“Neve d’ottobre” di Angela Nanetti edito da NERI POZZA disponibile in tutte le librerie e on-line. Estratto

Quanti segreti nasconde il rimorso? Quali segni indelebili lascia l’antico episodio di un padre che alza le mani sul figlio, di uno schiaffo che provoca una caduta?
 Giulio è inquieto, insofferente alle regole, un sognatore timido, spaventato. Ama le sue montagne del Trentino dove cerca una libertà che nessuno gli ha insegnato. E la sua vita sarà sempre lontana da qualcosa: da un padre potente, severo e ambiguo, da una madre debole, da un fratello indifferente. Attraversa la seconda guerra mondiale in modo spavaldo e inconsapevole, osservandola da lontano. Finisce in un orribile collegio dove gli studenti vengono molestati, ma riesce a fuggire. Torna tra le sue montagne e cerca l’amore, ma senza saperlo riconoscere, e tantomeno capire. Vorrebbe un equilibrio ma non sa tenerlo con sè. Intanto arriva l’Italia del boom industriale, del futuro per tutti, ma Giulio è sempre là, tra il maso e la montagna, sempre altrove, sempre a cercarsi un tempo in cui nascondersi.
Angela Nanetti, con una scrittura cesellata e asciutta, disegna una mappa della solitudine, i confini di un uomo di poche parole e di silenzi sofferti. Un personaggio così intenso da sentirselo addosso, pagina dopo pagina. La storia di un’esistenza che è rinuncia, rassegnazione, stupore.
Neve d’ottobre è un perfetto esempio di come la letteratura possa farsi vita più della vita stessa, fino alle pagine finali, quando tutto è scritto e nessuno è più capace di assolversi. Resta soltanto quel rimorso lontano, che unisce vittime e carnefici, a testimoniare il peso del destino, che non riscatta nessuno, a cominciare dagli innocenti.

«Ma un abbraccio, quando? Non ne avevo memoria e forse non c’era mai stato. Forse non accadeva tra fratelli, o tra fratelli come noi, che avevamo smesso di esserlo troppo presto».

Hanno detto de Il figlio prediletto:

«Storie dolorose, di solitudine, di ricerca di sè stessi, in cui Angela Nanetti si muove con malinconica levità». Ermanno Paccagnini, La Lettura – Corriere della Sera

«Un romanzo capace di sondare magnificamente le pieghe dell’animo umano». La Stampa

Attraversò senza voltarsi il cortile ghiaioso sul retro della casa e scavalcò la recinzione, poi prese a salire a grandi passi. Il prato montava per un tratto lentamente, ricoperto in giugno dalla fioritura multicolore del fieno e ora da un’erba giallastra che scricchiolava sotto i piedi. Un declivio dolce, che si avvallava all’improvviso, così che la sua casa spariva come per magia e di lei rimaneva soltanto il tetto di tegole grigie, con la frangia di legno intagliato lungo la grondaia. Una specie di fungo mostruoso, che dopo pochi passi veniva ingoiato dalla terra.

In inverno, prima che la neve lo ricoprisse, il tetto si arricchiva di ghiaccioli, ora, nella nebbia di quella giornata novembrina, stillava gocce che cadevano con un ticchettio intermittente sul marciapiede e suo fratello, la faccia schiacciata contro il vetro, le contava. Giulio poteva immaginarlo anche in quel momento. Lo aveva lasciato promettendogli di tornare entro un’ora, alle cinque, e gliel’aveva indicata sulla pendola del salotto. Vittorio aveva cinque anni, conosceva i numeri fino a venti e gli piaceva contare. Era un bambino tranquillo e lui gli stava insegnando a essere coraggioso. Se non piangeva fino al suo ritorno e non diceva a nessuno che lo aveva lasciato solo, in aprile lo avrebbe portato a vedere la tana della faina: in aprile ci sarebbero stati i piccoli. E poi si trattava di un’ora soltanto e i suoi genitori erano andati alla Casa del Fascio a festeggiare l’arrivo del nuovo podestà, avrebbero fatto tardi.

