trama
Tre sorelle, tre donne, tre matrimoni. Tre vite diverse.
Erano sorelle e si amavano a prescindere da quanto le circostanze profondamente diverse delle loro vite potevano dividerle.
Tre sorelle, diversissime tra loro, tre matrimoni, tre destini: Charlotte sposa Geoffrey, che la distrugge; Vera sposa Brian, che viene distrutto, e Lucy, la maggiore, sposa William, con cui conduce un’esistenza serena. Charlotte, descritta decadi prima che il termine diventasse di moda come una donna che ama troppo, sposa Geoffrey, un rozzo venditore incline all’alcol, che presto si trasforma in un dittatore domestico. Il suo sadismo verso la moglie e i figli è evocato senza mai mostrare alcuna violenza fisica, ma non per questo appare meno devastante. Vera, giovane di rara bellezza, diventa egocentrica ed egoista alla Rossella O’Hara: si sposa e avrà dei figli ma sempre sentendosi superiore e libera di fare ciò che vuole. Alla fine il marito si stufa e finiranno per separarsi, sprofondando lei nell’isolamento sociale, come a quei tempi avveniva per le divorziate. Lucy, sebbene frustrata nelle sue ambizioni professionali, senza figli, incapace di salvare Charlotte da Geoffrey e Vera da se stessa, è ricompensata da una vita serena in compagnia di un marito rispettoso e amichevole e dall’aiuto che saprà dare ai nipoti. Ambientato negli anni ’30, il romanzo evidenzia quanto il destino delle donne, chiuse nel piccolo mondo della famiglia, dipendesse dal tipo di matrimonio che facevano, o meglio da colui che sceglievano/da cui erano scelte come marito, e soprattutto come all’epoca le donne come Charlotte fossero completamente impotenti di fronte a uomini anche violenti.
Estratto
1
A colazione, nel leggere la lettera di Vera, Lucy sorrise. Vera sarebbe arrivata contemporaneamente a Charlotte, e sarebbero state tutte insieme. Di nuovo, come ai vecchi tempi, sarebbero state tutte insieme. Doveva darne notizia a William con un certo tatto. Lo osservò al di là dei bagliori che la luce solare del mattino di settembre faceva sprigionare dalla tovaglia e dall’argenteria. Meglio dirglielo ora o più tardi?
William era concentrato sul giornale, ripiegato accanto al piatto. Stava chino sopra di esso e mangiava il porridge con mano disattenta, macchiandosi la cravatta come al solito. Sapeva che se la stava macchiando, perché di tanto in tanto la tamponava distrattamente con la mano libera, strofinando il porridge nell’illusione di eliminarlo. Era una concessione a Lucy. Della cravatta a lui non importava, ma sapeva che a Lucy sì, e lei avvertì una punta di orgoglio. Dopo undici anni di matrimonio era ancora segretamente gratificata da qualunque prova della sua influenza su William, dato che lui sembrava, per quanto umanamente possibile, la persona meno influenzabile al mondo. Se William non faceva a modo suo, cosa che avveniva la maggior parte delle volte, faceva a modo di Lucy; mai, però, se poteva evitarlo, a modo di qualcun altro.
In passato quella sua caratteristica lo aveva spesso portato a scontrarsi con la commissione scolastica, dove prestava servizio in qualità di ispettore per le materie tecnico-scientifiche in
una zona che comprendeva diverse contee. Al momento, però, era in atto una tregua. Il tempo aveva dimostrato che, sebbene William apparisse strambo agli occhi della commissione, era comunque un membro molto efficiente e instancabile. Ora la commissione lo lasciava fare quasi sempre di testa sua.
Come fanno spesso le mogli, Lucy stabilì di non dirgli delle macchie sulla cravatta né dell’imminente visita delle due sorelle. Doveva reprimere il rimprovero per la cravatta, decise. Quando però William, curvandosi ancor più sopra il giornale, nel tenere il cucchiaio inclinato all’indietro fece cadere il porridge nella ciotola piena di latte schizzando abbondantemente un’ampia zona del gilè, Lucy non riuscì a soffocare un gemito. Al che William, senza neppure staccare gli occhi dal giornale, si strofinò la cravatta per mezzo minuto.
Lucy girò la testa per non scoppiare a ridere e disturbarlo. Che leggesse in pace il suo giornale. Il pensiero volò alle sorelle, al futuro in cui le avrebbe riviste, al passato che aveva condiviso con loro.
Seduta al tavolo della colazione nella vecchia, piccola casa in piena campagna, ora matura e quasi quarantenne, era di nuovo “a casa”, era di nuovo la ragazza che cercava di gestire quella loro famiglia caotica, dove nessuno era puntuale ai pasti se non lei e il padre, dove il piano non smetteva mai di suonare, dove non si poteva mai avere una stanza, neppure un angolo, tutto per sé, in cui leggere, sempre ammesso ci fosse un po’ di tempo per leggere, che non c’era mai. In ogni caso non per Lucy, perché la sera, quando il trambusto della giornata cessava e lei avrebbe potuto trascorrere un’ora su un libro, di solito le toccava ascoltare il padre.
Verso le nove e mezza di sera al signor Field piaceva riporre il giornale, afferrarsi i risvolti della giacca, allungare le gambe e, come dicevano i suoi figli, attaccare con la tiritera. Ragion per cui alle nove e mezza non c’era mai nessuno, solo Lucy. Charlotte e Vera fuggivano senza il minimo scrupolo, e i ragazzi erano sempre fuori; Lucy invece pensava che, dalla morte della madre, il padre si sentisse solo, per cui lo ascoltava.
