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1936. La minaccia di una nuova guerra incombe sull’Europa. Churchill ha appena riunito le menti più brillanti di tutto il Regno Unito in una grande casa nel Suffolk – nota come Bawdsey Manor -, determinato a stabilire una linea d’azione che porti gli alleati in vantaggio. Vincolati da un giuramento di massima segretezza, gli ospiti di Bawdsey Manor dovranno lavorare insieme a un’invenzione che potrebbe cambiare le sorti della guerra. Tra loro c’è Vic, un fisico tanto geniale quanto timido che, per la prima volta nella sua vita, sente di avere finalmente uno scopo e di contribuire a qualcosa di importante. Anche la giovane Kathleen, che lavora nella locanda poco distante, è decisa a fare la sua parte: non intende limitarsi a servire tè con i biscotti mentre il Paese attraversa l’ora più buia. E così, quando il team Bawdsey inizia a reclutare donne per far funzionare l’elaborato sistema top secret che gli scienziati stanno mettendo a punto, si offre volontaria. Non ci vuole molto perché Kath e Vic scoprano una complicità inaspettata, proprio quando le bombe cominciano a precipitare dal cielo, minacciando di distruggere ogni speranza di felicità.
Questo libro è dedicato ai nostri grandi amici
Niels e Ann Toettcher, senza i quali non avrei mai
conosciuto e amato Bawdsey Manor
«La bomba ha posto fine alla guerra,
ma il radar l’ha vinta».
Louis Brown, Technical and Military
Imperatives. A Radar History of World War II
Prologo
Dicembre 1973
Anche la città sembra curvare le spalle sotto il vento gelido che soffia da est. La spiaggia e i giardini pubblici sono deserti. Le vie del centro, invece, traboccano di addobbi natalizi e sciami di persone accorrono nei negozi come falene attratte dallo scintillio delle luci. Ai piedi del monumento ai caduti, un coro di bambini con berretti e sciarpe di lana colorati intona brani natalizi sfidando il vento pungente.
Gli torna alla mente com’era quel posto in tempo di guerra: i colori, grigio e marrone, le strade oppresse dalla desolazione e dalla paura, la spiaggia asserragliata dietro il filo spinato, agli ostacoli anticarro, ai fortini; considerato il suo stato d’animo, l’avrebbe preferita così. Al volante della sua vecchia Volvo svolta a sinistra per allontanarsi dall’atmosfera festosa e non correre il rischio di passare davanti alla stazione, dove per la prima volta aveva posato gli occhi su di lei. Sente un tuffo al cuore. Non ha nemmeno la forza di pronunciare il suo nome.
Alla fine, dopo essersi orientato senza grandi difficoltà nel reticolo di vie alberate della zona residenziale, di cui serba un vago ricordo, si ritrova su Ferry Road, che è tutta un saliscendi. La nebbia è così fitta che non riesce a vedere oltre il ciglio della strada, ma sa che con il bel tempo alla sua sinistra potrebbe ammirare il fiume sinuoso e luccicante che serpeggia nella palude, e alla sua destra i campi da golf che arrivano fino alle dune, oltre le quali spunta il mare del Nord.
Un chilometro dopo, poco prima che la strada finisca, accosta nei pressi della torre Martello e scende dall’auto, trasalendo per la brezza gelida che penetra come uno scalpello nel tessuto a trama larga della sua vecchia giacca di tweed. Spruzzi di acqua salata gli sferzano il volto. Aveva dimenticato quanto fosse esposto e selvaggio quel lembo solitario di terra, come ti facesse sentire alla completa mercé degli elementi.
Ma lui si trova lì per un motivo preciso. Torna alla macchina, prende la piccola valigia e si incammina svelto lungo la strada piena di buche, senza farsi distogliere dall’invitante scintillio delle luci natalizie all’interno della locanda, il Ferry Boat Inn, e della sala da tè. La foce del fiume Deben conserva la sua solita aria minacciosa: fauci percorse da correnti tumultuose che creano gorghi capaci di scaraventare anche i marinai più esperti sui banchi di sabbia.
