrando sulla strada partigiani, fascisti e nazisti, come pure contadini, monaci e gente comune, disposti ad aiutarli nell’impresa. Giunti finalmente a Roma, che nel frattempo è stata liberata, si rendono conto che i pericoli non sono finiti e decidono così di proseguire il viaggio per mettere in salvo il prezioso carico tra imprevisti e nuove avventure.
Paesaggi insoliti, valli fiorite e boschi, risvegliati dall’arrivo di una strana primavera, fanno da sfondo a questa vicenda delicata e toccante, una storia appassionante sul valore dell’amicizia con cui l’autore, ancora una volta, riesce a commuovere ed emozionare.
«Franco Faggiani diffonde serenità e bellezza e ci fa recuperare la voglia di immergerci nella contemplazione della natura e dell’arte».
Luca Mercalli
Su La manutenzione dei sensi hanno scritto:
«La manutenzione dei sensi è il racconto di come cresce il sentimento paterno in un ambiente autentico come quello montano. Il male di vivere, oggi, si cura ad alta quota e la fuga dalla città spesso diventa una salvezza».
Zita Dazzi, «Robinson – la Repubblica»
«Romanzo verissimo, che intreccia amori, progetti e sogni, e che pretende di essere letto».
«Gioia»
Su Il guardiano della collina dei ciliegi hanno scritto:
«Una vicenda epica, solo in parte di fantasia. Un romanzo delicato e profondo con riflessioni che coinvolgono i grandi temi dell’esistenza».
Luigi Ripamonti, «Corriere della Sera»
«Il libro di Franco Faggiani ha il dono – rarissimo – di essere letto e subito amato come un poema sulle imprevedibili pieghe del destino».
Sergio Pent, «TTL – La Stampa»
«Il libro è l’invito a un esercizio spirituale, alla corsa come forma di preghiera, a una mistica della natura».
Filippo La Porta, «Robinson – la Repubblica»
Estratto
Gli diedi una grattatina sotto il mento, tra il pelo fine e setoso. Lui chiuse gli occhi, tendendo le piccole orecchie appuntite all’indietro, e si strusciò contro la mia gamba; poi si ritrasse appena sulle zampe posteriori e fece un balzo improvviso planando sulle mie ginocchia con la leggerezza di un fiocco di neve. Allora lo accarezzai sulla fronte e lui, Kaiser, il gatto nero della Buschenschank, il maso che aveva la grande stanza del piano terra adibita a osteria, si acciambellò e chiuse gli occhi. Proprio come faceva la mia Nenè.
La proprietaria del maso, dove agli scarsi avventori di passaggio venivano serviti a tutte le ore il vino della casa e un’abbondante minestra di orzo e lardo, accennò finalmente una specie di sorrisetto storto, più che altro una smorfia di approvazione. Sebbene io parlassi tedesco come un cittadino di Innsbruck, appena poco al di là del confine con l’Austria, e mi comportassi in maniera educata, ero italiano. Romano per l’esattezza, e Roma era molto, molto a sud di Bolzano, perciò ero automaticamente meritevole della più assoluta, seppur silenziosa, ostilità o, a essere proprio indulgenti, di una malcelata indifferenza. Insomma, Kaiser quella sera ebbe un grande merito: mi rese meno sgradito agli occhi della sua padrona.
Così – con il gatto che ronfava sulle ginocchia, la minestra squisita, Frau Katharina meno arcigna del solito e il calore diffuso dalla stufa –, il tramonto mi sembrò più sopportabile. Avrei cenato ancora una volta in silenzio, poi, con molta calma, mi sarei avviato lungo la strada sinuosa tra i vigneti, poche centinaia di metri fino all’abbazia di Novacella, dove da alcuni giorni avevo affittato una stanza. In realtà, nonostante i buoni uffici di monsignor Bartolomeo Bauer, della Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, agostiniano così come lo erano i monaci di Novacella, mi avevano sistemato in una camera dagli arredi assai spartani e, quel che era peggio, decisamente gelida. Così ogni sera, dopo essermi spogliato a fatica, ero costretto a seppellirmi sotto cinque strati di ruvide coperte fino al mattino successivo, con la speranza di essere svegliato, oltre che dai fastidiosi rintocchi di una piccola campana, anche da un benevolo raggio di sole.
Avevo preso l’abitudine di fermarmi al maso fin dalla seconda sera in cui, dopo un interminabile viaggio in treno, avevo messo piede a Bressanone. C’ero entrato quasi per caso; l’edificio in pietra e legno si trovava lungo la strada che i monaci mi avevano subito indicato per muovermi a piedi nei dintorni dell’abbazia; aveva inoltre un aspetto solido e un’insegna che prometteva una buona cucina casalinga. Ma soprattutto, scrutando attraverso lo spiraglio tra le tendine di una finestra, avevo notato un tavolo libero accanto a una grande stufa di maiolica verde che, proprio in quel momento, Frau Katharina stava caricando con dei bei ciocchi di legna da ardere.