Ricordava come la madre soleva ascoltarlo, se quello si poteva definire ascolto. Si sedeva con il lavoro a maglia, senza prestare particolare attenzione, e sorrideva a chiunque entrasse nella stanza, accogliendo benevola ogni interruzione, comunicando da sopra i braccioli della poltrona per mezzo di segni e cenni, senza mai allontanarsi troppo per poter dire, ogni qualvolta il marito s’interrompeva: “Sì, caro?” e farlo ripartire. Era una situazione curiosa, perché lui si rivolgeva specificamente a lei anche se lei non lo ascoltava neppure. Lui parlava e basta. Aveva bisogno di parlare. Quando parlava s’infiammava e alla fine era un uomo nuovo, ritemprato e nuovamente in grado di affrontare gli affanni della vita professionale – faceva l’avvocato – e familiare.
Lucy però non possedeva le capacità di autodifesa della madre. Ascoltava davvero, con giovanile cortesia, gli occhi incollati al viso di lui. Il padre parlava dello studio, delle condizioni in cui versava il Paese, a suo dire sempre pessime. Parlava del denaro necessario a mandare avanti la casa, e a Lucy pareva che fossero perennemente sull’orlo della bancarotta. Soprattutto, però, parlava della necessità, che Lucy doveva condividere con lui, di tenere i ragazzi in riga e di sorvegliare continuamente le ragazze. Nella famiglia correva una vena di stravaganza o di debolezza, diceva.
“Dalla parte di tua madre, capisci?” diceva. “Non dalla mia. La mia famiglia, Lucy, è ed è sempre stata gente posata, retta, timorata di Dio.”
Era così, inutile negarlo. Sfortunatamente, però, nessuno voleva essere come loro. La famiglia del padre di Lucy era rispettabile e priva di fascino; quella della madre piena di fascino, ma meno degna di rispetto, o quasi, a detta del padre. Lucy si era schierata con i fratelli e le sorelle nell’ammirare la famiglia della madre e nel deridere quella del padre, ma quando la responsabilità della famiglia era ricaduta sulle sue spalle era finalmente riuscita a capire cosa intendesse il padre, a vedere i pericoli.
Non poteva farne a meno, con Harry e Aubrey per casa. Harry era il maggiore; aveva due anni in più di lei e il senso di responsabilità di un insetto. Il senso di responsabilità di Lucy, invece, cresceva proporzionalmente al crescere delle sorelle. Non c’era bisogno che il padre le facesse notare i pericoli insiti nelle tensioni familiari e nel cattivo esempio dei ragazzi. Lucy li vedeva fin troppo bene, ma lui non riusciva a trattenersi dal farle notare ogni cosa, anche la più ovvia. Parlando, il peso sulle sue spalle si alleggeriva, mentre quello di Lucy aumentava. Dopo averlo ascoltato, lei si sentiva più che mai in preda all’ansia e all’oppressione.
Quando la madre era morta improvvisamente per un’influenza, Lucy aveva diciott’anni e aveva appena finito la scuola, dove aveva cercato di rimanere il più a lungo possibile: non le andava di stare semplicemente in famiglia e mandare avanti la casa. Le piaceva starsene tranquilla, seguire le proprie inclinazioni e leggere molto, tutte cose impossibili da farsi a casa. Aveva escogitato un piano. L’aveva spuntata sul padre, convincendolo a cederle una stanza inutilizzata nell’edificio dove aveva lo studio, e vi si era installata a studiare per una borsa di studio a Oxford. Poi però la madre era morta e Lucy, distrutta dal dolore, aveva rinunciato a tutto per dedicarsi completamente alla cura della famiglia composta dal padre, Harry, lei, Aubrey, Jack, e Charlotte e Vera, le due sorelline di tredici e undici anni.
Guardandosi indietro, Lucy non capiva come avesse potuto cavarsela; con ogni probabilità, non se l’era cavata. Semplicemente, dovevano aver arrancato un anno dopo l’altro alla bell’e meglio. Quando nel 1914 era scoppiata la guerra, pur perennemente in ansia per Harry e Aubrey in Francia, in casa avevano avuto più tranquillità. Guerra fuori e pace in casa, si diceva Lucy. Poi Harry e Aubrey erano tornati, portandosi dietro il caos.
Il signor Field aveva fatto studiare giurisprudenza a tutti i figli maschi, con l’intento di scegliere un socio tra loro e instradare, almeno così sperava, gli altri due alla carriera di segretario comunale. Già da tempo aveva scelto come socio Jack, il più giovane, suo prediletto e il più disponibile. Quando i due fratelli erano tornati dalla guerra, avevano dichiarato allegramente che la legge non faceva per loro. Si sarebbero messi in cerca di qualcosa di meno mortale, avevano detto. Nel frattempo avevano le loro buonuscite.
“Vogliamo divertirci,” avevano annunciato, e avevano comprato un’auto per portare le ragazze alle corse e a ballare.
A quel punto Charlotte aveva ormai ventun anni ed era decisamente graziosa, ma Vera, a diciannove, era un’autentica bellezza. Slanciata, pallida, i capelli biondo cenere e gli occhi di un azzurro intenso, con ciglia lunghe e scure. C’era qualcosa, nel suo viso, che toccava il cuore. Non quando era su di giri e si atteggiava a regina, come accadeva spesso, ma quando leggeva accanto alla lampada, o era addormentata, o pensava di essere sola. Forse non era niente di più dell’effetto di un lieve avvallamento della guancia, o l’ombra delle ciglia, ma in quei momenti sembrava che dentro l’incantevole, impulsiva Vera ci fosse una persona smarrita, in cerca, desiderosa di qualcosa che non era lì, qualcosa d’indefinito ma mancante, e Lucy doveva frenare il forte desiderio di chiederle che cosa fosse, così da poterla consolare. Non glielo chiedeva perché sapeva che Vera non gliel’avrebbe mai detto, neppure se l’avesse saputo; e probabilmente non lo sapeva, pensò Lucy. Il suo viso era uscito da uno stampo così perfetto che, in confronto alle espressioni dei visi comuni, quello che esprimeva sembrava più profondo e ammaliante. Io avrò l’aria preoccupata, pensava Lucy, ma Vera sembra toccata da tutte le sofferenze del mondo, eppure probabilmente riguardo allo stesso genere di cose.
