“L’imprevedibile Venetia” di Georgette Heyer edito da Astoria (estratto)

 

Uno dei personaggi più affascinanti e divertenti di Georgette Heyer, Venetia Lanyon è una giovane donna cresciuta in totale isolamento a causa di un padre freddo e distante, che anni prima, alla morte della moglie, aveva deciso di rinchiudersi con i figli nella tenuta di, campagna. Sua unica compagnia i libri, il fratello minore Aubrey, sempre immerso nello studio, e un grande senso dell’umorismo. Giunta ai venticinque anni, Venetia immagina per sé un futuro solitario: da un lato i corteggiatori noiosissimi e dall’altro l’indipendenza economica le fanno ritenere che non sposarsi possa essere la soluzione migliore. All’improvviso però nella sua vita precipita lord Damerel, vicino di tenuta e libertino dalla reputazione orribile, con cui Venetia condivide da subito il senso dell’umorismo e la passione per discussioni argute.

Estratto

Presentazione

Uno dei personaggi più affascinafnti e divertenti di Georgette Heyer, Venetia Lanyon è una giovane donna cresciuta in totale isolamento a causa di un padre freddo e distante, che anni prima, alla morte della moglie, aveva deciso di rinchiudersi con i figli nella tenuta di campagna. Sua unica compagnia i libri, il fratello minore Aubrey, sempre immerso nello studio, e un grande senso dell’umorismo.

Giunta ai venticinque anni, Venetia immagina per sé un futuro solitario: da un lato i corteggiatori noiosissimi e dall’altro l’indipendenza economica le fanno ritenere che non sposarsi possa essere la soluzione migliore. All’improvviso però nella sua vita precipita lord Damerel, vicino di tenuta e libertino dalla reputazione orribile, con cui Venetia condivide da subito il senso dell’umorismo e la passione per discussioni argute.

L’imprevedibile Venetia è considerato da sempre uno dei migliori romanzi di Heyer, perché travolge il lettore con dialoghi frizzanti, battute folgoranti e osservazioni acutissime sulla società ottocentesca.

Georgette Heyer (1902-1974) ha scritto più di cinquanta romanzi, prevalentemente ambientati nell’epoca della Reggenza (1811-1820). Era leggendaria per le sue ricerche, l’accuratezza storica e i suoi intrecci e personaggi. Il suo costante successo nell’arco di mezzo secolo la conferma come un fenomeno letterario unico nella letteratura inglese del Novecento, più volte assimilata a Jane Austen o Charles Dickens per la precisione maniacale nella ricostruzione di ambienti, atmosfere e gergo del diciannovesimo secolo, e ammirata da scrittori del calibro di A.S. Byatt, Margaret Drabble, Anthony Burgess e India Knight. Il piacere nel leggerla è rimasto intatto negli anni e i suoi lettori possono trovare informazioni dettagliate su di lei e la sua opera sul sito georgette-heyer.com. astoria ha finora pubblicato Sophy la GrandeLa pedina scambiataUna donna di classeIl dandy della ReggenzaL’anello e Il tavolo del faraone.

Capitolo 1

“La notte scorsa una volpe si è introdotta nel pollaio,” osservò la signorina Lanyon, “e ha rubato la migliore tra le chiocce: una bisnonna! Una vera vergogna!” Non ricevendo risposta, continuò mutando voce: “In verità, di che vergognarsi! Un’autentica tragedia! Come porvi rimedio?”.

La frase attirò l’attenzione del suo compagno, che sollevò lo sguardo dal libro aperto accanto a sé e le rivolse un’occhiata distrattamente curiosa: “Che cosa avete detto? Parlavate con me, Venetia?”.

“Sì, mio caro,” annuì gaiamente sua sorella, “ma non aveva molta importanza e in ogni caso mi sono risposta a nome vostro. Vi stupirebbe sapere quali interessanti conversazioni io abbia con me stessa.”

“Leggevo.”

“Così mi era parso… e avete lasciato raffreddare il caffè e non avete finito la fetta di pane imburrato. Mangiatela, ve ne prego! Sono certa che non dovrei permettervi di leggere a tavola!”

“Alla tavola della prima colazione? Provate a impedirmelo!”

“Non ci riuscirei, questo è certo. Che cosa state leggendo?” aggiunse guardando di sfuggita il volume. “Oh, è greco! Senza dubbio una storia altamente edificante.”

Medea,” replicò lui con severità. “L’edizione curata da Porson prestatami dal signor Appersett.”

“Sì, conosco la storia! Quella creatura adorabile che tagliò a pezzi il fratello e ne depose i resti di fronte al padre. Una persona davvero ammodo, una volta che la si conoscesse bene.”

Lui scrollò le spalle con sprezzante impazienza: “Non capite ed è inutile cercare di spiegarvi”.

“Oh, no,” ribatté lei con gli occhi ridenti, “capisco benissimo! E mi sento molto vicina a lei: vorrei possederne la forza di carattere! Ma i vostri miseri resti, mio caro, li avrei probabilmente seppelliti per benino nell’orto!”