Mancano appena cinque minuti alle quattro, ma nei pressi del pontile (una novità: un tempo saltavano direttamente dalla barca sulla spiaggia) non si vedono imbarcazioni, né uomini della compagnia marittima. Il battello una volta arrivava allo scoccare dell’ora, puntuale come un orologio, dalla mattina fino al tardo pomeriggio. Rimane ad aspettare,
guardando l’acqua che vortica sotto le tavole di legno della banchina, le alghe che fluttuano mosse dalla corrente come un groviglio di misteriose creature marine.
Dopo un po’, su un lato del pontile scorge un remo pitturato di bianco appoggiato a un palo, con le parole “battello a chiamata” scritte a mano. In tempo di pace gli accordi sono più informali, evidentemente. Lo agita con un certo imbarazzo, si ferma e infine ci riprova. “Chissà se Charlie è ancora vivo”, si domanda, “oppure se la licenza del battello ormai è passata a uno dei suoi figli”. Sia come sia, non arriva nessuno. Rimette il remo al suo posto e si incammina verso l’ufficio del comandante del porto. La porta è chiusa a chiave e le luci sono spente.
Quante volte aveva atteso su quella spiaggia, con la pioggia e con il sole… In un paio di occasioni lui e Johnnie, dopo aver perso l’ultima corsa, avevano cercato rifugio sotto una barca di pescatori rovesciata per passarvi la notte, in attesa del primo battello del mattino che li avrebbe portati a destinazione appena in tempo per l’inizio del turno. Oh, Johnnie, quanto mi sei mancato in questi anni.
I quattro tralicci di metallo, quei cari, vecchi amici, si distinguono a malapena a causa della nebbia che aleggia sul fiume, ma lui sa che sono lì, sulla sponda opposta. E poco distanti, in parte nascoste dai pini che costeggiano la spiaggia, sorgono le torrette di mattoni rossi della dimora padronale, quel luogo magico, più simile a un castello fiabesco che a una base dell’aviazione militare, che racchiudeva all’interno delle sue mura segreti riservati a pochi eletti. Ancora adesso, a quasi trent’anni di distanza, ripensandoci sente il petto gonfiarsi d’orgoglio.
Scorge alcuni cartelli arrugginiti: “MINISTERO DELLA DIFESA”, “PROPRIETà PRIVATA”, “divieto di accesso”. La base dev’essere ancora in funzione, sebbene lui stenti a comprenderne l’utilità quando la minaccia maggiore, al giorno d’oggi, è una bomba capace di spazzare via un Paese se non addirittura il mondo intero. Per quanto si sforzi di strizzare gli occhi, non vede luci alle finestre.
Attratto dal rumore delle onde che si infrangono sulla riva, scende sulla spiaggetta e inizia a camminare sui ciottoli. Quanto gli era mancato quel suono, il tonfo dei frangenti che si abbattono sui sassolini e si ritirano frusciando, ripetuto per tutta la lunghezza della spiaggia: buum… ssh… buum… ssh. “Non c’è da meravigliarsi se tanti compositori si sono ispirati al mare per le loro sinfonie”, pensa, “il ritmo è già bell’e pronto”. «Behold, the sea itself», canticchia, quasi felice nonostante l’umidità, il freddo e la disperazione, «Dusky and undulating… and on its limitless heaving breast, the ships»1.
Si ferma sulla battigia, riparandosi gli occhi dagli spruzzi, e osserva la distesa d’acqua in cerca di qualche segno di vita: una nave cisterna, un peschereccio, uno yacht. Niente,nemmeno un’imbarcazione in vista. Mare e cielo si fondono all’orizzonte senza soluzione di continuità.
Vic rabbrividisce. È bagnato e intirizzito. Per quella sera può scordarsi un caloroso benvenuto a Bawdsey Manor.
