“L’ultima canzone del Naviglio” di Luca Crovi edito da Rizzoli. Estratto.

Trama

Gennaio 1929. Mentre il Generale Inverno assedia Milano e la avvolge di bianco, il pugno di ferro della milizia fascista cala sulla città che sta cambiando da un giorno all’altro. Automobili invadono le strade, vicoli cedono il posto ai boulevard e il Naviglio interno soccombe sotto le nuove coperture in pietra. Ma non tutti piegano il capo. Alla Scala Arturo Toscanini si rifiuta di eseguire gli inni al re e al duce convinto di dover suonare ben altra musica. Nei vecchi quartieri i “bravi ragazzi” della mala meneghina rispondono agli sgherri di Mussolini. E nella questura di piazza San Fedele il commissario Carlo De Vincenzi non si lascia ingannare da chi vuole depistarlo. Una donna è stata trovata cadavere davanti alla Colonna del Diavolo, vicino alla basilica di Sant’Ambrogio, e il caso rischia di compromettere alcuni membri del Partito. La successiva morte di un barcaiolo, che sta trasportando un ultimo carico di carta verso il Tombon de San Marc, prima dell’interramento del Naviglio, sembra a tutti un incidente. Ma non a De Vincenzi, e nemmeno ai malnatt della ligéra che della gran Milan conoscono l’anima e la lingua segreta. Dopo “L’ombra del campione”, Luca Crovi rimette in scena un’icona del giallo italiano, il celebre poliziotto creato da Augusto De Angelis tra i Trenta e i Quaranta, componendo il canto del cigno di un mondo al tramonto, di una variopinta umanità che affrontava la vita con coraggio e sbeffeggiava il potere con una risata.

Estratto

A Paris gh’è la Senna e ’l Danubi l’è blu
ma a Milan gh’è el Navili e poeu pù.
GIOVANNI D’ANZI e ALFREDO BRACCHI

«Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione. La vita nelle nostre grandi città è tutta pervasa di uno spirito nuovo di realizzazione e potenza.»

Dalla Relazione ufficiale dell’Amministrazione di Milano del 1929
stilata per far approvare la chiusura del Naviglio

Uno spiciulista alla Milano-Sanremo

«Lassa sta la spiciula, slandrun.»

Il ragazzo non sembrava sentire.

L’uomo ribadì il concetto: «Uè, gandula, fa no el pirla e lassa sta la spiciula».

Il giovane era già montato sul sellino della bici.

«Ehi, che vuoi fare?» Il ciclista lasciò cadere la borraccia dalla quale stava sorseggiando l’acqua raccolta alla fontana proprio davanti al cimitero di Musocco.

Il ragazzo si era messo a pedalare a tutta velocità.

«Malnatt d’un malnatt, se ti prendo ti concio per le feste!» Il ciclista provò a inseguirlo per un po’, ma il ladro andava spedito. All’uomo mancò il fiato a metà del viale e dovette fermarsi. La tenuta da corsa di certo non lo alleggeriva. Indossava un’ampia maglia che gli copriva le braccia. Un enorme pettorale con il numero 28 scritto in nero gli serrava il torace. Lunghi calzoni gli fasciavano le gambe. Era una protezione destinata a ripararlo dal freddo durante la prima parte della giornata, almeno fino a quando non avesse raggiunto il punto di rifornimento di Ovada, davanti al Caffè Trieste, dove era previsto che i ciclisti si sarebbero cambiati, togliendosi gli abiti pesanti usati per l’avvio della corsa. Lì avrebbero sostituito le loro biciclette con altre dotate di rapporti più agili e adatte ad affrontare il passo del Turchino.

Ma chi l’avrebbe spiegato ai suoi compagni di squadra che si era fatto soffiare la spiciula da un gandula? Chi li avrebbe avvisati che lui alla partenza della Milano-Sanremo non ci sarebbe stato?

Sconsolato, tornò verso la fontana, raccogliendo la borraccia. Era un semplice gregario, non era un velocista e nemmeno uno scalatore, gli altri corridori della Maino avrebbero compensato in qualche modo la sua assenza.

Quel 2 aprile 1922, alla partenza della Milano-Sanremo i partecipanti furono solo sessantasette. Si mossero tutti insieme alle 6.25 dal Naviglio Pavese. La pioggia li costringeva a viaggiare compatti in gruppo. Ogni tanto, le poche macchine dei giornalisti al seguito della corsa sollevavano fango e terriccio disturbando i concorrenti che, dopo qualche minuto, si trovarono bagnati e ricoperti di polvere marrone. Il regolamento vietava il cambio ruote anche fra compagni di squadra. Perciò i ciclisti dovevano stare molto attenti a non bucare e su un percorso così lungo era un’impresa difficile.

I pronostici vennero rispettati, le squadre della Bianchi e della Legnano dettero il meglio. Ma ci fu una sorpresa nel finale.