La battuta strappò un sorriso al giovane, ma prima di immergersi nuovamente nella lettura si limitò a commentare che il padre, dopo averle ordinato di fare così, non avrebbe dedicato ulteriore attenzione alla cosa.

Rassegnata ormai alle abitudini del fratello, Venetia rinunciò ad attirarne l’attenzione. La fetta di pane imburrato – quella mattina non aveva voluto altro cibo – giaceva sul piatto consumata soltanto a metà, ma protestare sarebbe stato vano e chiedergli notizie sulla sua salute sarebbe valso soltanto a irritarlo.

Era un ragazzo sottile, minuto, d’aspetto tutt’altro che sgradevole, ma con un viso maturo e segnato ben più di quanto comportasse la sua età. Determinarla sarebbe stato arduo per un estraneo giacché l’esilità del suo corpo era smentita dal viso e dai modi. Aveva appena compiuto diciassette anni, ma la sofferenza fisica gli aveva segnato il volto e la costante compagnia di persone più adulte di lui, unita a un’intelligenza tanto profonda quanto erudita, lo aveva reso precoce. Una disfunzione all’articolazione dell’anca gli aveva impedito di frequentare Eton, dove aveva studiato il fratello Conway di sei anni maggiore di lui; e il disturbo (o, come a volte pensava Venetia, la varietà di cure cui era stato sottoposto) gli aveva reso una gamba più corta dell’altra. Quando camminava, zoppicava in modo assai evidente; e per quanto si trattasse ormai di un processo chiuso, la gamba lo faceva ancora soffrire quando il tempo era umido o quando si stancava troppo. Gli sport che rallegravano tanto suo fratello gli erano negati, ma cavalcava assai bene ed era un ottimo tiratore: lui soltanto sapeva, e Venetia intuiva, con quanta amarezza considerasse la sua infermità.

Un’adolescenza trascorsa in forzata inerzia aveva accentuato in lui la naturale inclinazione allo studio. All’età di quattordici anni, se non aveva superato il suo precettore nella cultura lo aveva certo superato nella capacità di comprendere, e quella degna persona si era resa conto dell’esigenza di un insegnamento più vasto di quello che egli era in grado di impartire. La fortuna voleva che quest’esigenza potesse venire facilmente accontentata: titolare della parrocchia era uno studioso di notevoli capacità che da lungo tempo aveva seguito, con pensoso entusiasmo, i progressi di Aubrey Lanyon. Questi si offrì di preparare il ragazzo per l’ingresso a Cambridge e sir Francis Lanyon, lieto di non dover introdurre in casa propria un nuovo precettore, aveva accettato; Aubrey, ormai in grado di cavalcare, trascorse da allora gran parte del tempo alla parrocchia, intento a consultare testi nella buia biblioteca del reverendo Julius Appersett e ad assorbire avidamente le vaste cognizioni di quel garbatissimo professore, convincendolo sempre di più delle proprie qualità. Era già stato ammesso al Trinity College, dove sarebbe entrato nel settembre dell’anno successivo, e il reverendo Appersett si diceva certo che, a dispetto della sua giovane età, avrebbe avuto una brillante carriera universitaria.

Né sua sorella né il fratello maggiore ne dubitavano. Venetia sapeva che Aubrey possedeva un’intelligenza superiore, e Conway, splendida tempra di sportivo per cui scrivere una lettera rappresentava una fatica intollerabile, guardava il fratello con profondo timore e una punta di compatimento. Una brillante carriera universitaria gli appariva un’ambizione assai bizzarra, ma si augurava che Aubrey vi riuscisse, dal momento che (come fece osservare a Venetia) cos’altro poteva fare il povero ragazzo se non appassionarsi ai libri?

Quanto a lei, Venetia pensava che vi si appassionasse troppo e che – ancora tanto giovane – desse chiari segni di voler diventare un recluso come era stato loro padre. In quel momento era in vacanza, giacché Appersett si trovava a Bath, convalescente da una grave malattia, e veniva sostituito da un cugino. Quale ragazzo non avrebbe gettato via i libri per impadronirsi di una canna da pesca? Ma Aubrey li portava con sé anche a tavola e lasciava che il caffè si freddasse mentre sedeva, l’ampia fronte delicata posata su una mano, lo sguardo fisso sulla pagina stampata, la mente tanto assorta nella lettura che lo si poteva chiamare e chiamare all’infinito senza ottenerne risposta. Né veniva sfiorato dal sospetto che tanta dedizione lo rendesse un compagno assai poco gradevole. Venetia era vivamente consapevole della cosa, ma avendo compreso da tempo che Aubrey era egoista quanto il padre o il fratello, ne accettava l’atteggiamento con perfetta serenità continuando a nutrire per lui un affetto scevro dall’amarezza della delusione.

