Trama
La vigilia di Natale, una tempesta di neve blocca un treno nella campagna inglese. Mr. Maltby, un anziano signore poco loquace e alquanto misterioso, afferra il suo bagaglio e si dilegua nella fitta nevicata, inseguendo, così è sembrato ad alcuni passeggeri, un’indistinta macchia biancastra apparsa all’improvviso oltre iil finestrino. Nell’incertezza della situazione, tra le deboli rassicurazioni del controllore e la crescente frustrazione per l’attesa che si prolunga, altre quattro persone decidono di abbandonare il convoglio e di raggiungere a piedi la vicina stazione di Hemmersby. Dopo molto girovagare, tra campi innevati, insidiosi fossati e false piste, ormai allo stremo delle forze e delle speranze, i quattro personaggi si imbattono in una grande casa isolata e all’apparenza disabitata, nonostante il camino sia acceso e la tavola sia imbandita per il tè. Ma i nuovi arrivati non fanno in tempo ad ambientarsi che ecco giungere a Valley House Mr. Maltby assieme a uno strano figuro di nome Smith, il quale ha tutta l’aria di essere un avanzo di galera… Inizia così Morte nella neve, un giallo dalle atmosfere sinistre, ricco di colpi di scena e di rivelazioni repentine. Fra ritratti che sembrano animarsi, urla nella notte, lettere misteriose, porte cigolanti, cadaveri nella neve e assassini armati di coltello e martello… Un lungo brivido corre tra le pagine di questo classico della Golden Age della detective fiction inglese.
Estratto
1
Il treno bloccato nella neve
La grande nevicata iniziò la sera del 19 dicembre. I negozianti, tornando a casa in tutta fretta, sorridevano tra sé al pensiero di un «bianco Natale». Ma le loro speranze si spensero quando accesero la radio e sentirono la voce impersonale di un annunciatore della BBC avvisare che dal Nord-Ovest dell’Irlanda si stava implacabilmente avvicinando un anticiclone; e il 20 le temperature si alzarono, trasformando la neve in pioggerella e il bel manto bianco in fanghiglia marrone.
«Quest’anno niente!» sospiravano i sentimentali, arrancando tristemente nella melma. Ma il 21 la neve ritornò, stavolta per davvero. Il marrone si ammantò di nuovo di bianco, i rumori del traffico si attutirono. Le impronte delle ruote, dei passi e di ogni altra cosa svanivano subito dopo il loro formarsi. Per la gioia dei sentimentali.
Nevicò tutto il giorno e tutta la notte. Il 22 stava ancora nevicando. Le palle di neve volavano e i pupazzi spuntavano dappertutto. Perfino i bambini più scettici tornarono a credere alle favole, e gli adulti più inaciditi si sentivano una specie di Babbo Natale, finendo per comprare più regali del previsto. La sera, la voce dell’annunciatore, viaggiando attraverso l’infinito etere bianco, informava milioni di persone che altra neve era in arrivo; ormai, dell’anticiclone dal Nord-Ovest dell’Irlanda si erano perse le tracce.
E altra neve arrivò. Fluttuava nell’aria, sgorgando dalla sua sorgente senza limiti come la schiuma di un enorme estintore. I netturbini, ansiosi di passare al raccolto, aspettavano invano che la nevicata cessasse. E la gente cominciava a chiedersi se sarebbe mai cessata.
Il fenomeno iniziò a varcare i confini locali. Il 23 era ancora una notizia, il giorno dopo divenne un disagio. La gente pragmatica imprecava, e anche i sentimentali si domandavano come avrebbero portato a termine i loro programmi. Il traffico andò in tilt, le auto e i bus si persero nel nulla. Gli operai delle ferrovie lottavano contro i cumuli di neve. Il pensiero del disgelo, e della grande sfida che portava con sé, divenne sempre più preoccupante.
Eppure, un anziano, prolisso signore, che insieme a una mezza dozzina di altri passeggeri occupava una carrozza di terza classe sul treno delle 11.37 proveniente da Euston, rifiutava di allarmarsi. Infatti, benché il treno si fosse fermato in un punto non previsto e rischiasse di restare lì a lungo, lui ridicolizzava l’intera faccenda con l’irritante superiorità tipica dell’uomo di mondo.
«Bah, se vuole sapere cos’è davvero la neve» commentò, rivolto alla signorina accanto a lui, «dovrebbe andare nello Yukon».
«Ah sì?» mormorò lei, docile.
Era una ballerina di fila, e i suoi viaggi si erano sempre limitati alle città di provincia. La sua destinazione attuale era Manchester, e con quel tempo pareva quasi irraggiungibile.