Sul fondo dell’avvallamento correva un rivolo d’acqua, dove le mucche degli Zelter scendevano ad abbeverarsi. Il maso Zelter, uno dei più grandi della zona, era in alto sulla destra, nascosto dalla costa, e quelli che dal ruscello si inerpicavano fino al bosco erano i loro prati. Peter e Andrea lo aspettavano dietro il grande ginepro che macchiava di nero il prato: un luogo sicuro per i loro incontri, perché i pascoli in quella stagione erano deserti. Da lontano scorse tra i rami il biondo pallido della treccia di Andrea, poi vide affacciarsi il suo profilo e quindi la faccia e le guance arrossate dal freddo. Il cuore gli diede un balzo.

«Arriva!» gridò Andrea nel suo duro dialetto e Peter gli corse incontro.

«La faina è finita in una trappola!» ansimò.

«Quella che sta preparando il nido?» Peter annuì.

«Dobbiamo liberarla».

Lui fece una faccia spaventata. «È una trappola che ha messo mio padre, se mi scopre mi ammazza».

«Lo faccio io, mi devi solo accompagnare».

Joseph Zelter sistemava le trappole, uccideva le faine e le scuoiava. Diceva che facevano danni al pollaio. Poi appendeva le pelli al filo della biancheria, dove la moglie metteva ad asciugare le calze e le mutande di Andrea. Una volta, che si era nascosto tra il fieno per  sbirciarle e sentire tra le gambe il calore misterioso che la vista gli procurava, Giulio si era imbattuto in quel bucato sanguinante e la notte aveva avuto gli incubi.

La tagliola era nascosta sotto uno strato di paglia, sparsi qua e là i frammenti del guscio di un uovo che nello spasmo il corpo aveva schiacciato. La piccola faina giaceva sul fianco, la zampa anteriore in una posizione innaturale: digrignava i denti o forse rideva, forse era già morta.

“Vigliacco” pensò Giulio.

Lui amava quella faina in modo speciale, quasi quanto amava Andrea, l’aveva incontrata nel bosco tante volte, e lei aveva preso il cibo dalle sue mani. Fu colto da una sorta di disperazione e incominciò a scavare tra la paglia finché non scoprì la trappola: le aveva stritolato le anche. In quel momento Peter lanciò un grido sordo e balzò in piedi: Joseph Zelter era davanti a loro, gli stivali imbrattati di sterco e una forca in mano. Diede un ordine secco ai figli, un calcio leggero alla faina e ignorò Giulio, si girò e risalì il pendio. Peter e Andrea lo seguirono, senza uno sguardo né un cenno di saluto.

«Maledetti crucchi!» urlò Giulio con tutto il fiato che aveva in gola. Ma erano già lontani.

1.

Dopo la caduta mio fratello diventò un altro. Talvolta fissava il vuoto e pareva non sentire, poi si riscuoteva con una specie di sbalordimento, come uno strappato dal sonno all’improvviso. Passava da uno stato di quiete e di silenzio a una irrequietezza che non gli dava tregua e si esprimeva con un tic nervoso delle palpebre e con eccessi dell’intero corpo, disarticolato e scomposto. Se costretto in casa era un prigioniero senza pace, se lasciato libero ritornava dopo ore e ore. E aveva perso ogni interesse per me. Quando mi portava con sé era solo per fare contenta mia madre e dopo molte preghiere, ma spesso si dimenticava della mia presenza e mi abbandonava. Dovevo essere io a inseguirlo e a chiamarlo:

«Giulio, aspettami!»