Di nove anni maggiore del fratello, Venetia era la prima dei tre figli sopravvissuti di un proprietario terriero dello Yorkshire, di antica nobiltà, notevole ricchezza e abitudini eccentriche. La perdita della moglie, avvenuta quando Aubrey era ancora nella primissima infanzia, aveva indotto sir Francis a rinchiudersi nella sua dimora, distante circa quindici miglia da York, e a rimanervi, sovranamente indifferente al benessere dei figli, rinnegando la compagnia degli altri esseri umani. Venetia non poteva fare a meno di pensare che egli fosse già per natura incline alla solitudine, poiché le era impossibile credere che una condotta tanto stravagante traesse origine da un cuore infranto. Sir Francis era uomo di grande orgoglio, ma di scarsissima sensibilità, e che il suo matrimonio fosse stata un’unione ideale era una garbata finzione che Venetia, dotata di una mente troppo acuta, non poteva accettare. Aveva,della madre, ricordi sfocati, ma tra questi vi erano violenti litigi, porte sbattute, penose crisi isteriche. Ricordava la camera da letto profumata, nella quale le era consentito recarsi per ammirare lady Lanyon vestita per un ballo a Castle Howard; ricordava un bel viso scontento; molti abiti costosi; una cameriera francese; ma non un solo istante di tenerezza materna. Senza dubbio alcuno, lady Lanyon non aveva condiviso l’amore del marito per la vita di campagna. A primavera quella coppia male assortita si recava a Londra; in estate a Brighton; e una volta tornati a Undershaw, non passava molto tempo prima che sua signoria si sentisse oppressa dal tedio; quando poi l’inverno assediava lo Yorkshire, lei non poteva sopportare i rigori del clima e si metteva in viaggio, accompagnata dal riluttante consorte, per recarsi in visita da amici. Non era pensabile che un’esistenza tanto frivola rispondesse ai desideri di sir Francis, e tuttavia, quando un male improvviso aveva stroncato lady Lanyon, ne era parso distrutto, incapace di sopportare la vista del ritratto di lei o di ascoltarne il nome.

I suoi figli crebbero nel deserto che lui aveva creato: solo Conway, entrato in fanteria dopo gli studi a Eton, era fuggito verso un più vasto orizzonte. Venetia e Aubrey non erano mai andati oltre Scarborough e le loro conoscenze si limitavano alle poche famiglie la cui dimora fosse nei pressi del Maniero.* Né l’uno né l’altra se ne lagnavano, Aubrey perché temeva il contatto con le altre persone, Venetia perché non era nella sua natura farlo. Una sola volta si era sentita sconsolata: quando – aveva allora diciassette anni – sir Francis non le aveva permesso di recarsi a Londra, dalla zia paterna, per essere presentata in società. Le era parso molto duro, e aveva pianto. Ma una breve riflessione era bastata a convincerla dell’irrealizzabilità del progetto: non poteva affidare Aubrey, un fragile ragazzetto di otto anni, alle sole cure della balia, giacché le premure di quella degnissima creatura lo avrebbero condotto alla follia. Si era dunque asciugata le lacrime e aveva accettato la realtà. Sir Francis non era poi irragionevole: non le permetteva di recarsi a Londra, ma non aveva obiezioni contro i balli a York, o a Harrogate, quando lady Denny o la signora Yardley la invitavano a prendervi parte; e la invitavano sovente, la prima per gentilezza d’animo, la seconda costretta dall’ostinatissimo figlio. Né Venetia poteva tacciare il padre di avarizia: non discuteva mai le spese di casa, le concedeva una somma più che discreta e, con stupore di lei, le lasciò, alla sua morte, una ricca rendita.

Sir Francis era morto improvvisamente tre anni prima, un mese dopo la gloriosa vittoria di Waterloo, per un attacco di cuore. I figli ne erano rimasti turbati, non addolorati. “Al contrario,” aveva affermato Venetia scandalizzando la mite lady Denny; “in verità, viviamo molto meglio senza di lui.”

“Mia cara!” Sua signoria era giunta al Maniero per stringersi teneramente al cuore gli orfani in pianto. “Siete sconvolta!”

“No davvero!” aveva replicato Venetia ridendo. “Via, signora, quante volte voi stessa lo avete definito un padre snaturato?”

“Ma è morto, Venetia!”

“Sì, e non credo che ora ci ami più di quanto ci amasse in vita. Non ha mai fatto alcuno sforzo per conquistarsi il nostro affetto, non può certo pretendere che noi ne piangiamo la morte.”

Lady Denny, incapace di trovare un risposta, l’aveva pregata di non parlare così e si era affrettata a chiederle che cosa intendesse fare. Tutto dipendeva da Conway. Fino a quando non fosse ritornato a casa a prendersi cura della sua eredità, lei poteva soltanto continuare come prima. “Ora,” aveva aggiunto, “avrò la possibilità di ricevere gli amici, una cosa assai gradevole: papà permetteva soltanto a Edward Yardley e al dottor Bentworth di varcare la soglia di casa.”