Quella mattina – così lontana nel tempo da sembrargli quasi un’altra vita – a Londra, dove vive, Vikram Mackensie è entrato in edicola e ha scambiato qualche parola con il proprietario, Bilal, come del resto ha fatto ogni santo giorno negli ultimi vent’anni. Bilal gli piace. Sebbene nessuno dei due tiri mai fuori il discorso perché si considerano inglesi a tutti gli effetti, hanno le stesse radici. Il loro Paese d’origine, nel frattempo, ha subìto una sanguinosa spartizione, ma ancora riconoscono l’uno nell’altro alcuni tratti della cultura che li univa. L’edicolante, di tanto in tanto, si concede persino un goffo e sommesso namasté.
Bilal è molto preoccupato per il signor Mac, da quando è rimasto vedovo. Era sempre stato un signore elegante, con la sua andatura fiera, il volto rasato di fresco e l’invidiabile chioma candida. Negli ultimi tempi, però, sembra che si sia lasciato andare. Prima, anche nelle giornate più calde non mancava mai di indossare giacca e cravatta; ora, invece, per il secondo giorno di seguito si è infilato un parka logoro e un paio di pantaloni sopra al pigiama, e ai piedi indossa dei mocassini rotti.
Tutti sanno che il signor Mac è un brillante scienziato che durante la guerra ha condotto ricerche importanti per il governo. Aveva sempre avuto quell’aria distratta tipica di chi è assorto in nobili speculazioni, ma ultimamente, come ripete spesso Bilal alla moglie, sta diventando proprio strambo. I suoi capelli non vedono un pettine o un paio di forbici da settimane, e assomiglia sempre di più ad Albert Einstein.
Bilal è consapevole che, per il signor Mac e per molti clienti anziani, le poche battute che scambiano con lui sono talvolta l’unico contatto umano dell’intera giornata.
«Buongiorno, signor Mackensie. Cosa posso fare per lei? È già il 21 dicembre, incredibile, eh? Il giorno più corto dell’anno. Arriveremo al 1974 senza nemmeno accorgercene, vedrà, e in un batter d’occhio sarà primavera». Anche se il negozio è addobbato con festoni e lustrini, Bilal pone sempre una particolare attenzione nell’evitare riferimenti al Natale. Al giorno d’oggi, chissà in cosa credono i clienti!
«Il solito, grazie». Vic non riesce a pensare alla primavera, già è tanto se arriva alla fine della giornata senza disperarsi troppo, ma accoglie sempre di buon grado il tenace ottimismo del negoziante. «Personalmente, vorrei che il prossimo anno fosse migliore di questo, e che non si parlasse più di lavorare solo tre giorni alla settimana, né della bomba atomica. E vorrei che tornasse la pace in Medio Oriente. Può esaudire i miei desideri?»
«Vedrò quello che posso fare, signore», risponde l’edicolante, consegnandogli il resto con un sorriso.
Quando rientra nel suo appartamento, Vic posa tre fette di pane sulla griglia (qualche mese prima il tostapane l’ha abbandonato) e riempie di acqua calda la vecchia teiera. Puntualmente fa bruciare il pane e, come ogni volta, gratta via lo strato nero nel lavello, spargendo briciole carbonizzate per tutto il bancone della cucina. Sistema il piatto e la teiera sul tavolo assieme al burro, che non ha mai tolto dal suo involucro, ormai lacero e macchiato. Sono passate decine di anni, eppure ancora gli viene da sorridere ripensando a suo padre che si faceva spedire pacchi di “vera” marmellata inglese e, nella soffocante calura indiana, si ostinava a farsela servire con riccioli di burro adagiati su un mare di scaglie di ghiaccio.
Versa il tè nella tazza che gli hanno regalato i colleghi del laboratorio quando è andato in pensione – con la scritta “Un fisico da fisico!” – e, mescolando con cura, aggiunge lo zucchero, che un tempo si concedeva di tanto in tanto mentre adesso, da quando è rimasto solo, è diventato un’abitudine. Prende il latte nel frigo e lo odora: non è freschissimo, ma ancora bevibile.