Era spesso arrabbiata con Vera, e sconcertata, e si vergognava di lei. Quando le tornava comodo, Vera mentiva. Cercava di ottenere quel che voleva con la più totale indifferenza per gli altri. Era sprezzante nei confronti del padre, che imitava con impietoso talento. Alcune cose facevano trasalire Lucy. Per esempio, quando veniva in visita l’anziana e sorda signora Parker, Vera se ne usciva con commenti sgarbati, convinta che quella non la udisse.
“Ditemi di cosa state ridendo, miei cari,” aveva detto una volta la signora Parker. “Anche a me piace ridere, ma non c’è molto per cui ridere quando si è vecchi e sordi, sapete.”
In quell’occasione Vera era arrossita, aveva notato Lucy compiaciuta.
Vera non aveva alcuna timidezza. Attraversava una sala da ballo come se fosse deserta, e lasciava il ristorante di un albergo allo stesso modo. Tacitamente, la famiglia la lasciava andare avanti, schierandosi poi dietro la sua star.
Ovunque lei andasse le persone, non solo uomini ma anche donne vecchie, giovani e bambini, erano sopraffatte da una travolgente ammirazione nei suoi confronti. Il servizio postale recapitava lettere tormentate, offerte di ogni tipo; il ragazzo della porta accanto le aveva regalato i suoi tesori anno dopo anno: uova di uccello, i Viaggi di Mungo Park, la sua più bella catapulta, scatole di cioccolatini, boccette di profumo acquistate con i primi guadagni. Lucy pensava che, se non fosse stato ucciso in guerra, forse, più in là negli anni, Vera l’avrebbe sposato. Di fatto era sprezzante verso tutto e tutti.
“Che stupido,” diceva Vera, gettando via una lettera e lasciando lo strazio di un’anima esposto allo sguardo di tutti sul tavolo della colazione.
“Credevo…” intravedeva a volte un familiare senza volere. “Non capisco… Avevi detto… Perché?…”
Quando la cameriera annunciava un ammiratore, Vera diceva: “Perché l’hai fatto entrare? Lucy, devi andarci tu. O Charlotte. Non mi va di vederlo”.
Gran parte degli uomini si riducevano a umili adoratori di Vera, ma ci sono uomini a cui non piace sminuirsi per amore e non sopportano l’idea di essere umili. Tra questi, Charlotte aveva dei seguaci e uno di loro era Geoffrey Leigh. A Geoffrey piaceva stare al centro dell’attenzione, era l’anima delle feste. Aveva esordito cercando di far colpo su Vera, ma una volta capito che non ce l’avrebbe fatta aveva cercato di far colpo su Charlotte e ci era riuscito.
Charlotte era più sensibile di Vera, più disponibile, più cieca, più calorosa. Aveva i capelli più dorati, gli occhi più azzurri, più tondi. A quei tempi era allegra, di una deliziata allegria fanciullesca, e più giovanile di Vera sebbene fosse maggiore di due anni. Una delle sue qualità più accattivanti era la totale assenza di gelosia nei confronti dell’avvenente sorella.
Era lo scotto da pagare per essere la sorella maggiore, supponeva Lucy, quella investita di autorità, quella a cui ai vecchi tempi bisognava chiedere il permesso, giudice di mani lavate e nastri per capelli appropriati; spesso, tuttavia, a mano a mano che diventavano adulte, nei confronti delle sorelle Lucy avvertiva una dolorosa ostilità. Quando entrava in una stanza, loro smettevano di parlare o si scambiavano un’occhiata come a voler dire: “Attenta”. A volte le dicevano bugie, su istigazione di Vera, ovvio. “La cosa non la riguarda,” le sembrava quasi di sentire Vera che diceva a Charlotte. Tenevano le loro cose per sé e la ingannavano come fosse la madre. E poiché lei le amava con tutto il cuore, di notte piangeva con la faccia affondata nel cuscino. Erano sua responsabilità, la sua fonte di ansia e di felicità.
A volte, quando non c’erano giovanotti intorno e Harry e Aubrey erano fuori casa, le tre sorelle insieme erano felici, più che in qualunque altro momento. Tra loro vi era totale confidenza. In quelle occasioni Vera all’improvviso rivelava cose che aveva deciso di non dire a Lucy. E chiarivano malintesi, raddrizzavano storture. Vera si metteva a fare imitazioni, e tutte ridevano fino a star male. Accendevano il grammofono, si liberavano delle pantofole con un calcio e ballavano frenetiche per casa, piroettando l’una intorno all’altra quando s’incontravano in corridoio, gli occhi splendenti, i capelli al vento, e sorridevano, sorridevano senza mai smettere.