Tre anni erano passati, Venetia attendeva ancora il ritorno del fratello, e lady Denny aveva ormai rinunciato a lagnarsi dell’egoismo di Conway che lasciava alla sorella il peso delle sue responsabilità. Nessuno si era stupito quando per la prima volta lui aveva ritenuto impossibile tornare in Inghilterra; tutto doveva essere indicibilmente confuso in Belgio e in Francia e i reggimenti inglesi dolorosamente impoveriti dalle perdite di una battaglia cruenta come Waterloo. Ma i mesi passavano, e di Conway giunse notizia soltanto in una lettera scribacchiata alla sorella per assicurarle che riponeva la più completa fiducia nella capacità di lei di occuparsi di Undershaw, e prometterle che avrebbe scritto di nuovo quando avesse avuto maggior tempo. A questo punto nessuno nutriva più alcun dubbio sul fatto che la prolungata assenza del giovane fosse dovuta non tanto al suo senso del dovere quanto alla riluttanza ad abbandonare un’esistenza che, dai racconti dei visitatori all’esercito di occupazione, pareva fatta soprattutto di balli e partite a cricket. Quando se ne avevano avute notizie l’ultima volta, Conway aveva avuto la fortuna di venir assegnato allo Stato maggiore di lord Hill ed era di stanza a Cambray. Non poteva scrivere più a lungo perché si attendeva l’arrivo del duca di Wellington e si preparava una parata seguita da un pranzo, il che impegnava molto lo Stato maggiore. Era certo che la sorella avrebbe compreso perfettamente e restava il suo affezionatissimo fratello Conway. P.S. Non so di quale campo parliate… Fate quello che Powick ritiene opportuno.

“E per quanto lo riguarda,” commentò tragicamente lady Denny, “Venetia può trascorrere tutta la sua esistenza a Undershaw e morire zitella!”

“È assai più probabile che sposi Edward Yardley,” rispose prosaicamente lord Denny.

“Non ho nulla contro Edward Yardley – senza dubbio una degnissima persona! – ma ho sempre detto e sempre dirò che per lei sarebbe gettarsi via! Oh, sir John, se soltanto il nostro caro Oswald avesse dieci anni di più!”

A quel punto la conversazione prese bruscamente una direzione diversa: il cattivo genio di sir John lo spinse ad augurarsi che una ragazza di tale leggiadria avesse tanto buonsenso da non gettare neppure un’occhiata al più sciocco e vanesio puledrino dell’intera contea. Ed era gran tempo – aggiunse – che lady Denny desistesse dall’incoraggiare Oswald a rendersi ridicolo con i suoi assurdi atteggiamenti melodrammatici: Venetia venne dunque dimenticata in un vivace scambio di opinioni contrastanti.

Nessuno avrebbe negato che Venetia fosse una ragazza assai graziosa; molti non avrebbero esitato a definirla bella. A Londra, tra le debuttanti, avrebbe certo attratto l’attenzione; ma nell’ambiente assai più ristretto in cui viveva era considerata incomparabile. A suscitare ammirazione non erano soltanto la grandezza e la luminosità degli occhi, o l’opulento splendore dei capelli dorati, o la curva incantevole della bocca; vi era nel suo viso un fascino che nulla doveva alla perfezione dei lineamenti: una dolcezza, uno scintillio di irresistibile umorismo, uno sguardo insolitamente aperto, privo di timidezza o affettazione.

E ora, mentre guardava Aubrey, perso nei secoli passati, quella luce divertita le scintillò negli occhi: “Aubrey! Mio caro, detestabile Aubrey, volete prestarmi orecchio un attimo? Proprio soltanto un orecchio, credetemi!”.

Nello sguardo di lui si rifletté il sorriso della sorella: “No, se si tratta di qualche cosa che mi è particolarmente sgradita!”.
“Non lo è! Soltanto, se intendete uscire a cavallo, abbiate la bontà di chiedere all’ufficio postale se è arrivato un pacco per me da York. Un pacco piccolissimo, mio caro Aubrey, per nulla ingombrante, sul mio onore!”

 

“Lo farò volentieri… se non si tratta di pesce! Se è pesce, mandate Puxton.”

“No, mussola… perfettamente ineccepibile!”

Aubrey si era alzato e si era incamminato verso la finestra trascinando la gamba: “È troppo caldo per uscire, ma forse andrò… Oh, niente forse, andrò di certo e senza indugio! Entrambi i vostri spasimanti, mia cara, sono qui per una visita mattutina!”.

“No! Non un’altra volta!” esclamò Venetia in tono implorante.

“Stanno risalendo a cavallo il viale. E Oswald è dannatamente imbronciato.”

“Vi prego, Aubrey, non siate sciocco! Quello è il suo sguardo tenebroso. Sta meditando occulti crimini, immagino, e pensate quanto debba essere scoraggiante sapere che i propri foschi pensieri vengono scambiati per un attacco di cattivo umore!”

“Quali occulti crimini?”

“Mio caro, come posso saperlo? E come potrebbe saperlo lui stesso? Povero ragazzo! È soltanto colpa di Byron! Oswald non riesce a decidere se debba assomigliare a sua signoria o al Corsaro di sua signoria. In entrambi i casi ciò è fonte di grande turbamento per lady Denny. È convinta che soffra di una forma di intossicazione e continua a pregarlo di prendere polveri medicamentose.”**

“Byron!” esplose Aubrey scrollando spazientito le spalle. “Non capisco come possiate leggere roba del genere!”

