TRAMA
Dall’autrice del bestseller La figlia del mercante di fiori
L’insegnante Thea Rust, al suo arrivo in un esclusivo collegio nella campagna britannica, non ha idea di quello che la aspetta. Da oltre centocinquanta anni, infatti, la “Casa della seta” è un rifugio per ragazze in difficoltà. È un antico edificio dal passato travagliato, dove le ombre nascondono più misteri di quanti lei possa immaginare. Thea ancora non lo sa, ma il suo destino sta per intrecciarsi con la sua storia. È la fine del 1700 e Rowan Caswell lascia il suo villaggio per lavorare nella casa di un mercante di seta inglese. Si tratta di un mondo del tutto nuovo per lei, e il suo talento erboristico attira fin da subito pericolose attenzioni.
Negli stessi anni a Londra, Mary-Louise Stephenson sogna di diventare una designer di seta, un lavoro, fino a quel momento, appannaggio degli uomini. Porta con sé uno scampolo di stoffa preziosissima, con un intricato motivo floreale, destinato a cambiare il suo destino.
Il nuovo avvincente romanzo storico dell’autrice bestseller che ha conquistato i lettori
«L’ho divorato con trepidazione dalla prima all’ultima pagina. Questo libro è un incantesimo.»
Natasha Lester
Hanno scritto di La figlia del mercante di fiori:
«Un po’ avventura, un po’ favola.»
IO donna
«Una storia romantica.»
Corriere della Sera
Hanno scritto di Le lettere d’amore di Esther Durrant:
«Un romanzo in cui il destino gioca carte impreviste…»
Il Venerdì di Repubblica
ESTRATTO
A Charlotte,
che adora spaventarmi con le sue storie.
Amori, ladri e paure creano spettri.
PROVERBIO TEDESCO
Capitolo 1
Presente
Come prima cosa Thea udì un suono, la spettrale eco di voci femminili levate in coro. Soprani e contralti che armonizzavano senza sforzo, una sequenza di note pura e cristallina che fluiva dalle finestre aperte e attraverso il tetto d’ardesia, lungo le mura di mattoni rossi consumate dall’azione centenaria dei venti e della pioggia, sui curatissimi campi da gioco e verso l’ampio viale alberato in cui si trovava. Le venne la pelle d’oca sulle braccia, mentre il vento soffiava a raffiche da dietro l’angolo della costruzione, facendole percepire quel canto più vicino, più forte. Guardando alla propria sinistra notò delle ombre, delle figure sfocate alle finestre quadrate. Con il calare della sera, l’effetto che ne scaturiva era etereo, ultraterreno. Un coro angelico. Le parole “e ti conceda la pace…” turbinarono intorno a lei, rimanendo sospese nell’aria.
Si fermò, si sollevò gli occhiali sul dorso del naso e ammirò l’edificio di fronte a lei. Era esattamente come si era sempre immaginata una scuola privata inglese, che si trascinava dietro il peso della sua storia nella pietra color miele, ricoperta di edera e glicine, nell’erba immacolata (indubbiamente curata da una schiera di giardinieri) e delineata da file ordinate di violette e alissi bianchi, nell’alta cancellata, nel loggiato ad arco, nella massiccia porta di quercia borchiata e laminata in ferro. Il posto trasudava tradizione, privilegio e denaro da ogni poro. In mezzo a edifici imponenti come questo la sensazione di essere un povero impostore trasandato ti arrivava dritta in faccia come uno schiaffo.
Il canto svanì e Thea riprese a camminare, trascinandosi dietro la valigia e imprecando sottovoce mentre questa continuava a incastrarsi nella ghiaia.
L’autobus l’aveva lasciata una mezz’ora prima sulla grande strada principale leggermente ricurva e non aveva avuto bisogno di indicazioni, avendo già fatto visita al college tre mesi prima per il colloquio. Era quasi arrivata, ma il ghiaino stava rendendo la parte finale del tragitto più difficile del dovuto. Si immaginò che la maggior parte dei visitatori arrivasse in auto e non, come lei, a piedi, il vialetto che scricchiolava piacevolmente sotto gli pneumatici costosi.
Con un ultimo strattone alla valigia, raggiunse il maestoso loggiato di pietra. Individuò una maniglia e l’afferrò, appoggiando la spalla contro la porta quando questa scattò. L’odore di c’era d’api, gigli, vecchi libri e, vagamente, di scarpe da ginnastica sudate – suo padre le avrebbe chiamate calzature ginniche – era travolgente.
Una volta entrata, la porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo che riverberò lungo il vasto corridoio. Si ritrovò nell’ingresso dal soffitto altissimo. Su un lato c’era un tavolo rettangolare, tirato a lucido, e su di esso vi erano sistemati in un lungo vaso inciso i gigli di cui sentiva l’odore. I fiori erano squisitamente aperti, i petali ricurvi verso l’esterno, di un immacolato color crema, il polline arancio acceso in equilibrio su ciascuno stame. Qualche altro giorno e sarebbero appassiti, andando verso la decomposizione, ma per il momento rappresentavano la perfezione.
Il suo sguardo superò i fiori, indugiando in fondo al vestibolo, dove un’ampia e sinuosa scala di pietra con un’elaborata balaustra si estendeva nella penombra.
«È in ritardo».