In quei momenti Lucy non si sentiva esclusa. Aveva fascino, ma doveva sviluppare una certa fiducia in sé, prima che esso si mostrasse. Una volta abbattute tutte le barriere, quel fascino dispiegava i propri effetti sulle altre due. Quando si lasciavano cadere sulle sedie per riposarsi dopo aver ballato, Lucy riusciva a tenerle ipnotizzate raccontando loro delle sue letture. La sera, a letto, leggeva tutto ciò su cui riusciva a mettere mano: Napoleone, le sorelle Brontë, Giovanna d’Arco, Maria regina di Scozia, Byron. Riusciva a trascinare le sorelle fuori dal loro mondo fanciullesco e a introdurle in un altro, fatto di magnificenza, solitudine, genio. In quei momenti, quando loro le dicevano quello che avevano in cuore e lei diceva quello che aveva nel proprio, le sorelle erano completamente felici insieme, tutt’e tre unite da un profondo affetto. Se solo avessero potuto avere più momenti come quelli, si diceva Lucy. Ma le ragazze erano portate via dalle correnti della loro gioventù impetuosa. Portate lontano da lei, sempre di più. In quei giorni dopo la guerra, erano sempre in procinto di uscire, sempre dirette da qualche parte.
Anche Lucy spesso usciva con loro, ma quando era fuori con loro e i ragazzi si sentiva più una chaperon che una coetanea. Aveva ventisette anni e ne dimostrava di più. Si sentiva bruttina e tagliata fuori, e doveva avere scritto in faccia entrambe le cose, si diceva, ricordando com’era allora, vestita perlopiù con gonna e giacca di tweed e un cappellaccio fatto dello stesso tessuto. Era definito “anti-burrasca”, sebbene la ragione del dover indossare un cappello anti-burrasca per guardare delle coppie ballare proprio non riusciva a capirla, a distanza di tanto tempo.
All’epoca si crucciava molto per i suoi capelli, che erano color castano scuro e non biondi come quelli delle sorelle. Erano state tra le prime ad adottare il taglio “alla maschietta”, che si addiceva loro alla perfezione, ma Lucy era troppo insicura per seguirne l’esempio. Pensava che non le sarebbe stato bene. Anni dopo, li avrebbe tagliati, scoprendo che, a suo modo, stavano bene a lei tanto quanto alle sorelle.
A quei tempi, invece, portava i capelli raccolti in uno chignon che di solito le si scioglieva, dato che arrivava sempre trafelata e all’ultimo momento. Mentre si raccoglieva i capelli e fissava il cappello con uno spillone, l’auto era già sul vialetto, con Harry che strombazzava all’impazzata e tutte le facce sghignazzanti rivolte all’insù verso la sua finestra.
Un giorno, il giorno in cui Vera aveva ballato, Lucy era corsa giù, afferrando i guanti di qualcun altro sul tavolo all’ingresso per poi infilarsi in fretta e furia nell’abitacolo. Era accaldata e trafelata per la fretta, e quando qualcuno le aveva detto “Quanto ci hai messo!” lei, contrariata, aveva risposto “In realtà non avrei neppure il tempo di venire”. Non era mai saggio dire cose del genere in presenza di Vera, che era sempre pronta a scattare.
“E allora perché ci vieni?” le aveva infatti chiesto.
Lucy aveva voltato la testa per nascondere le lacrime di rabbia e risentimento che le pungevano gli occhi. Era stanca di tutto quello, si era detta, stanca, stanca. Non voleva prendersi cura della casa e di loro, ma non c’era nessun altro, per cui doveva. Loro la davano per scontata, lei e tutto quello che faceva, e quando c’era da divertirsi non la volevano. Era rimasta con il cuore straziato per tutto il tragitto fino a Blackpool, dov’erano diretti quel pomeriggio, con altri amici di Harry e Aubrey dietro di loro su altre auto.
A quei tempi tutti dovevano ballare. Ovunque si andasse a trascorrere la giornata, bisognava ballare. Se si andava a Londra per due giorni soltanto, si trascorrevano entrambi i pomeriggi ballando. Era una cosa che aveva contagiato tutti. Su nell’attico, i giovani Field davano una festa danzante dopo l’altra. Ancora molto dopo essersi coricato, il povero signor Field doveva sopportare lo scalpiccio di piedi sopra la testa, il suono del grammofono che andava avanti per tutta la notte. Malgrado gli abbondanti rinfreschi forniti da Lucy, la mattina le domestiche scendevano e scoprivano che in un imprecisato momento prima dell’alba erano stati cucinati pantagruelici pasti a base di uova e pancetta. Spesso le domestiche si licenziavano, dicendo che non riuscivano a reggere quelle feste.
Quel giorno, arrivati a Blackpool, qualcuno aveva suggerito così per scherzo di andare non a un tè danzante in un albergo ma alla Tower Ballroom. Ci erano andati, e Lucy era rimasta seduta nella luce fioca sotto la balconata a guardare gli altri ballare. Vera e Charlotte si muovevano rapide e leggere sulla pista con i loro cavalieri. Lucy si sentiva come una vecchia chioccia intenta a osservare i due cigni da lei allevati lanciarsi in acqua impavidi.
Quando all’inizio usciva per andare alle feste, nessuno la invitava a ballare. I giovanotti la ritenevano molto più vecchia di quanto non fosse, si sentivano in soggezione ed erano fortemente attratti dalle sorelle. Di solito Harry e Aubrey erano troppo occupati a invitare le ragazze di loro gusto per pensare a lei, perciò Lucy se ne restava seduta a fare tappezzeria.
A volte le teneva compagnia Brian Sargent, che non era portato per il ballo. Era troppo grosso per ballare, un giovanotto alto, solido e attraente che osservava le pagliacciate degli altri ragazzi con sguardo severo. Abitava nell’interno, a Trenton, ma quando era al Nord per affari, come spesso accadeva per conto dell’affermato studio contabile del padre, allestiva il suo quartier generale a Sefton, a casa della zia.