Nemmeno il bosco dietro casa sembrava attirarlo più come una volta: saliva per i prati fino ai pascoli degli Zelter e si aggirava al margine degli alberi senza inoltrarsi troppo, quasi fosse intimorito. Al suo ritorno mia madre, che lo spiava ogni tanto dalla finestra della nostra camera, lo abbracciava stretto in silenzio. Lui la lasciava fare con una specie di apatia, forse riconoscendole il merito di quella libertà che gli veniva concessa e che s’interrompeva il sabato, con l’arrivo di mio padre. Una volta mi lasciò solo nel bosco per alcune ore, accadde quando avevo circa sette anni e Giulio dodici o tredici. Mi aveva portato con sé per  mostrarmi la tana di un tasso scoperta da poco, ma non riusciva a trovarla e incominciò ad agitarsi:

«Siediti qui e aspettami» mi disse. «Torno subito».

«E se viene qualche animale?»

«Gli animali di questo bosco non sono pericolosi, gli uomini sono cattivi».

«Come il signor Zelter?»

«Sì».

«E anche il babbo?»

Non rispose, mi fece sedere ai piedi di un albero e sparì. Per un po’ lo intravidi tra i cespugli e i tronchi, e sentii i fruscii delle foglie mosse dal suo bastone, poi più niente. Ritornò dopo un lungo tempo, stravolto. Forse si era dimenticato di me, forse si era allontanato troppo: era un autunno avanzato e io tremavo per il freddo e piangevo di paura. Lui mi prese in braccio senza parlare e mi portò fino all’uscita del bosco. Ansimava, ricordo ancora le gocce di sudore che gli colavano sul viso e la cicatrice sulla testa, gonfia e rossa per lo sforzo, che sembrava sul punto di esplodere. Non si giustificò, non cercò scuse al suo comportamento: quando arrivammo ai prati mi mise a terra e disse soltanto: «Qui non ci veniamo più». E mantenne la promessa.

Dopo un paio di mesi dalla caduta incominciarono i mal di testa e il dottor Kostner, che lo aveva in cura, gli prescrisse il laudano per calmarli.

«Un cucchiaino» disse a mia madre, «e solo alla bisogna».

Il dottor Kostner era un tedesco di Amburgo, trapiantato in quei luoghi per colpa del suo romanticismo maledetto, come amava dire: durante una vacanza si era innamorato di una cameriera dell’Hotel Mayer, Rebecca Cori, e dopo quattro mesi l’aveva sposata. Rebecca era ebrea, figlia di un rabbino di città, ed era finita tra le montagne per sfuggire alle leggi razziali. Aveva anche cambiato il cognome, lei si chiamava Coen, e il dottor Kostner la sposò sperando di salvarla, ma non ci riuscì. Finì a Birkenau nel ’44, e lui la seguì. Fu il nuovo podestà, quello che i miei genitori erano andati a festeggiare il giorno in cui la faina cadde nella trappola di Joseph Zelter, a denunciarla. Si chiamava Alimonti ed era stato segretario del Fascio in un paese del senese.

«È un uomo tranquillo» disse una volta mio padre, «non è una testa calda. Di lui ci si può fidare».

Mio padre non amava le teste calde e in generale quelli che agivano d’impulso ed erano imprevedibili. Forse per questa ragione mostrava nei confronti di mio fratello una insofferenza impaziente, che si tramutava facilmente in scoppi di ira, e una aperta simpatia per me, così docile e ragionevole, così pronto a compiacere ogni sua richiesta. 

foto presa dal web

Angela Nanetti è nata a Budrio (Bologna) e si è laureata in Storia medievale. Ha insegnato nelle scuole medie e superiori di Pescara, dove risiede. Dal 1984 a oggi ha pubblicato più di venti romanzi per ragazzi, molto dei quali premiati in Italia e all’estero. È tradotta in 25 Paesi. Il bambino di Budrio (Neri Pozza, 2014) è arrivato finalista alla prima edizione del Premio Neri Pozza e ha vinto il Premio Terriccio, riconoscimento al romanzo storico.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"