La voce era bassa e ponderosa quando le giunse tuonante dall’ombra. Thea si sforzò di capire da dove provenisse e, un attimo dopo, un uomo alto e magro dai capelli pettinati all’indietro e il volto scavato come il greto di un fiume asciutto emerse dal buio. La sua antiquata redingote sembrava essere stata confezionata per qualcuno più massiccio di lui, ma la cravatta era perfettamente annodata e alta su un colletto bianchissimo. Spesse sopracciglia schermavano i suoi occhi, e le spalle erano curve come per tenere lontano un freddo immaginario. L’uomo non incrociò il suo sguardo.
«Mi scusi… l’autobus è partito in ritardo dalla stazione». Controllò l’orologio. «Ma solo di una quindicina di minuti».
«Certo, lei viene dalle colonie», disse, come se ciò spiegasse tutto. «L’aspettavamo ieri, signorina Rust».
Thea si risentì. «Credevo che gli studenti arrivassero domani».
«È così, ma l’aspettavamo comunque ieri», ripeté lentamente, come se fosse stupida oltre che straniera.
Stava per scusarsi di nuovo, ma l’uomo era già scomparso nell’ombra.
Appena Thea aprì la bocca per chiamarlo, lui tornò con in mano un pesante anello di ferro al quale era appeso un set di chiavi. «Sono tre. Una per la porta d’ingresso, una per quella sul retro e l’altra… be’, immagino che lo scoprirà. Sempre che sia abbastanza sveglia». Le porse le chiavi con una mano e si sfregò il mento con l’altra. Grattandosi, sul bavero si accumularono delle scaglie di pelle morta, e Thea soffocò un brivido.
«Il dormitorio delle ragazze è sulla strada principale, al numero cinquantotto». Thea percepì una sorta di trasalimento nella voce dell’uomo, come se pronunciare la parola ragazze gli causasse dolore fisico. «Mi hanno informato che lei alloggerà là, almeno per il primo quadrimestre».
I ragazzi – i figli delle famiglie abbienti, come si gloriava il sito web – ricevevano la propria istruzione all’Oxleigh College dalla metà del diciannovesimo secolo. Secondo le letture di Thea, era stato fondato come ultimo disperato tentativo di salvare la città. Un tempo popolare meta sulla strada per Bath, Oxleigh aveva subìto un forte declino quando le ferrovie si erano dimostrate un mezzo di trasporto di gran lunga più veloce e più efficiente dalla capitale alla città termale. L’ex locanda di posta era diventata, e lo era ancora, la sede del rettore e il resto degli edifici si erano sviluppati intorno a essa. Dopodiché, con il successo dell’istituto, la città era di nuovo rinata.
Tuttavia, questo era il primo anno che l’Oxleigh College aveva ammesso delle ragazze. Aveva desistito molto più a lungo di altre scuole dello stesso tipo, che avevano iniziato ad accettarle diversi decenni prima, ma le immatricolazioni erano in calo e la scuola si era vista costretta a reggere il passo coi tempi, o almeno così aveva dedotto Thea. Era chiaro che quest’uomo, qualunque ruolo rivestisse, fosse tutt’altro che entusiasta della cosa.
Thea allungò la mano sinistra per prendere le chiavi, poi protese la destra per stringere quella del signore. «Thea. La nuova insegnante di storia».
«Questo lo so bene, signorina Rust», disse con una smorfia raggelante – non poteva essere definito un sorriso – e ignorando la sua mano. «Battle. Signor Battle per lei. Il custode».
«Sì, naturalmente», disse Thea, ritirando la mano quando l’uomo si voltò, congedandola.
«Torno sulla strada principale, allora?», chiese lei, mantenendo un tono di voce volutamente basso.
«È la porta verde. La successiva dopo quella di George e Dragon. Non si perda», mormorò con la testa girata verso di lei mentre scompariva di nuovo nell’ombra.
Invece di uscire subito, Thea fece un passo avanti, curiosa di vedere qualcos’altro della scuola, dato che non aveva avuto l’opportunità di soffermarsi molto durante la visita precedente. I suoi occhi, adesso, si erano abituati alla luce fioca e riusciva a distinguere dei grandi dipinti a olio di diversi eruditi appesi alle pareti rivestite in legno. Uno degli uomini ritratti, con una chierica di corti capelli scuri, era seduto dietro a una scrivania, indossava un paio di occhiali dalla rotonda montatura di metallo e ostentava un paio di piccoli baffi, la penna in mano. Un altro portava una toga da accademico con un cappuccio scarlatto e un tocco sulla testa. Un altro dipinto ancora, più contemporaneo rispetto ai primi, raffigurava un uomo giovanile dai capelli rossicci seduto su una panchina con un labrador ai piedi, il giardino e gli edifici del college alle sue spalle. Thea si avvicinò un po’ di più e lesse le iscrizioni. Sotto ciascun dipinto vi erano apposte la parola “rettore” davanti al nome dell’uomo in questione e le date in cui aveva rivestito la carica. Quello coi capelli rossicci, il dottor Alexander Fox, era l’attuale rettore; subito dopo era riportata la data 2011, ma non quella di fine servizio. Thea lo aveva incontrato durante il colloquio, e le era piaciuto il suo volto schietto e l’atteggiamento informale.
L’ AUTRICE
Kayte Nunn, lavora come editor per libri e riviste. È autrice di diversi romanzi di successo, tra cui la Newton Compton ha pubblicato La figlia del mercante di fiori, che è stato per settimane in vetta alle classifiche italiane, Le lettere d’amore di Esther Durrant e La casa della seta.