“Naturalmente non lo capite, amor mio… e vorrei non lo avesse capito neppure Oswald. Quale pretesto avrà trovato Edward per la sua visita? Di certo non ci sarà stato un altro matrimonio nella famiglia reale né altre elezioni generali!”

“Perché mai deve pensare che queste sciocchezze ci interessino!” E Aubrey si allontanò dalla finestra. “Intendete sposarlo?”

“No… oh, non saprei! Certo sarebbe un buon marito, ma per quanti sforzi faccia non riesco a provare altro che stima nei suoi confronti,” rispose Venetia con comica disperazione.

“E perché mai vorreste provare altro?”

“Perché devo pure sposare qualcuno! Conway lo farà, e che cosa sarà allora di me? Non voglio continuare a vivere qui, trasformandomi malinconicamente in una zia… e non lo vorrebbe neppure la mia sconosciuta cognata!”

“Potete vivere con me! Io non mi sposerò, e non mi sareste di alcun disturbo: non mi siete mai di disturbo!”

Negli occhi di lei apparve uno sguardo ridente, ma si limitò ad assicurargli con gravità che gliene era assai grata.

“Sarebbe una soluzione migliore del matrimonio con Edward.”

“Povero Edward! Lo detestate tanto?”

“In sua presenza,” sorrise con amarezza Aubrey, “non dimentico mai di essere zoppo.”

Fu allora che qualcuno osservò, di là dalla porta: “Nel salottino? Oh, non è necessario che mi annunciate: conosco la strada!”.

“E detesto quel suo conoscere la strada!” aggiunse Aubrey.

“Anch’io, credetemi! Non c’è scampo!” convenne, voltandosi per ricevere i visitatori.

Entrarono due gentiluomini assai diversi: il meno giovane, un uomo d’aspetto sicuro sui trent’anni, faceva strada con l’aria di chi non dubita di essere il benvenuto; il più giovane, un ragazzo di diciannove anni, lo seguiva con un’insicurezza che una leggera ostentazione di arroganza non valeva a nascondere.

“Buongiorno, Venetia! E a te, Aubrey!” esclamò Edward Yardley stringendo loro la mano. “Che gran dormiglioni siete! Temevo di non trovarvi a casa in una giornata come questa ma sono venuto pensando che forse Aubrey avrebbe gradito pescare nel mio lago. Sei d’accordo, Aubrey? Puoi pescare senza scendere dalla barca, evitando ogni sforzo.”

“Vi ringrazio, non avrei molta fortuna con un tempo come questo.”

“Ma ti sarebbe di giovamento: potrai condurre il calesse a pochissima distanza dal lago.”

La frase era stata detta con le migliori intenzioni, ma Aubrey rifiutò, per la seconda volta, a denti stretti. Yardley, rendendosene conto, immaginò caritatevolmente che fosse la gamba a far soffrire il ragazzo.

Frattanto, il giovane Denny rivelava alla sua ospite, con un tono più drammatico di quanto l’occasione richiedesse, di essere venuto per vederla. E aggiungeva a voce bassa e vibrante che non poteva restare lontano da lei. Quindi, poiché Aubrey lo guardava con aperta ironia, gli rivolse un’occhiata torva e ripiombò arrossendo in silenzio. Era di quasi tre anni maggiore di Aubrey e conosceva ben più di lui il mondo, ma il ragazzo lo metteva a disagio, per l’acume del suo sguardo non meno che per la sua lingua tagliente. Si sentiva in imbarazzo di fronte a lui: non soltanto perché non poteva tenergli testa per intelligenza, ma anche perché provava per la deformità fisica il disgusto di un giovane animale sano, e gli pareva che, di quella sua infermità, Aubrey approfittasse in modo assai meschino. Se non avesse avuto la gamba sinistra offesa, sarebbe stato facile insegnargli in un battibaleno il rispetto dovuto ai suoi maggiori. Si sente al sicuro, pensava Oswald, e un sorriso sprezzante gli incurvava le labbra.

Invitato a sedere, si era abbandonato su un divano in un atteggiamento di profonda noncuranza e si accorse ora che l’altro ospite lo fissava con disapprovazione; dilaniato tra la speranza di incarnare un ideale romantico e il timore di avere leggermente esagerato la trascuratezza della posa, si sedette come si conveniva, e Edward Yardley tornò a guardare Venetia.

Yardley, alieno da ambizioni romantiche, non si sarebbe mai macchiato dell’imperdonabile colpa di sedersi con tanto abbandono in presenza di una signora. Né si sarebbe recato in visita, al mattino, in abbigliamento sportivo, con un fazzoletto di seta annodato attorno al collo e le cocche svolazzanti in modo disordinato sulla giacca. Era vestito con proprietà ed eleganza con una giacca da cavallerizzo e calzoni di pelle scamosciata, e ben lungi dal lasciare che una ciocca di capelli gli cadesse sulla fronte, li portava più corti di quanto prescrivesse la moda. Sarebbe stato il modello ideale per il ritratto di un giovane gentiluomo di campagna rispettabilissimo e di modeste ambizioni; nessuno avrebbe immaginato che fosse lui, e non già Oswald, l’unico figlio di una madre vedova e adorante.