A Brian piaceva la poesia. O quantomeno aveva sempre in tasca un libro di versi, sebbene Lucy non capisse se la poesia gli piaceva davvero o se pensava che dovesse piacergli.
Eppure, dato l’ambiente, lei gli era grata anche per il semplice fatto che sembrava piacergli. Si sentiva più a suo agio con Brian che con qualunque altro giovanotto. Pensava che avrebbero potuto chiacchierare, se lui fosse riuscito a distogliere lo sguardo da Vera per qualche istante, cosa che non riusciva a fare. Quando poteva osservare Vera, Brian non voleva parlare di poesia né di qualunque altra cosa. Se ne stava lì seduto, ammutolito, senza pensare neppure lontanamente, proprio come gli altri, a invitare Lucy a ballare.
Dopo due o tre pomeriggi trascorsi in quel modo, Lucy si era messa un paio di robuste scarpe di cuoio, a dimostrazione d’essere uscita senza intenzione di ballare. Quando, ricordando le buone maniere, o d’un tratto consapevoli che anche lei era una ragazza, i giovanotti finalmente le chiedevano di ballare, Lucy faceva un sorriso tirato, mostrava le scarpe e rispondeva: “Grazie, ma non posso ballare con queste ai piedi”. Certa che i ragazzi si sentissero sollevati, riportava lo sguardo sui ballerini.
Quel pomeriggio, alla Tower, aveva il cuore gonfio. Era arrabbiata con Vera, si sentiva ferita, esclusa. Nell’atmosfera c’era una sorta di forte eccitazione pulsante che avvertiva ma non riusciva a condividere. Le veniva da piangere, a starsene lì seduta sul divano di velluto a guardare gli altri ballare. Dopotutto anche a lei piaceva ballare, e non era poi così vecchia. Certamente non a tal punto, avendo ventisette anni.
Dopo un valzer, la pista si era svuotata e le sorelle erano tornate lentamente dov’era seduta lei, sotto la balconata. Pochi istanti dopo, l’orchestra aveva attaccato un motivo che nessuno sembrava conoscere. La pista era rimasta deserta; quindi, all’improvviso, Vera e Tony Carter erano scivolati al centro e avevano cominciato a ballare. Tutti li osservavano affascinati. Sulla pista non erano affluiti altri ballerini.
Lucy sapeva che i due avevano ballato insieme parecchio, e quello doveva essere un ballo per cui si erano esercitati. Erano una coppia perfetta, ma nessuno prestava molta attenzione a Tony. Era Vera a calamitare tutti gli sguardi. Lucy non avrebbe mai scordato l’aspetto che aveva quel giorno. “Il giorno in cui Vera ballò,” dicevano ancora molto tempo dopo. Sull’ampia pista lucida, Vera ballava in una sorta di estasi, un’espressione incantevole e remota sul viso, l’abito di chiffon nero che le avviluppava le membra come fumo. Quando si era separata da Tony Carter, aveva sorriso da sopra la spalla, un braccio teso, la punta delle dita che indugiavano su quelle di lui, e quando gli si era avvicinata di nuovo era stato come il separarsi e il ricongiungersi di due amanti. Persino i ragazzi l’avevano osservata tutti seri, e Lucy, scoccando un’occhiata a Brian, aveva visto i suoi occhi pieni di lacrime.
Quando la musica era cessata e i ballerini avevano fluttuato fino a fermarsi, era caduto il silenzio. Allora era stata l’orchestra a far partire l’applauso. Scivolando sulla pista, Tony e Vera, mano nella mano, avevano raggiunto gli altri. Vera si era seduta accanto a Lucy, che le
aveva stretto la mano per un istante. Com’era possibile non perdonare qualcuno di tanto incantevole? Se lei voleva che tu la perdonassi, era impossibile resisterle. L’ammirazione scalda il cuore dell’ammiratore così come dell’ammirato. Lucy, beandosi di Vera, aveva abbandonato ogni risentimento e si era goduta la festa come mai prima di allora.
Tuttavia, dopo quel pomeriggio, il caos generale era parso aumentare.
Innanzitutto Vera aveva annunciato che se ne sarebbe andata di casa per diventare partner di ballo a Londra; alle Grosvenor Galleries, o qualcosa del genere, aveva detto. Tony Carter le aveva assicurato che si sarebbe divertita immensamente. Lui stesso si trovava sovente a Londra e avrebbe provveduto affinché fosse così. Lucy ne era rimasta allarmata e inorridita. Sapeva che il padre non l’avrebbe mai permesso, ma temeva che Vera se ne sarebbe andata e basta. Lucy si era sfinita a furia di discussioni e persuasioni. Tutte le mattine, appena sveglia, si precipitava nella stanza delle ragazze per controllare che Vera ci fosse ancora: ogni volta si aspettava che fosse fuggita nel bel mezzo della notte.
Inoltre Geoffrey Leigh era spesso a casa loro, portando scompiglio. Si era trasferito da Londra come agente di Bancroft, il colosso chimico industriale. Non appena aveva messo piede nel bar del George, da uomo di un mondo altro – più vasto – qual era, i giovani della cittadina si erano riuniti attorno a lui. Era snello, scuro, olivastro, con una faccia sveglia, da scimmia. Harry e Aubrey lo avevano catturato e portato a casa. Era in totale sintonia con loro; anzi, era ancor più pazzo di loro, quando si metteva in testa di esserlo. Tra le sue capacità c’era il portare all’eccesso cose che conquistavano la loro ammirazione. Dopo una sera al George, per esempio, quando per divertimento tutti si erano arrampicati sui lampioni per lasciarsi penzolare per cinque minuti, Geoffrey ci era rimasto appeso per ore. Riusciva a superare tutti. Superava anche la loro pazienza. Alla fine l’avevano lasciato lì, ma più tardi, quando si erano svegliati nel loro letto, era stato divertente pensare che con ogni probabilità il vecchio Geoff se ne stava ancora appeso lassù, penzoloni. Era quel genere di cose a ingraziarlo agli occhi dei ragazzi, per quanto Lucy non riuscisse proprio a capirne il perché. E quando glielo diceva, i ragazzi si mostravano infastiditi. “Dio, sta diventando tale e quale zia Phoebe,” commentavano.