Afferra il giornale. Inizia sempre scorrendo rapidamente le pagine alla ricerca di qualche pezzo che possa interessargli, poi ripiega il quotidiano per renderlo maneggevole e si siede a leggere gli articoli selezionati per intero. In questo modo riesce a occupare un paio d’ore, lasciando da parte il cruciverba per il tè delle cinque. Stavolta, però, un titolo cattura la sua attenzione fin da subito. Incredulo, si lascia cadere sulla sedia e legge il pezzo da cima a fondo, con il cuore che gli martella forte nel petto. Giunto alla fine, posa il giornale sul tavolo e rimane immobile.
Ha l’impressione che il mondo abbia smesso di girare. Il capo è morto. Com’è possibile? Quell’uomo era una forza della natura, un concentrato di intelligenza, energia vitale e determinazione. Quasi tre settimane fa! Vic non riesce a capacitarsi.
Si maledice. Come ha fatto a non vedere il necrologio? Non è nemmeno andato al funerale. Chissà cos’hanno pensato gli altri! Non che si siano sentiti molto negli ultimi anni, da quando è andato in pensione… Si domanda con una certa curiosità quanti della vecchia squadra siano ancora vivi.
Begli anni, i migliori della sua vita, ma ormai appartengono a un passato lontano. Dev’essere stata una veglia funebre particolarmente chiassosa; i colleghi non avranno mancato di salutare il capo con numerosi brindisi. Un senso di perdita lo invade. Quanto gli dispiace non averli raggiunti, non essere stato lì con loro a rispolverare vecchi aneddoti e a brindare ai traguardi raggiunti con un bicchiere di whisky. A Johnnie sarebbe piaciuto tantissimo.
Il trillo del campanello lo riscuote dalle sue fantasticherie: è un vicino che vuole sapere se gli hanno consegnato per errore un pacco indirizzato a lui. «Purtroppo no», risponde distratto. Mentre si accinge a richiudere la porta, ha un’illuminazione e capisce cosa deve fare.
Impiega mezz’ora per trovare le chiavi dell’auto, che alla fine scova sotto una pila di numeri del «New Scientist» appoggiata sul pianoforte. Si sofferma per un istante a guardare lo strumento polveroso: dalla morte di Ella non è più riuscito ad aprirlo. Persino sentirne il suono alla radio gli riporta alla mente ricordi tristi. Prende il cappotto buono e la sciarpa blu di cachemire che gli aveva regalato lei un Natale, l’ultimo che avevano festeggiato insieme, afferra il giornale ed esce di casa.
L’auto, una vecchia Volvo, è ferma da diverse settimane nel garage in fondo alla via. «Speriamo che la batteria non sia scarica», mormora, cercando di infilare la chiave nel quadro con mano tremante. «Andiamo, vecchia mia». Dopo qualche tentativo, il motore inizia a borbottare riempiendo il garage di fumo scuro.
«E allora partiamo!», esclama con un sorriso, ingranando la retromarcia per immettersi in strada senza neppure guardare lo specchietto. «Questo sì che si può definire un viaggio sentimentale, Johnnie. Un viaggio nel passato!».
Aveva dimenticato quant’è lungo il tragitto da Londra alla costa del Suffolk. Negli ultimi tempi, il posto più lontano che ha visitato è la casa della cugina di Ella, che vive appena fuori dalla North Circular Road. “E c’è di più”, pensa Vic, imbottigliato nel traffico di Chelmsford: nonostante abbia fatto quella strada decine di volte, forse non l’ha mai percorsa in macchina prima d’ora.
Ricorda i treni stipati di donne e di soldati, le carrozze fumose, l’odore di lana bagnata e di piedi, l’aria carica di risate nervose e di occhiate guardinghe, le coppiette che si baciavano nei corridoi e nei bagni, cercando di strappare al destino un ultimo momento insieme. Giunti alla stazione di Felixstowe una vecchia corriera, ripitturata con il blu dell’aeronautica, accompagnava i viaggiatori all’imbarco del battello, dove trovavano ad accoglierli Charlie Brinkley con il cappello calcato sugli occhi e l’uncino stretto al timone.