«Ricordo che una volta, a Dawson City, nevicò per un mese intero» proseguì il fanfarone, mentre il giovane seduto dall’altra parte pensava: «Santo cielo, ricomincia?». «Era nel 1899. Anzi no, nel ’98. Be’, o l’uno o l’altro. All’epoca ero un ragazzino, non ne potevamo più di tutta quella neve!».
«Be’, anch’io non ne posso più!» sbottò la ballerina, piegando la testa verso il finestrino. Tutto ciò che vide fu un’enorme cortina di fiocchi bianchi. «Quanto dovremo stare qui ad aspettare, secondo voi? Sarà un’ora che siamo fermi, ormai».
«Trentaquattro minuti» la corresse il giovane slanciato seduto di fronte, dando un’occhiata al suo orologio da polso. Il suo volto ormai non era più butterato, ma un tempo aveva dovuto esserlo. Il suo aspetto malaticcio era dovuto in parte all’atmosfera malsana dell’ufficio nello scantinato in cui lavorava e in parte a una febbre incipiente. Avrebbe dovuto mettersi a letto.
«Grazie» disse la ballerina sorridendo. «Vedo che bisogna stare attenti quando lei è in giro!».
Il commesso accennò un lieve sorriso. Era colpito dalla bellezza della ragazza, una bionda-platino dura e pura. Una splendida persona da portare fuori a cena, se uno avesse il coraggio di farlo. Pensava che l’anziano sbruffone avrebbe avuto il coraggio, notando le fugaci occhiate maliziose che lanciava tra una sparata egocentrica e l’altra. Pensò addirittura
che la ballerina avrebbe accettato l’invito. C’era qualcosa di vulnerabile in lei, qualcosa che il suo aspetto cercava di mascherare. Ma il giovane impiegato era ancora più colpito dall’altra ragazza che occupava la carrozza, seduta dall’altro lato dello sbruffone. Portare leifuori a cena avrebbe suscitato ben più di un brivido momentaneo, avrebbe fatto perdere la testa a chiunque. Era vestita di nero, slanciata e flessuosa (la ballerina, invece, era piuttosto minuta). Lui era sicuro che giocasse bene a tennis, che nuotasse e cavalcasse. Se la immaginò al galoppo nella brughiera, mentre si librava sopra alte staccionate con il fratello che cercava inutilmente di raggiungerla. Questi era seduto nell’angolo opposto al suo. Si capiva che erano fratelli dalla loro conversazione, ma anche dalla loro somiglianza. Si chiamavano David e Lydia.
Lydia seguitò a parlare: «Stiamo superando il limite!» esclamò. La sua voce suonava calda e profonda. «Perché non chiediamo di nuovo al controllore se c’è qualche speranza di muoverci da qui entro giugno?».
«Gliel’ho chiesto io dieci minuti fa – rispose lo sbruffone. – E non ripeterò quello che mi ha detto!».
«Non è necessario – sbadigliò David. – Riusciamo a immaginarlo».
«Già, temo che ci servirà un bel po’ di immaginazione stanotte! – trillò la ballerina. – Io devo immaginare di essere a Manchester!».
«Davvero? Dovremmo immaginare di essere a una cena di Natale, invece – Lydia sorrise – e poi di dormire su letti di piume. A proposito, se ci tocca restare qui tutta notte spero che la compagnia ferroviaria vorrà fornirci almeno le borse dell’acqua calda». A un tratto i suoi occhi incrociarono quelli dell’impiegato. Vi scorse tutta la sua ammirazione e ne fu lieta. «E lei, cosa vorrebbe immaginare?» chiese. La nevicata eccezionale, unita alla tipica giovialità natalizia, aiutava tutti a sciogliere la lingua. L’anziano sbruffone, dal canto suo, non ne aveva alcun bisogno.
L’impiegato arrossì, benché le sue guance fossero già arrossate dalla febbre.
«Eh? Oh… mia zia» rispose scherzoso.
«Be’, se è come la mia, è meglio lasciarla all’immaginazione!» disse Lydia, scoppiando a ridere. «Ma probabilmente non è così».
La zia dell’impiegato non era come quella di Lydia. Era ancora più esasperante. Eppure, il suo zelante nipote andava a trovarla regolarmente, in parte per il proprio interesse finanziario e in parte perché aveva un debole segreto per le persone sole.