Zia Phoebe, inutile dirlo, era parente per parte di padre, una donna rispettabile ma noiosa. Quando esternava la sua disapprovazione nei confronti dei fratelli o delle sorelle, Lucy si sentiva dire così spesso di assomigliare a zia Phoebe che aveva cominciato a pensare che fosse vero.
I fratelli, pur non riuscendo a impressionare Lucy con le imprese di Geoffrey Leigh, erano certi di trovare in Charlotte un ascoltatore ammirato. Charlotte pensava che Geoffrey fosse fantastico. I primi tempi l’aveva detto apertamente, adorante, ma quando aveva scoperto che le sorelle la pensavano in modo diverso si era chiusa a riccio. Aveva cominciato a prendere le distanze da loro e ad attaccarsi a lui.
A Geoffrey Leigh non piacevano le camere in cui alloggiava. Preferiva di gran lunga la casa dei Field, dove c’erano ogni comodità, buon cibo, una compagnia vivace e un sacco di gente a cui tirare i suoi scherzi. Era sempre talmente di buonumore che tutti, a parte Charlotte e i ragazzi, lo trovavano sfibrante; oppure era taciturno e di cattivo umore. Presto era diventato chiaro che Charlotte subiva gli stati d’animo di Geoffrey. Le sorelle si stupivano di constatare come fosse sensibile ai suoi mutamenti. Arrossiva, sorrideva, appariva ansiosa o sconcertata in base al comportamento di Geoffrey.
“Non è così che deve trattarlo,” aveva detto Vera, sprezzante, a Lucy. “Se gli fa capire che le piace, lui se ne approfitterà. È proprio quel tipo d’uomo. E se vuole avere qualcosa a che fare con lui, allora è proprio una stupida.”
“Sono d’accordo,” aveva risposto Lucy in preda all’ansia. “Ma come facciamo a fermarla?”
Una domanda a cui non c’era risposta.
Un giorno dopo l’altro, Geoffrey si presentava a casa e, una sera dopo l’altra, quando tutti gli altri andavano a dormire, i ragazzi rimanevano alzati fino a tardi con lui e una bottiglia di whisky. Lucy, capofamiglia ansiosa, aveva sviluppato l’abitudine di stare sveglia fino alle ore piccole, quando Geoffrey se ne andava sbattendo la porta con un tonfo e i fratelli salivano le scale incespicando per andare a letto. Allora, infreddolita, stanca e risentita, scendeva per controllare che tutto fosse a posto. Una volta aveva trovato un buco nel tappeto fatto da una sigaretta; un’altra un bicchiere di whisky rovesciato sul tavolo di legno lucido; un’altra ancora, le luci accese. Era sempre meglio scendere, aveva scoperto.
Poi una notte, mentre risaliva le scale, si era imbattuta nel padre sul pianerottolo. Non lo vedeva nel cuore della notte da quando era una bambina, ed era rimasta scioccata nel constatare quanto sembrasse vecchio, con il collo lungo e sottile e le caviglie altrettanto lunghe e sottili.
“Questa storia va avanti da troppo tempo, Lucy,” aveva detto con severità; strano come tutti si rivolgessero a lei come se fosse responsabile di ogni cosa. “Dovranno andarsene,” aveva sentenziato.
“Chi?” aveva chiesto Lucy allarmata.
“I tuoi fratelli,” aveva specificato lui. “Non c’è niente che io possa fare per loro. Devono andarsene.”
“Ma dove?” aveva balbettato Lucy.
“Dove vogliono,” aveva detto il padre, voltandole le spalle per rientrare in camera. “Però se ne devono andare.”
I ragazzi avevano preso quella decisione con filosofia.
“A noi sta bene,” avevano detto. “Tanto qui non c’è niente.” E con un’ingente somma forfettaria a testa, e senza che il loro buonumore ne uscisse intaccato, si erano trasferiti in Canada.
Pur volendo loro bene, e avendo pianto insieme alle sorelle nel vederli partire, per Lucy la vita di casa era diventata più facile. Era come se un forte vento che aveva imperversato a lungo fosse cessato all’improvviso. Per un certo periodo, quella calma era parsa loro innaturale.
Presto però l’ansia si era rimpossessata di Lucy. Stavolta a preoccuparla non era Vera, che aveva abbandonato il progetto di andarsene a Londra per ballare e al momento si teneva parecchio impegnata con la musica, a volte appartandosi per trascorrere indefessa giornate laboriose, e quello era uno di quei periodi. Ora a preoccupare Lucy era Charlotte.
I ragazzi se n’erano andati, ma Geoffrey Leigh continuava a frequentare la casa, ed era evidente che Charlotte ne era innamorata ogni giorno di più.
Cosa diamine ci vedrà in lui? continuava a domandarsi Vera.
Lucy non ne aveva idea. Sconcertate e impotenti, le sorelle restavano a guardare Charlotte che si allontanava sempre più da loro. Quando non era con Geoffrey, le piaceva star sola e, quando si imbattevano in lei, seduta con espressione sognante, Charlotte si alzava e se ne andava a fantasticare altrove, lontano da loro.