Giovanni Brunero tagliò il traguardo col tempo di dieci ore, quattordici minuti e trentuno secondi. Ma a duecento metri dall’arrivo un addetto alla sicurezza aveva rischiato di negargli la vittoria. L’uomo si era trovato in mezzo alla strada proprio durante il passaggio dei ciclisti. Lanciato in volata, Brunero lo aveva evitato per pochi centimetri, mentre Costante Girardengo, che stava rimontando dietro di lui, lo aveva centrato in pieno. Girardengo era arrivato nero al traguardo. La polvere lo ricopriva da capo a piedi e sul volto gli si leggeva la rabbia. Solo trenta concorrenti portarono a termine la Milano-Sanremo.

Intanto, il lader stava festeggiando con una bella michetta ripiena di salame e con un bicer de latt. Aveva scoperto di possedere un talento naturale per quei furti in destrezza. E così era diventato uno spiciulista (la ligéra ciamava inscì i lader de biciclett). Il ragazzo sapeva già dove piazzare la Maino da corsa in quel di Baggio e non aveva nemmeno dovuto trattare sul prezzo. A Milano era facile rivendere una bici. La passione per la velocità era entrata da tempo nei cuori della gente, insieme all’amore per le spiciule ma anche per le gumade che sfrecciavano veloci sulle strade. Di quelle i malnatt bucavano le gomme. Erano troppo ingombranti per rubarle, e rivenderle era pressoché impossibile. Ma erano il simbolo dei ricchi e della loro prepotenza. Capaci di sfidare le leggi della dinamica, le automobili costringevano i tram a deviare dai loro percorsi e si vociferava che, prima o poi, avrebbero modificato anche il tracciato del Naviglio.

Una città che profuma di benzina

“El sarà vera fors quell ch’el dis lu,che Milan l’è on paes che mett ingossa,che l’aria l’è malsana, umeda, grossa,e che num Milanes semm turlurù.”

Quando c’era da parlare male di Milano, gli veniva sempre in mente l’inizio di una poesia di Carlo Porta. I versi spiegavano come la città lombarda fosse una sorta di paese che trasmetteva una lieve angoscia, dove l’aria era malsana, umida, grossa, e dove i milanesi sembravano un po’ dei tontoloni, dei tarlucchi. Così era solita dirgli la sciura Maria Ballerini. Perché la gente di Milano, quella sincera come la portinaia e i suoi figlioli, aveva un cuore che in altri posti d’Italia se lo potevano scordare. E tutti quelli che prima o poi venivano a visitarla o ad abitarci finivano immancabilmente per accorgersene.

Il commissario Carlo De Vincenzi l’aveva capito subito. E aveva capito pure che a chi lasciava la città, dopo averci vissuto per qualche tempo, restava appiccicata una strana sensazione. Una sorta di mal d’Africa che si sussurrava se ciamass nostalgia de Milan.

In quei giorni di settembre del 1922, però, la Gran Milan pareva aver perso di colpo ogni difetto e ogni possibile motivo di nostalgia per assumere una forma tecnologica. La folla che l’aveva riempita era incredibile. Secondo i giornali l’avevano invasa più di diecimila auto.

Il commissario Carlo De Vincenzi non ne aveva mai viste tante tutte insieme. All’inizio, mentre le osservava sfilare, aveva persino pensato che fossero frutto di un’illusione. Ma quando l’intenso odore del carburante bruciato dai nuovi veicoli aveva invaso prima il centro e poi la periferia, allora il commissario si era convinto che fosse tutto vero.

Quei bolidi di diverse fogge, guidati da una varia umanità, erano accorsi a Milano per il Gran Premio che si sarebbe svolto all’autodromo di Monza. Gli alberghi all’ombra della Madonnina erano stati letteralmente invasi dagli appassionati della velocità e De Vincenzi aveva letto sul “Corriere della Sera” un brillante corsivo dedicato all’incredibile “Festa delle macchine” iniziata sabato 9 settembre.

Al sole che aveva preceduto la gara seguirono violenti temporali. Tuttavia, il cambiamento repentino del tempo non impedì a più di centomila persone di accalcarsi fino all’inverosimile nell’autodromo di Monza.

Seduto alla scrivania del suo ufficio nella questura di piazza San Fedele, De Vincenzi si divertì a leggere come le sensazioni che aveva provato in quei giorni passeggiando per le strade fossero state percepite in maniera altrettanto netta: “Milano restava ugualmente vertiginosa di forestieri. Ogni ora scaglionava per la città nuove carovane di automobili: treni ordinari e speciali riversavano ondate di gente. Nei vagoni, negli alberghi, nei ristoranti, la legge fisica sull’impenetrabilità dei corpi veniva trionfalmente battuta come tante altre leggi meno fisiche. Nelle conversazioni si incrociavano frasi tecniche, nomi di eroi del volante, odori di pneumatici. Si accendevano discussioni sull’alesaggio, sui due litri di cilindrata, sui tre litri del conto da pagare in albergo, sulla velocità a centinaia di chilometri all’ora. 

Si aveva l’impressione che prima di mettersi a parlare si dovesse innestare il cambio e dare dei segnali di tromba”.