Aveva perduto il padre prima di compiere dieci anni e si era quindi trovato, in giovane età, padrone assoluto della propria fortuna. Una fortuna rispettabile, seppure non cospicua, tale da permettere a un uomo prudente di godere dei piaceri della vita senza trovarsi mai in ristrettezze finanziarie. Un dandy alla moda avrebbe considerato assai misera la sua eredità, ma Edward non aveva gusti eccentrici. Le sue terre, situate a meno di dieci miglia da Undershaw, non erano né tanto ampie né tanto ricche, ma venivano considerate una proprietà assai confortevole e conferivano al possessore la posizione sociale che costituiva il massimo delle sue ambizioni. Dotato di un carattere naturalmente serio, Edward possedeva inoltre un fortissimo senso del dovere. Frustrando i lodevoli sforzi compiuti dalla madre per rovinargli il carattere con la sua eccessiva indulgenza, aveva preso in mano le redini della casa, divenendo presto un giovane severo e tediosamente virtuoso. Pur mancando di vivacità e di spirito, era dotato di buonsenso, e se un carattere energico lo rendeva a volte troppo autoritario, il saldo dominio che esercitava sulla madre e sui dipendenti era sempre animato dalla certezza di saper decidere, in ogni occasione, per il loro bene.

Venetia, sentendo di dover fare ammenda per la scarsa cortesia di Aubrey, osservò: “È stato davvero gentile da parte vostra pensare a Aubrey! Non avreste dovuto darvi tanta pena: avrete certo un migliaio di cose da fare”.

“No,” rispose lui sorridendo, “non proprio un migliaioE neppure un centinaio, pur essendo in genere assai occupato. Ma non dovete pensare che io trascuri alcun impegno importante: spero davvero di non meritare un simile rimprovero! Delle cose urgenti mi sono occupato mentre voi, ne son certo, dormivate ancora. È sufficiente sapersi organizzare bene e si trova sempre tempo per tutto. E ho un altro motivo per la mia visita: vi ho portato la mia copia del ‘Morning Post’ di martedì, che penso leggerete con piacere. Ho indicato il brano: come vedrete riguarda l’esercito d’occupazione. Sembra certo che i francesi siano mal disposti a tollerare la permanenza dei nostri soldati. Né c’è da stupirsene, per quanto, ove si ricordi… ma questo non può interessarvi quanto la prospettiva di riabbracciare presto Conway! Credo possiate rivederlo prima della fine dell’anno.”

Venetia prese il giornale, attenta a non incontrare lo sguardo di Aubrey, ringraziando con una voce in cui tremava una risata. Da quando aveva scoperto che la sola fonte di notizie per i Lanyon era il “Liverpool Mercury”, settimanale, Edward aveva fatto della sua copia del quotidiano londinese il pretesto abituale per le frequenti visite a Undershaw. Dapprima si era presentato soltanto all’annuncio di notizie stupefacenti, quali la morte del vecchio re di Svezia e l’elezione al trono del maresciallo Bernadotte; poi durante i mesi primaverili i giornali gli avevano validamente fornito gran copia di matrimoni nella famiglia reale. Per prima c’era stata la stupefacente notizia che la principessa Elizabeth, pur alquanto avanti negli anni, era stata promessa al principe di Assia-Homburg; le descrizioni del suo abbigliamento nuziale e i panegirici per le sue doti artistiche erano appena finiti che tre dei suoi fratelli di mezza età ne avevano seguito l’esempio. Ovviamente ciò era dovuto al fatto che l’erede al trono inglese, la povera principessa Charlotte, fosse morta di parto insieme al figlioletto neonato. Persino Edward aveva trovato la faccenda divertente dal momento che entrambi i duchi erano sopra la cinquantina e si vedeva, senza contare che era universalmente risaputo che il più anziano dei tre era padre di una nidiata di speranzosi figli illegittimi. Dopo le nozze del duca di Clarence, in luglio, tuttavia, Edward aveva faticato a trovare notizie che potessero interessare i Lanyon, trovandosi più di una volta costretto a ripiegare sullo sconforto dei medici per le condizioni di salute della regina o sul dissenso tra i liberali per il protrarsi della guida del partito da parte di Tierney. Neanche il più inveterato ottimista avrebbe potuto pensare che i fratelli Lanyon potessero nutrire interesse per questi argomenti, ma ora era ragionevole supporre che considerassero la prospettiva di rivedere presto Conway come una notizia di gran momento.

Venetia, tuttavia, si limitò a dire che avrebbe creduto al congedo di Conway soltanto quando lo avesse visto sulla porta di casa; e Aubrey, dopo un’accigliata riflessione sulla cosa, aggiunse con riprovevole ottimismo che non era il caso di disperare: Conway avrebbe probabilmente trovato un’altra buona scusa per rimanere nell’esercito.