Un giorno, dopo pranzo, quando come di consueto le sorelle stavano un po’ insieme dopo il pasto prima di separarsi, ciascuna diretta alle proprie attività, Geoffrey si era presentato non annunciato alla portafinestra sul giardino. Aveva detto loro che era in partenza, che se ne andava da Sefton. Era stato assegnato a un’area molto più vasta. Tre contee. Basta galoppare per procurarsi gli ordini, aveva annunciato esultante. In futuro avrebbe coordinato gli agenti e gestito gli affari senza muoversi dalla scrivania. La scrivania avrebbe potuto essere, e in tutta probabilità sarebbe stata, dentro una casa di sua proprietà.
“Non ne posso più di stanze ammobiliate,” aveva detto. “Avrò una casa tutta mia.”
Sembrava un ottimo incarico, per qualcuno tanto giovane. Evidentemente, per quanto incomprensibile per Lucy e Vera, la ditta aveva una buona opinione di lui. Poiché se ne sarebbe andato, e non avrebbero mai più dovuto subire la sua presenza, Lucy e Vera erano riuscite a fargli le congratulazioni con un certo calore. Charlotte invece era arrossita, poi sbiancata, e aveva balbettato nel congratularsi anche lei. Le sorelle avevano capito che per Charlotte era stato uno shock, e che stava cercando di riprendersi.
Lucy e Vera avevano aspettato che se ne andasse, ma Geoffrey era quanto mai compiaciuto di sé, e non aveva fretta. Si sollevava ritmicamente sulle punte dei piedi, sul tappeto davanti
al focolare, facendo tintinnare le monete in tasca ed elargendo un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
“Vorrei che Harry e Aubrey fossero qui,” aveva detto. “Perbacco, chissà che festeggiamenti!”
Gli occhi gli si erano illuminati al pensiero di quel che avrebbero fatto. Le sorelle lo avevano squadrato gelide, ma Charlotte aveva sollevato su di lui occhi pieni d’amore.
Alla fine se n’era andato, lasciandola alla sua angoscia. Per giorni non si era fatto vedere. Le altre due erano indignate e sollevate al tempo stesso, ma non potevano sfuggire allo spettacolo di Charlotte che girava per casa con la faccia pallida e gli occhi arrossati, e non osavano dirle niente.
“Spero di non innamorarmi mai, non dico altro,” commentava Vera.
“Vorrei poter fare qualcosa per lei,” diceva Lucy. Talmente spesso che Vera diventava stanca e irritabile: “Lo sai che non puoi farci niente, perciò sta’ tranquilla”.
Poi però Geoffrey era tornato, entrando dalla portafinestra, inaspettato come l’ultima volta, senza dare il tempo a Charlotte di eclissarsi. Lei aveva dovuto restare dov’era, con la prova di quel che aveva sofferto stampata in faccia. Era vicina alla mensola del camino; dopo un sorriso vergognoso in direzione di Geoffrey, aveva voltato la testa dimenticandosi di essere riflessa nello specchio. Erano tutti riflessi nello specchio dalla cornice dorata che era appeso sopra l’antica caminiera di marmo bianco che s’inarcava verso il soffitto a un’altezza vertiginosa. Erano tutti lì, uno vicino all’altro tra le vetrinette ai due lati: Charlotte con le palpebre arrossate tenute basse; Vera con il profilo squisito rivolto gelidamente verso Geoffrey; Lucy con espressione ansiosa, in posizione più arretrata, ammantata d’ombra nelle profondità polverose dello specchio antico; Geoffrey, intento a osservarsi e sorridente come se stesse architettando uno scherzo. Difatti, era proprio così.
Al suo ingresso le sorelle si erano avvicinate a Charlotte, frapponendosi tra lei e l’uomo che detestavano, ma era bastata una sola parola di lui perché Charlotte si staccasse da loro e lo seguisse in soggiorno. Lì Geoffrey aveva messo a segno quello che era risultato uno dei suoi scherzi più riusciti. Da tempo era sua intenzione fare la proposta di matrimonio a Charlotte, ma si era detto che sarebbe stato divertente lasciarle credere che non fosse così. Quante risate si era fatto quando le aveva spiegato tutto, e quante risate si era fatta anche lei, piangendo al tempo stesso e asciugandosi gli occhi arrossati.
Era stato tutto uno scherzo, aveva detto nuovamente alle sorelle tra il pianto e il riso dopo che Geoffrey se n’era andato. E non è forse riuscito alla perfezione? aveva singhiozzato. Ci era cascata in pieno. Non è proprio da lui? aveva chiesto.
“Sì,” aveva sibilato Vera tra i denti con foga improvvisa. “Sì, è proprio da lui. Solo Geoffrey Leigh avrebbe potuto fare una cosa del genere. Sei così infatuata da non accorgertene? Non lo vedi cosa ti aspetta se sarai tanto stupida da sposarlo? Se avessi un po’ di buon senso, Charlotte, fuggiresti in capo al mondo, pur di allontanarti da lui.”
“Basta!”
Vera aveva sussultato e poi taciuto. Charlotte si era infilata il fazzoletto nella cintura con l’aria di avere chiuso, di avere chiuso per sempre con il mostrare alle sorelle i propri sentimenti, che fossero felicità o altro. Con espressione determinata sul viso rigato di lacrime, si era sporta in avanti sulla sedia.
“Se una di voi dirà solo un’altra parola su di me e Geoffrey,” aveva detto, “non mi vedrete mai più, dopo che me ne sarò andata di casa. Siete avvertite. Quando ci sposeremo, me ne andrò da qui e non vi scriverò nemmeno. Perciò tenetevi per voi le vostre opinioni. Che differenza volete che facciano? Io lo amo.”