La vista del palazzo, su una bassa scogliera nel punto in cui fiume e mare si congiungevano, era capace di risollevare anche il passeggero più esausto. Era un vero spettacolo: le eleganti torrette di mattoni rossi, le finestre in pietra, i balconi affacciati sui terrazzamenti del parco e sul campo da cricket, che si narrava fosse più grande del Lord’s di Londra.
Dopo aver attraversato a passo d’uomo Colchester ed essere rimasto bloccato per un’eternità nei dintorni di Ipswich, inizia a temere di non arrivare a Felixstowe in tempo utile per prendere l’ultimo battello.
Sulla spiaggetta fa un freddo terribile. Vic non riesce a prendere una decisione. Perché diamine ha fatto tutta quella strada? Da quando Ella è morta, gli capita sempre più spesso di chiedersi che senso abbia continuare a vivere. Ha pensato più di una volta di farla finita. Muove qualche passo verso l’acqua, come se il mare lo attraesse con la sua forza magnetica. Forse la soluzione è questa? Un passo in più, e le onde lo porterebbero via, risucchiandolo negli abissi.
No, è troppo vigliacco. Gli anni trascorsi in collegio gli hanno lasciato una forte avversione nei confronti dell’acqua fredda. Inoltre, essendo un uomo di scienza, è consapevole che, per quanto la mente possa essere determinata, il corpo non si consegna alla morte senza lottare. Si metterebbe ad annaspare e qualche passante che porta a spasso il cane magari lo vedrebbe o lo sentirebbe, e Vic non sopporta l’idea che qualcuno si senta obbligato a rischiare la vita per salvarlo.
Gli pare che il rumore ritmico delle onde voglia prendersi gioco di lui. Una folata di vento gli si infila a tradimento sotto il cappotto.
“Il suicidio non ti si addice, caro Vikram”, gli sussurra all’orecchio Johnnie, “fatti coraggio”. Per tutta risposta Vic si volta, dando le spalle al mare, e si avvia verso l’auto. Una cosa è certa: non può rimanere lì, su quella spiaggia deserta.
Una volta tornato al calduccio nella sua vecchia Volvo, felice di essere al riparo dal vento, ragiona sul da farsi. Le alternative sono due. Può raggiungere il palazzo via terra, risalendo il fiume fino a Woodbridge e poi scendendo sulla sponda opposta – un tragitto di una quarantina di chilometri – nella speranza che gli attuali abitanti di Bawdsey abbiano pietà di lui e gli offrano un letto per passare la notte. Oppure può cercare una stanza a Felixstowe e attendere il battello del mattino.
Frugando nella memoria gli torna in mente una pensione appena fuori dal paese, vicino ai campi da golf. Non ci è mai stato, ma dall’esterno gli è sempre sembrata accogliente. Al pensiero di cenare con un bel piatto di pesce fritto e patatine, e di dormire in un letto comodo, gli torna il buonumore. Gli sembra quasi di annusare l’odore di grasso e di pastella.
Al suo arrivo scopre che la pensione, nonostante l’aspetto malconcio, esiste ancora. Chi vive di turismo non deve passarsela bene, con i lavoratori perennemente in sciopero e i tagli all’energia elettrica. Quando entra, la ragazza alla reception gli lancia un’occhiata diffidente, scende dallo sgabello, si abbassa la minigonna e si liscia il caschetto alla Twiggy. «Sì, abbiamo stanze libere», dice, squadrandolo dalla testa ai piedi. Vic immagina cosa sta pensando: “Non si vedono molti neri da queste parti, chissà da dove viene? Forse non è psicopatico, è solo un tipo eccentrico. Parla come uno che ha studiato ma sembra che sia appena caduto in una siepe. Una siepe di rovi, per l’esattezza. Ha decisamente bisogno di un barbiere. Però ha un bel sorriso”.