“Io lo farei!” esclamò Oswald, ma compreso quanto poco lusinghiera suonasse la frase per la sua ospite, si sentì mancare e balbettò: “Voglio dire… non intendevo, voglio dire che lo farei se fossi sir Conway! Qui tutto gli sembrerà dannatamente tedioso! Non può non essere così quando si conosce il mondo”.

“Voi trovate tutto dannatamente tedioso dopo una gita nelle Indie Occidentali, non è vero?” intervenne Aubrey.

Edward rise, e Oswald, che aveva deciso di ignorare l’impertinenza di Aubrey, osservò con enfasi perfettamente inutile: “Conosco il mondo ben più di voi! Voi non sapete… sareste stupito se vi dicessi quanto sono diverse le cose in Giamaica!”.

“Infatti ne siamo stati stupiti,” ammise Aubrey mentre si alzava lentamente dalla sedia. Edward, con l’abituale e sgraditissima premura, si precipitò ad aiutarlo. Incapace di liberarsi dalla mano sollecita che gli stringeva il gomito, Aubrey l’accettò, ma si limitò a mormorare un gelido grazie e non si mosse dal punto in cui si trovava fino a quando Edward non si fu allontanato. Allora si lisciò la manica e disse, rivolgendosi alla sorella: “Vado a prendervi quel pacchetto, cara. Vorrei scriveste a Taplow, quando avrete un momento di solitudine, per dirgli di mandarci un quotidiano di Londra. Dovremmo averne uno, non credete?”.

“Non ve n’è alcun bisogno,” ribatté Edward. “È per me un vero piacere dividere con voi il mio.”

Aubrey, già sulla soglia, si fermò e si volse. “Ma se ne avessimo uno,” osservò con perfida dolcezza, “non dovreste venire tanto spesso da noi, non è così?”

“Se avessi saputo che ne desideravate uno, sarei venuto ogni giorno con la copia di mio padre!” esclamò appassionatamente Oswald.

“Sciocchezze!” tagliò corto Edward, infastidito da quella frase come non lo era stato dalla deliberata scortesia di Aubrey. “Sono certo che sir John avrebbe qualcosa da dire in proposito. Venetia sa di poter contare su di me!”

Il tono sprezzante della frase spinse Oswald a dichiarare che Venetia poteva contare su di lui per gesta ben più ardue: questo era quantomeno il concetto fondamentale, ma il discorso, che nella sua immaginazione era parso assai efficace, subì nella realtà un’infelice metamorfosi. Irrimediabilmente contorto, parve debole anche al suo autore e si spense sotto lo sguardo di indulgente disprezzo di Edward.

Proprio in quel momento l’ingresso della vecchia balia dei Lanyon, in cerca di Venetia, creò un diversivo. Scoprendo che con la sua padrona c’era Edward Yardley, che godeva della sua approvazione, si scusò, disse che non c’era alcuna urgenza e s’affrettò a uscire. Ma Venetia, preferendo un interludio domestico – quand’anche si fosse trattato di esaminare lenzuola ormai lise o di ascoltare lamenti sulla pigrizia della servitù più giovane – alla compagnia dei suoi male assortiti spasimanti, si alzò e li congedò con il maggior garbo possibile, dichiarando che sarebbe caduta in disgrazia presso la balia se l’avesse fatta attendere.

“Ho trascurato i miei doveri e se non me ne occupo finirò per ricevere una terribile lavata di testa,” disse con un sorriso, tendendo la mano a Oswald. “Sono perciò costretta a mandarvi via. Non offendetevi! Siete amici di così vecchia data che con voi non faccio cerimonie.”

Neppure la presenza di Yardley impedì a Oswald di portarsi la mano di Venetia alle labbra baciandola con fervore. Venetia accettò l’omaggio con quieta serenità e, rientrata in possesso della propria mano, la tese a Edward. Questi si limitò a sorriderle. “Solo un istante!” disse, e le aprì la porta. Venetia uscì nel vestibolo e Yardley la seguì, chiudendo inesorabilmente l’infelice rivale nel salottino. “Non dovreste,” osservò quindi, “incoraggiare quello sciocco ragazzo a corteggiarvi.”

“Lo incoraggio?” chiese lei stupita. “Avevo l’impressione di condurmi con lui come con Aubrey. È così che lo considero,” aggiunse pensosamente. “Soltanto, Aubrey non manca di buonsenso e sembra molto più adulto del povero Oswald.”

“Mia cara Venetia, non vi accuso di civettare con lui!” replicò Edward con un sorriso benigno. “Né sono geloso, se è questo che pensate.”

“Non è affatto questo. Non avete motivo di essere geloso, e non ne avete il diritto, lo sapete.”

“Non ne ho certo motivoQuanto al diritto, sappiamo bene – non è così? – che sarebbe sconveniente parlarne prima del ritorno di Conway. Potrete immaginare con quale interesse io abbia letto le colonne del giornale!”