Di fronte a tale impeto, si erano fatte piccine. Charlotte le aveva ridotte al silenzio. Non avevano mai più osato dirle quello che pensavano di lui.
Neppure in occasione del matrimonio. Anche se, ovviamente, a quel punto sarebbe stato troppo tardi.
Le nozze di Charlotte erano state un evento che nessuno dei familiari riusciva a ricordare senza vergogna. Che terribile imbarazzo… esordivano i pensieri di Lucy ogni qualvolta rievocava quel ricordo. Il matrimonio era stato a giugno e sul prato era stato montato un tendone, il che aveva peggiorato ancor più la situazione, si era detta Lucy successivamente, dato che tutto era avvenuto sotto gli occhi di tutti. I passanti si erano arrampicati sul muro di cinta per vedere da dove arrivasse quello strepito. Geoffrey e i suoi amici avevano colto l’occasione per mettere in pratica scherzi su vasta scala. Lui aveva giocato una serie di tiri mancini agli amici, e questi si erano presi la rivincita, o avevano cercato di farlo. L’inventiva di Geoffrey nel far sì che gli scherzi si ritorcessero contro di loro era stata inesauribile. La sposa, vestita di tulle e seta chiara e con i fiori d’arancio, non era tenuta in alcun conto, quasi ignorata nella bolgia generale. Aveva dovuto farsi continuamente di lato per non essere travolta.
All’inizio, a tavola, gli ospiti erano parsi divertiti, poi però si erano stancati. Avevano cercato di continuare a ridere, ma le risate erano risuonate vuote e alla fine si erano smorzate. Il povero signor Field aveva tentato di portare gli ospiti più anziani in un’altra zona del giardino, così che non fossero testimoni di quello che ai suoi occhi appariva come un gioco pesante e vergognoso. I parenti per parte sua – le zie, gli zii e i cugini – erano rimasti discosti con aria di torva disapprovazione, stupiti che Joseph non fosse riuscito a concludere niente di meglio.
Il signor Field non aveva fatto altro che rincorrere Jack. “Non puoi farli smettere, Jack? È una vergogna.”
“Cosa vuoi che faccia?” aveva domandato lui. “Sono tutti brilli.”
“Che incredibile pessimo gusto,” aveva detto Vera colma di gelido sprezzo mentre passeggiava con Brian Sargent. “Mai vista una cosa del genere.”
Per Charlotte era finalmente arrivato il momento di cambiarsi e indossare l’abito da viaggio. Le sorelle l’avevano seguita al piano di sopra, le braccia piene di tulle e di strascico. Quando le avevano tolto l’abito da sposa, Charlotte tremava. Era rimasta in sottoveste, premendosi le braccia sottili sul seno come se avesse freddo, in attesa che le portassero l’abito da viaggio. Per tutto il tempo aveva ostentato un sorriso fisso che aveva fatto stringere il cuore alle sorelle, le quali però non avevano osato dire nulla. Mentre Geoffrey e il suo testimone saltavano e sghignazzavano nella camera accanto, erano rimaste tutt’e tre in silenzio.
Nell’allacciare il vestito di Charlotte sulla schiena, le dita di Lucy avevano tremato; mentre si era data da fare con la valigia, le labbra di Vera erano rimaste serrate.
“I tuoi nuovi piumini per la cipria sono nella tasca… non dimenticartelo.”
“E ora le scarpe,” aveva detto Charlotte mentre si chinava a infilarle. “Ecco, sono pronta,” aveva annunciato, ma prima di aprire la porta si era fermata un istante, poi era scesa ad affrontare di nuovo gli invitati.
Era stata la prima a scendere, ma pochi istanti dopo ecco che Geoffrey scendeva dietro di lei lasciandosi scivolare giù per il corrimano. La sua comparsa era stato il segnale di partenza per un attacco congiunto da parte degli infaticabili amici. Lo avevano acciuffato, lo avevano portato a braccia e gambe divaricate in giro per il prato, lo avevano buttato sull’erba e avevano cominciato a togliergli le scarpe e – orrore degli orrori – le calze. Alla vista dei piedi esangui dello sposo che scalciavano a mezz’aria, tra gli ospiti riuniti era corso un brivido. Due signore ipersensibili si erano strette in un abbraccio spasmodico. Charlotte era rimasta in piedi per qualche istante con aria incerta, osservando il gruppo intento alla lotta sul prato, poi era salita in macchina, dov’era rimasta misericordiosamente seminascosta alla vista. All’improvviso Geoffrey si era liberato e aveva raggiunto di corsa l’auto, lasciando calze e scarpe agli amici. Era salito a bordo incespicando, aveva sbattuto la portiera e acceso il motore.
“Ehi, non puoi andartene senza calze e scarpe, razza di stupido!” avevano gridato gli amici tenendole sospese in alto.
“Voi dite?” aveva gridato Geoffrey di rimando, ed era partito a razzo sul vialetto. Gli ospiti si erano prodotti in deboli acclamazioni e li avevano salutati con la mano, ma Charlotte non si era voltata.
“Questo è solo l’inizio,” aveva sentenziato Vera torva…
Dorothy Whipple (1893-1966), autrice di grande successo negli anni ’30 e ’40, descrive le classi medie nella prima metà del ’900 con un occhio particolarmente attento alle diseguaglianze, sia economiche sia di genere, e il pubblico che aveva in mente era composto da donne simili a lei, intelligenti, con un senso spiccato per la giustizia ma fondamentalmente dedite alle loro relazioni familiari.