La ragazza gli offre due diverse soluzioni: la camera migliore, completa di bagno e di una splendida vista sui campi da golf, costa cinque sterline e mezzo, colazione inclusa. Sognando un bagno caldo e delle lenzuola pulite, Vic riempie il modulo con la sua grafia filiforme e glielo consegna.
«Di solito chiediamo ai clienti di saldare in anticipo», gli dice. «Non perché temiamo che scappi senza pagare, signore, non è il tipo», si affretta ad aggiungere. «È una regola della direzione».
Lui annuisce, frugando nelle tasche della giacca in cerca del portafogli e chiedendosi chi siano i membri della “direzione”. Probabilmente sua madre e suo padre, che vivono nel cottage dietro la pensione.
«Bene, sono cinque sterline e cinquanta penny. Se può, è meglio se paga in contanti».
Vic si tasta le tasche dei pantaloni, prima quelle posteriori, poi quelle davanti. Non ricorda di aver preso il portafogli quella mattina. Anzi, non ricorda neppure dove l’ha messo una volta tornato dall’edicola. Un terribile presentimento gli chiude lo stomaco. Probabilmente, è ancora nella tasca del suo vecchio parka. Riesce quasi a vederlo, appoggiato sullo schienale della poltrona, dove l’ha lasciato quando è rientrato.
Estrae una manciata di spiccioli: due monete da sei penny che non è più riuscito a utilizzare dopo l’adozione del sistema decimale, alcuni soldi di rame, un pezzo da venti penny e una banconota logora da una sterlina, per un totale di una sterlina e trentotto penny. Non bastano neppure per prendere la stanza senza prima colazione.
«Accettate assegni?», balbetta, arrossendo sotto lo sguardo della ragazza, che si fa sempre più scettico. «Forse in macchina ho un libretto degli assegni. Oppure potrei andare in banca domani mattina per ritirare del contante».
«Se mi fa la cortesia di andare a controllare in auto, signore», risponde lei in tono freddo, «nel frattempo vado a chiedere al direttore se può andare bene».
Sa che si tratta di una perdita di tempo, ma torna comunque in macchina e si mette a frugare tra vecchi giornali, buste vuote e carte di caramelle, cercando sui sedili, sul ripiano del cruscotto, nel cassetto e persino nel bagagliaio. Trova mezza corona, una moneta che è stata ritirata dalla circolazione tre anni prima, un raccoglitore di bollini Green Shield e alcuni vecchi buoni Co-op, ma del libretto degli assegni nemmeno l’ombra. Si siede al posto di guida, appoggia i gomiti sul volante e sprofonda il viso fra le mani.
(…)
Prima parte
L’occhio magico
Capitolo 1
Luglio 1936
Suo padre aveva un amico che lavorava all’Orwell Hotel e sosteneva che potevano affittare la sala piccola per una festa privata al prezzo di cinque sterline, ammesso che ne aggiungessero altre dieci per il servizio bar.
«Bar? Hai intenzione di farle bere alcolici per il suo sedicesimo compleanno?», gridò sua madre, convinta che fosse ancora troppo piccola per certe cose. «Quindici sterline? Ma sei impazzito?».
Kath, seduta in cima alle scale, sentiva tutto e si immaginava la scena nei dettagli, come se fosse presente: papà nascosto dietro il giornale aperto, la mamma che camminava avanti e indietro sul tappetino di fronte alla vecchia stufa a legna, che era spenta dal momento che era luglio e quella era una delle giornate più calde dell’anno.
A un certo punto udì la voce di suo padre, calma e rassicurante: «Non capita tutti i giorni che tua figlia compia sedici anni, Maggie. È una ragazza con la testa sulle spalle, non esagererà. E poi, cosa c’è di male a bere mezza pinta di birra nel giorno del proprio compleanno?»