Lo sguardo malizioso con cui Edward aveva pronunciato la frase spinse Venetia a esclamare: “Edward, vi prego, non contate troppo sul ritorno di Conway! Avete preso a parlarne come se dovesse rendermi pronta a cadervi tra le braccia, e vorrei che non lo faceste!”.

“Spero anzi, sono piuttosto certo di non essermi mai espresso in tal modo,” rispose lui gravemente.

“No davvero, mai!” replicò lei, con un sorriso. “Edward, prima che la presenza di Conway mi annoi al punto da spingermi ad accettare qualsiasi domanda di matrimonio, chiedetevi se davvero volete sposarmi! Perché non credo che lo vogliate!”

Lui parve stupefatto, turbato, ma dopo un attimo d’incertezza sorrise: “So quanto sia scherzoso il vostro umore! Avete sempre tanto spirito, e se la vostra gaiezza vi induce a volte a pronunciare frasi strane, credo davvero di conoscervi troppo bene per prenderle sul serio”.

“Edward, vi prego, studiatevi almeno di liberarvi dalle illusioni!” lo pregò Venetia con calore. “Non potete conoscermi affatto se è questo che pensate, e sarebbe terribile per voi scoprire che in realtà le strane frasi che dico vanno prese sul serio!”

Lui rispose scherzosamente, senza la minima incrinatura nella sua sublime certezza: “Forse vi conosco meglio di quanto vi conosciate voi! È un vezzo che avete preso da Aubrey. Voi, in genere, non oltrepassate mai i limiti della piacevolezza, ma quando parlate di Conway, ne parlate come se non aveste affetto per lui”.

“E non ne ho,” rispose Venetia con disastrosa franchezza.

“Venetia! Riflettete su quello che dite!”

“È la verità! Oh, non lanciatemi quello sguardo oltraggiato! Non ho avversione per lui; sebbene potrei averne se fossi costretta a vivere con lui a lungo, perché non soltanto non si cura d’altri che di se stesso, ma è anche desolatamente banale!”

“Non dovreste dir questo,” rispose severamente Edward. “Se parlate con tanto poco riguardo di vostro fratello, come stupirsi che Aubrey si riferisca al suo ritorno a casa nei termini che ha appena usato?”

“Ma Edward, soltanto un attimo addietro avete detto che sono io ad aver preso da Aubrey questo vezzo!” E poiché il viso di lui rimaneva severo, aggiunse, con una nota divertita: “La verità – se soltanto voi voleste riconoscerla! – è che non si tratta di vezzi, diciamo semplicemente quello che pensiamo. Ed è stupefacente, lo ammetto, con quanta frequenza ci accada di pensare le stesse cose, perché non siamo affatto simili, non certo nei gusti!”.

Per un attimo lui rimase in silenzio. “È comprensibile,” disse infine, “che voi proviate un certo risentimento. Vi comprendo bene. La vostra situazione qui, dopo la morte di vostro padre, non è stata piacevole, e Conway non si è fatto scrupolo di deporre il suo fardello – i suoi precisi doveri– sulle vostre spalle. Ma per Aubrey è diverso. Sono stato tentato di rimproverarlo severamente quando l’ho udito parlare come ha fatto di suo fratello. Quelli che possano essere le colpe di Conway, ha un buon carattere ed è sempre stato gentile con Aubrey.”

“Sì, ma Aubrey non ama le persone perché sono gentili.”

“Queste sono davvero sciocchezze!”

“No! Quando Aubrey nutre affetto per qualcuno, non è per quello che fa, ma credo piuttosto per la qualità della sua mente.”

“Sarà un bene per Aubrey il ritorno di Conway,” la interruppe lui. “Se le sole persone che crede di poter amare sono gli eruditi, è davvero gran tempo…”

“Che cosa sciocca: sapete bene che ama me!”

“Vi chiedo scusa,” concluse seccamente Edward. “Devo avervi frainteso.”

“Oh, sì! E avete frainteso anche quando vi ho parlato di Conway. Non provo risentimentonei suoi confronti, credetemi, e quanto alla mia situazione… oh, siete davvero assurdo! Non è affatto spiacevole!” Ma gli vide uno sguardo offeso e aggiunse: “Vi ho contrariato! È una giornata troppo calda per una lite: abbandoneremo l’argomento se non vi dispiace! E d’altro canto devo vedere di che cosa ha bisogno la balia. Arrivederci! Vi ringrazio per averci portato il vostro giornale”.

* Per quanto nulla autorizzi a supporre che sir Francis Lanyon non soffrisse di manie di grandezza, è giusto precisare che Manor (qui tradotto “Maniero”) può avere in inglese un senso assai meno imponente: indica spesso una residenza di campagna. [N.d.T.]

** Il Corsaro è il protagonista dell’omonima novella in versi di Byron, e le novelle in versi sono generalmente, tra le opere di Byron, le più melodrammatiche. Si comprende quindi l’incertezza di Oswald: la creatura o il creatore, l’uomo, ben più arduo da imitare, o il personaggio? [N.d.T.]

 

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"