Non c’era niente di più invitante di un posto caldo in quell’inizio di aprile del ‘44, che non ricordava affatto il debutto della primavera ma piuttosto la coda ancora guizzante dell’inverno. Da nord la sera soffiava un vento gelido e anche di giorno il freddo mi sembrava decisamente pungente. Forse perché, a Roma, l’inizio della primavera ero abituato ad assaporarlo dalle finestre aperte che davano sul piccolo giardino interno del caseggiato in cui abitavo, col sole che entrava nella stanza consentendomi di vedere in controluce le prime foglie tenere, quasi trasparenti, di un tiglio.
A scaldarmi la pancia, quando rimanevo in poltrona e, tra le tegole e i comignoli della casa di fronte, osservavo i merli andare a caccia delle lucertole affacciate dai loro stretti nascondigli, provvedeva Menelik, che mi ero portato a casa da una campagna di scavi a Adulis, a sud di Massaua, in Eritrea. Menelik era chiamato affettuosamente Nenè perché, sebbene avesse un nome importante, quello del grande imperatore etiope, era in realtà una gatta. Austera, a tratti selvatica e indomabile, sfoggiava un pelo morbido e fitto di un colore simile a quello di una lepre: marrone fin sulla punta della coda. Nenè, ogni volta che mi lasciavo andare in quella poltrona davanti alla finestra attraversata dal tepore del sole, con un balzo silenzioso ed elegante mi finiva in grembo e lì, dopo essersi stiracchiata le zampe e aver inarcato la schiena per qualche istante, si concedeva profondi pisolini e si guadagnava prolungate carezze. Lei era la mia unica compagnia, in quella grande casa di famiglia ormai piena solo di stanze vuote.
Da quando ero partito per venire quassù, a due passi dall’Austria, andava Artemio, il portinaio, a darle da mangiare. Senza però mai vederla, come al solito, perché lei se ne sarebbe rimasta nascosta e guardinga fin quando lui non fosse uscito dall’appartamento tirandosi dietro la pesante porta.
Artemio, che da quando era diventato vedovo dedicava la sua vita a quella dei condomini, meglio se benestanti, era da almeno sei mesi la mia principale fonte di sostegno. Non tanto perché accudiva la gatta quando io ero via, ma perché riusciva molto spesso a procurarmi quello che serviva per vivere in un periodo molto complicato.
L’11 settembre 1943 il feldmaresciallo Kesselring aveva dichiarato Roma zona di guerra e il 22 gennaio 1944 gli alleati erano sbarcati ad Anzio, dove si erano però fermati per riorganizzare le fila prima di puntare a nord, con l’obiettivo di prendere la capitale. Ma in città tutto era degenerato il 24 marzo, il giorno dopo l’attentato di via Rasella; era scattato un inarrestabile susseguirsi di arresti, di fucilazioni, di azioni di guerriglia, specie nelle borgate, e di repressioni violente. La quotidianità si era trasformata in caos anche per chi, come me, se n’era sempre stato defilato: niente più gas, luce, possibilità di muoversi liberamente per la città. Nelle vie strette intorno a casa mia, a Campo Marzio, non c’era più niente e non passava più nessuno; c’erano solo negozi vuoti, in abbandono o distrutti da rappresaglie dimostrative, per fare in modo che la paura si trasformasse in terrore. Anche uscire di casa per cercare di procurarsi qualcosa da mangiare era un grosso rischio. Un mio vicino, un notaio galantuomo, poco prima che io partissi venne pestato ferocemente proprio sotto il portone da due suoi conoscenti, solo per rubargli una busta di pasta e un sacco di patate mezze ammuffite che era riuscito a trovare chissà dove, spendendo chissà quanti soldi.
Non capivo se Artemio fosse astuto, fortunato, avventato o avesse contatti privilegiati, ma, in mezzo ai disagi e ai pericoli, riusciva ancora a ricevere con una certa regolarità da Pozzaglia, il suo paese d’origine nascosto tra i boschi della Sabina, formaggi, salami, pane, olio, verdure fresche e, ogni tanto, anche della carne di pecora, oltre a qualche sacco di carbone per cucinare. Non avrei saputo dire se Artemio mi rifornisse perché mi doveva ricambiare per alcuni vecchi favori, per stima o per i soldi che gli passavo senza battere ciglio, ma grazie a lui negli ultimi mesi ero riuscito a mettere in tavola qualcosa di nutriente e spesso anche di gustoso.
Tutto questo fin quasi al termine di marzo, quando, un po’ a sorpresa, il mio direttore al Ministero dell’Educazione nazionale, l’esimio professore Alberico Musmeci, mi aveva fatto chiamare per dirmi che sarei dovuto partire in missione. «Per Bressanone», aveva detto puntando l’indice sulla carta geografica appesa a una parete del suo ufficio, come se fosse stato un posto in capo al mondo.