Il clacson urlante di un’automobile che transitava sotto la questura fece sobbalzare il commissario De Vincenzi. Il poeta del crimine, l’uomo che tutti i giorni doveva affrontare i malnatt della ligéra ma anche altri tipi di ladri e assassini, si avvicinò alla finestra e la aprì.

«Uè, ciula, varda la strada!» L’autista di una Fiat stava apostrofando in maniera brutale un ragazzotto su una bicicletta che si trovava a pochi centimetri dal parafango della macchina. Il giovane era pallido di spavento.

De Vincenzi pensò di scendere per dire quattro parole a quell’uomo così arrogante. Ma quando si ritrovò in strada non c’era più traccia né dell’auto né della bici. Alle narici del poliziotto arrivò un acre odore di benzina.

Un’ombra per il Diavolo Rosso

Quel giorno il Diavolo Rosso trionfò in pista.

Dietro al soprannome non c’era niente di diabolico. Lo aveva coniato un giornalista americano notando che il pilota Pietro Bordino non saliva mai sulla sua Fiat senza l’immancabile maglione vermiglio. Un’incredibile portafortuna per le sue gare.

E così, mentre osservava sfrecciare il bolide guidato dal campione italiano durante la Duecentocinquanta Miglia di Los Angeles del 1921, il commentatore sportivo Lambert Sullivan aveva pensato che “Diavolo Rosso” fosse la definizione migliore per descrivere Bordino, visto l’effetto che quel colore faceva sugli spettatori, convinti che un demone stesse correndo sul circuito.

Il nomignolo pareva portare fortuna a Bordino, che sorrideva orgoglioso quando lo sentiva pronunciare. Ci fu un’occasione, però, che i quotidiani non menzionarono in alcun modo. Durante la vittoria all’autodromo di Monza, il 10 settembre 1922, i giornalisti evitarono l’uso di quell’immagine mefistofelica perché il risultato agonistico della giornata venne in parte oscurato da alcuni misteriosi eventi che sembravano odorare di zolfo e di truffa.

Quella che avrebbe dovuto essere una festa in onore della velocità e della modernità si trasformò infatti nell’oggetto di interminabili polemiche. Eppure, tutto avrebbe dovuto essere magnifico e perfetto in quel giorno in cui si inaugurava il più grande e innovativo spazio dedicato alle corse automobilistiche in Italia.

Per realizzare l’autodromo c’erano voluti tremilacinquecento operai, duecento carri a cavallo, trenta autocarri, due locomotive con ottanta vagoni, una linea ferroviaria Decauville di cinque chilometri. Nel febbraio del 1922 l’Automobile Club di Milano aveva dato inizio ai lavori ottenendo l’assegnazione di quattordici chilometri di terreno all’interno del parco di Monza. Il progetto prevedeva la spesa vertiginosa di ben sei milioni di lire.

Il 26 febbraio i piloti italiani Vincenzo Lancia e Felice Nazzaro avevano simbolicamente dato il via alla costruzione del tracciato assestando alcuni colpi di vanga e piccone per dissodare il terreno assieme agli operai.

Ma la gioia per gli amanti della velocità che si immaginavano già le meraviglie di quella pista era durata poco. Due giorni dopo era arrivato da Roma un severo veto ministeriale che bloccava i lavori. La costruzione dell’autodromo rischiava di minare il valore artistico e monumentale della zona compromettendo la conservazione del patrimonio ambientale del parco di Monza. Era come se il territorio di proprietà dell’Opera nazionale combattenti fosse stato violato dagli appassionati delle gare automobilistiche.

Il sottosegretario alla Pubblica istruzione, onorevole Lo Piano, ordinò di sospendere i lavori, diramando il seguente comunicato: “La Commissione conservatrice dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte della Provincia di Milano ha preso in esame i progetti relativi alla costruzione nel Parco, già Reale, di Monza di un circuito stradale per corse automobilistiche… ed ha espresso il suo voto recisamente contrario a trasformazioni e modificazioni che utilizzando il Parco stesso a scopi diversi da quelli cui fu originariamente destinato ne limiterebbero l’uso da parte del pubblico… Si finirebbe per deturpare e distruggerne le naturali bellezze… in una zona che per avere interesse storico ed artistico rientra tra quelle soggette a tutela e vigilanza. Qualora i lavori fossero già stati iniziati la Prefettura è invitata a ordinarne l’immediata sospensione”.

Sui giornali si accesero le polemiche e i lavori vennero interrotti. Solo alla metà di aprile, sotto la pressione di alcune petizioni il ministero si era persuaso della necessità di realizzare il nuovo impianto sportivo. Così la situazione era stata impugnata con coraggio dall’Automobile Club che aveva dato vita alla Società incremento automobilismo e sport con l’obiettivo di realizzare un’impresa che sembrava impossibile.

L’ Autore

Luca Crovi è redattore alla Sergio Bonelli Editore, dove cura le serie del commissario Ricciardi e di Deadwood Dick. Collabora con diversi quotidiani e periodici, ed è autore della monografia Tutti i colori del giallo (2002) trasformata nell’omonima trasmissione radiofonica di Radiodue. Per Rizzoli ha pubblicato L’ombra del campione (2018).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"