Per un po’ sulla compagnia scese il silenzio. L’unica a cui sembrava pesare era la ballerina. Una strisciante inquietudine le tormentava l’anima, e in seguito avrebbe dichiarato con sicurezza di essere stata la prima a presagire inconsciamente i foschi eventi che stavano per accadere. «Insomma, che diamine, mi sentivo agitata – avrebbe detto – e non ho idea del perché, non era ancora successo nulla, fino a quel momento il vecchio signore seduto nell’angolo non aveva ancora aperto bocca. Non credo che avesse nemmeno mai aperto gli occhi, poteva anche essere morto. E, badate bene, era proprio davanti a me! Alcuni mi dicono che sono una specie di sensitiva».
Ma le sue vaghe premonizioni non si concentravano solo sull’attempato signore nell’angolo. Anche lei aveva notato le occhiatine maliziose dell’anziano sbruffone che, come sapeva benissimo, non era poi così vecchio da non pensare a lei in un certo modo. Aveva notato anche l’attenzione dell’impiegato per le sue gambe, e la studiata indifferenza per un simile volgare interesse da parte dell’altro giovane. Jessie Noyes era ben consapevole della sua avvenenza ed esserlo, diceva, faceva parte del suo mestiere. Era consapevole del suo potere ma anche di quanto fosse limitato, e questo, nonostante qualche brivido di piacere, segretamente la spaventava ed era fonte di dispiacere. Che bello sarebbe stato conquistare un uomo interamente e per sempre, anziché essere solo un assaggio effimero! Tuttavia, non si intristiva troppo. Era una donna ansiosa, irrequieta e appassionata. Così è la vita…
Ora, spinta dall’inquietudine e da un silenzio che trovava insostenibile, esclamò a un tratto: «Bene, andiamo avanti! Ora tocca agli altri! Che cosa vorrebbe immaginare lei?» la domanda era rivolta, non molto saggiamente, al fanfarone.
«Io? Immaginare? – rispose. – Non credo che sia una mia consuetudine, quella di immaginare. Prendere le cose come sono, belle, brutte, indifferenti: è questo il mio motto. È una cosa che si impara quando si è girato il mondo in lungo e in largo come ho fatto io».
«Forse io ho qualcosa di più interessante» disse il vecchio nell’angolo, aprendo gli occhi all’improvviso.
Non era né morto né addormentato. In realtà, aveva ascoltato ogni parola pronunciata da quando il treno era partito da Euston alle 11.37, e questa eventualità era parsa un po’ inquietante a più d’uno dei passeggeri che ora lo fissavano. Non che ci fosse qualcosa che non avrebbe dovuto sentire; ma un uomo che ascolta a occhi chiusi – occhi che poi, una volta aperti, si rivelano così vivaci, come piccole torce capaci di illuminare oggetti invisibili agli altri –, non è esattamente il miglior calmante per chi ha già i nervi a fior di pelle.
«La prego, signore» disse David dopo una breve pausa. «Inventi una bella storia per noi, le nostre sono terribilmente noiose».
«Ma la mia è interessante senza bisogno di inventarla – replicò il vecchio – e anzi, aggiungerei che mi pare piuttosto appropriata alla stagione. Sto andando a intervistare re Carlo I».
«Davvero? Con o senza testa?» chiese David cortesemente.
«Confido che l’abbia – rispose il vecchio. –
Mi dicono che sia abbastanza integro. Dobbiamo incontrarci in una vecchia dimora a Naseby. Francamente, però, non nutro molte speranze che l’intervista si terrà davvero. Carlo I potrebbe fare il timido, o rivelarsi solo un nobiluomo qualsiasi che si nasconde da Cromwell e Fairfax. Dopo trecento anni l’identità tende a farsi un po’ confusa». L’uomo sfoggiò un sorriso cinico. «Oppure, forse… non est. Potrebbe essere semplicemente il frutto dell’immaginazione di alcune persone isteriche che credono di averlo visto in giro. Ma ovviamente» aggiunse, dopo aver passato la lingua sulle labbra sottili, «c’è qualche possibilità che si aggiri davvero da qualche parte. Sì, sì, se quel monarca troppo calunniato e troppo glorificato visitasse davvero quella dimora nel giorno della sua caduta, e se le pareti della casa avessero custodito qualche episodio drammatico che io posso far conoscere al mondo, be’, sarebbe una pagina interessante da aggiungere alla nostra storia».
«Non mi prenda per una persona sgarbata – intervenne Lydia – ma lei crede veramente in queste cose?».
«Cosa intende esattamente per “queste cose”?» chiese il vecchio, in tono di disapprovazione. Allora lo sbruffone scese sul campo di battaglia.