A dir la verità, del vecchio e glorioso Ministero restava ben poco, solo qualche polveroso ufficio di scansafatiche, gente che girovagava da una stanza all’altra a cianciare di politica, del regime, del re, dei comunisti, di che fine avevano fatto certi dirigenti che non si erano fatti più vedere da un giorno all’altro. Anche io, per molti, ero una figura aliena. Anni prima, quando era arrivata l’età del mio pensionamento e mi ero già rassegnato a una vita di solitari studi accademici, i miei superiori mi avevano chiesto, pregandomi quasi, di rimanere al mio posto. Perché ero ancora una figura di spicco, ben nota nel mondo archeologico internazionale, «un fulgente esempio», proprio così avevano detto. E io, per vanità e per interesse, avevo accettato, senza sapere che ben presto sarei finito come un biglietto da visita sgualcito sul fondo di un cassetto.
Inoltre, da qualche tempo, nessuno sapeva più da che parte stare. Avevamo ormai due organismi contrapposti, uno a nord, a Padova, dunque nella Repubblica di Salò, e uno a sud, nella Salerno liberata, dove s’era installato il governo Badoglio. E noi, una manciata di logori funzionari senza più arte né parte, eravamo stati abbandonati al centro, per dare testimonianza che Roma fosse ancora una capitale artistica e culturale, ma con le stanze dei musei e delle pinacoteche sempre più vuote e con ormai nessun’altra attività che non fosse quella di firmare inutili carte.
Era da un po’ di tempo che Musmeci non si faceva vivo con me. Forse si sentiva in imbarazzo per la mia ultima “presa di posizione professionale”, chiamiamola così. Io e il professore eravamo stati a lungo amici e al Ministero ero stato per molto tempo anche il suo diretto superiore. Entrambi avevamo svolto con soddisfazione il lavoro di archeologi, per il quale avevamo ricevuto pure degli encomi pubblici e ci eravamo meritati articoli sulle pagine dei quotidiani; lui si era rivelato un eccellente catalogatore di opere, tuttavia, detto senza mezzi termini, ero stato io a fargli fare carriera al Ministero. Le cose avevano cominciato ad andare storte nel momento in cui, dalle alte sfere, quei personaggi che frequentavano più la politica che i siti archeologici e le grandi esposizioni ci avevano chiesto, anzi, ordinato, di aderire, addirittura con una cerimonia pubblica, al partito fascista.
«Neanche per idea», avevo ribadito apertamente più volte, e lui, Musmeci, aveva sempre cercato di frenare il mio istinto. «Filippo, non opporti, ti prego. Cerca di ragionare. Se non rispetti gli ordini superiori rischi di bruciarti in un attimo la carriera. Ti cacceranno via, tu che sei una colonna dell’archeologia italiana, un professore, uno stimato dirigente, non…».
«Alberico, lascia stare. Ti ringrazio per i consigli, ma in mezzo a questa gentaglia in camicia nera non vuole starci nemmeno la mia ombra».
Grazie alla magnanimità e, per certi versi, al senso di gratitudine del professor Musmeci, diventato d’incanto responsabile del dipartimento, un mese e mezzo dopo mi ero ritrovato in un sotterraneo del palazzo, o meglio, in un sottoscala angusto e polveroso, a stampare con il ciclostile moduli che nessuno avrebbe mai utilizzato e norme che qualcuno avrebbe subito modificato. Era stato il massimo che il mio collega fosse riuscito a ottenere per me, per permettermi di incassare un piccolo stipendio, ottocentotrenta lire al mese. Ben poca cosa rispetto a quanto avevo guadagnato come archeologo in missione e come dirigente ministeriale, ma in qualche modo dovevo pur vivere. Non in banca, fortunatamente, ma in casa, avevo nascosto una buona scorta di denaro, risparmi di anni, mantenuta intatta in previsione di tempi peggiori che, come avevo intuito, sarebbero arrivati e di cui non si scorgevano i confini.
Con Musmeci i rapporti si erano rapidamente raffreddati; ci eravamo persi di vista pur continuando a lavorare nello stesso immenso edificio, ma su piani e tra arredi ben diversi. Non lo odiavo e nemmeno lo biasimavo; probabilmente anch’io nelle sue condizioni familiari – sei figli in età scolare ossuti come attaccapanni, una moglie cagionevole di salute e pure gli anziani genitori di lei a carico – avrei aderito al fascismo senza esitazione. Lui in fondo era sempre stato un brav’uomo, studioso, gentile, mansueto, persino eccessivamente ossequioso – anche se Artemio diceva che è proprio la gente così che, con il passaggio di casacca, diventa pericolosa –, e se avesse rifiutato avrebbe fatto patire molte persone a lui vicine. Io, invece, vivevo da solo e avrei potuto tirare la cinghia senza far soffrire nessuno.
Dunque, il 27 marzo mi aveva fatto chiamare, e io ero riemerso dallo scantinato per andare a incontrarlo in quello che era stato il mio ufficio. Lo avevo trovato sprofondato nella mia vecchia poltrona di pelle, e mi ero messo quasi sull’attenti, proprio davanti a lui.