«Spettri e fantasmi! – grugnì. – Puah! Sono tutte sciocchezze! Io ho visto il trucco della corda indiana… e l’ho smascherato subito! A Rangoon, nel ’23».
«Spettri e fantasmi» ripeté il vecchio, riservando ora all’altro la sua disapprovazione. Dal corridoio, in lontananza, risuonò la voce del controllore, smorzata ma subito riconoscibile.
«Uhm… le parole sono ingannevoli. L’unico vero linguaggio è quello senza parole, e questo spiega perché, signore, alcune persone che ne usano troppe non capiscono niente».
«Prego?».
«Ora, se lei con la sua espressione “spettri e fantasmi” intende emanazioni coscienti, come fossero prosecuzioni dell’esistenza fisica capaci di funzionamento autonomo e di natura semi-terrena, be’, allora probabilmente non credo a niente del genere. Alcuni non sarebbero d’accordo con me, e io rispetto le loro opinioni. Tuttavia, ritengono che lei, signore, sia destinato a esistere eternamente in una forma o nell’altra. Forse è un pensiero un po’ deprimente. Ma se con “spettri e fantasmi” lei si riferisce a emanazioni ricreate da un’acuta sensibilità o da un’intelligenza fuori dal comune a partire dall’inesauribile serbatoio del passato, allora io ci credo. Inevitabilmente».
L’anziano sbruffone fu messo temporaneamente al tappeto. E così la ballerina. Ma i due fratelli, ansiosi di essere messi al corrente di ogni sviluppo del pensiero progressista, anche solo per screditarlo, e dotati di carattere sufficiente per parare i colpi altrui, erano incuriositi.
«Per riassumere il tutto in due parole – disse David – intende dire che è possibile rievocare il passato?».
«Rievocare non è il termine giusto – rispose il vecchio. – Suggerisce qualcosa di magico, e nel processo di cui parlo non c’è nulla di magico. Noi possiamo rivelare, esporre, il passato. Il passato è qualcosa di inestirpabile».
«Bah!» esclamò lo sbruffone. Non gli piaceva essere messo all’angolo. Ma l’altro si piegò verso di lui per completare l’opera.
«Che cos’è un disco suonato al grammofono se non una registrazione del passato?» chiese, dando un colpetto al ginocchio del fanfarone. «Caruso è morto, ma oggi possiamo ancora ascoltare la sua voce. E non si tratta di invenzione, ma di scoperta, e se la scoperta fosse avvenuta trecento anni fa ora non dovrei andare a Naseby per ascoltare la voce di Carlo I – se mai potrò ascoltarla. Ma la natura non aspetta le nostre scoperte. È una cosa di cui molti si dimenticano. Le sue onde sonore, le onde luminose, le onde del pensiero, le onde emotive – per menzionare solo quelle che rientrano nei limiti ristretti dei nostri sensi e delle nostre umane percezioni – viaggiano senza sosta, alcune senza interruzioni, altre temporaneamente imprigionate nelle ostruzioni in cui esse stesse finiscono per insinuarsi. Lì possono diminuire fino a esercitare influenze trascurabili, oppure – si badi bene – possono essere sprigionate di nuovo. Le onde catturate, tuttavia, non sono che semplici frammenti della loro fonte originaria. Potenzialmente, tutto ciò che è esistito, qualsiasi cosa generata dai sensi, può essere ricreata dai sensi. Per fortuna, signore, non ci sarà nessuna registrazione
della sua imprecazione di poco fa; nondimeno, oltre al labile segno che lascia nella nostra memoria, il suo “bah” si propagherà per l’eternità».
Lo sbruffone, in modo abbastanza sorprendente, rinunciò a lottare, nonostante lo scontro avesse preso l’aspetto di un duello all’ultimo sangue.
«Ecco allora un altro “bah” per tenergli compagnia!» sbottò.
«Non credo che lei debba temere per la solitudine delle sue parole» replicò l’anziano signore.
Joseph Jefferson Farjeon (1883-1955) nacque a Londra in una famiglia di scrittori, musicisti e attori. Autore prolifico e celebrato, oltre a romanzi gialli e racconti ha scritto lavori teatrali – tra cui Number Seventeen, portato sullo schermo da Alfred Hitchcock nel 1932 – e sceneggiature, tra cui quella del film My Friend the King, di Michael Powell. Tra i suoi libri più noti ricordiamo The Fancy Dress Ball e Death in the Inkwell. In Italia sono stati tradotti Gli omicidi della «Z» e La casa dei sette cadaveri.