«Lei potrà anche avere la testa sulle spalle, ma i suoi amici? Parlo soprattutto dei maschi. Non si accontenteranno di mezza pinta, lo sai. Si ubriacheranno e faranno a botte. Che hai da dire, Bob?».
Il marito stava per cedere, Maggie ne era certa.
«E poi cos’ha che non va la sala parrocchiale?», proseguì la mamma. «Per i suoi sedici anni Mark ha organizzato una bella festicciola. Possiamo preparare una ciotola di punch alla frutta e i rotolini di salsiccia, portiamo un po’ dei tuoi vecchi dischi…».
Kath tornò in camera e chiuse la porta. La temibile sala parrocchiale, che puzzava di muffa e aveva i bagni nel cortile, pieni di ragnatele e insetti schifosi… Kath non voleva una “bella festicciola” come quella di suo fratello Mark. Finivano per essere sempre una noia mortale: i maschi in un angolo, le femmine in un altro, costretti a gridare per farsi sentire con la musica alta.
No, Kath aveva ben altro in mente: fili di piccole luci, una palla a specchi, una pista da ballo e un complesso swing. Una festa degna di Fred Astaire e Ginger Rogers. Be’, forse paragonare Felixstowe a Hollywood era un po’ esagerato, ma una festicciola nella sala parrocchiale con una ciotola di punch alla frutta era lontanissima da ciò che aveva immaginato per celebrare in una sola volta il suo sedicesimo compleanno, le ultime settimane di scuola, gli esami finali e l’inizio dell’età adulta.
Come sarebbe stata la sua vita futura? Non ne aveva la più pallida idea e un po’ la spaventava, anche se non lo dava a vedere. Quel sabato, lei e Joan andarono in spiaggia e, dopo un brevissimo bagno nell’acqua gelida, stesero gli asciugamani sulla sabbia per iniziare a lavorare sull’abbronzatura.
«Ah, che bello», esclamò Kath, stirandosi e chiudendo gli occhi. «Finalmente è arrivata l’estate. Niente più compiti in classe e, fra poco, niente più scuola. In vacanza per sempre».
«Non andrai al college?», disse Joan, appoggiando la testa sulla mano.
«Non ci ho ancora pensato».
«Allora cercherai lavoro?»
«No, se posso evitarlo. Sai che soddisfazione fare la commessa o servire turisti maleducati in un caffè! Tutto il giorno in piedi!». Kath strizzò gli occhi, riparandoli con la mano dalla luce forte del sole. «Non fa per me».
Sapeva che i suoi genitori avrebbero preteso che cercasse un impiego, per lo meno finché non trovava un marito. Era inevitabile. Maggie, sua madre, a parte quando i figli erano molto piccoli, aveva sempre lavorato. Al momento faceva la cuoca nella mensa di una scuola privata di Lower Walton. Andava sempre al lavoro in bicicletta, anche quando diluviava. L’orario era perfetto: era sempre a casa quando rientravano da scuola e durante le vacanze. Un secondo stipendio aveva permesso alla sua famiglia di acquistare una porzione di villetta bifamiliare con tre camere da letto in una bella via alberata non distante dal lungomare, dotata di tutti i comfort moderni: fornelli elettrici, frigorifero e aspirapolvere. Avevano addirittura la lavatrice.
«E come farai a mantenerti?», le chiese Joan.
«Troverò un marito ricco», rispose Kath. «Preferibilmente bello e che sappia ballare».
Joan fece una smorfia. «Non so dove potresti trovarlo, un uomo così».
«Mark ha degli amici alla stazione». Si riferiva alla stazione sperimentale di Landguard, di solito indicata con la sigla MAEE, in cui venivano progettati idrovolanti e dove il fratello lavorava come apprendista falegname. Al contrario della sorella, Mark aveva le idee molto chiare sul proprio futuro: voleva diventare un pilota. I suoi amici erano molto più sofisticati dei coetanei di Kath, e alcuni erano decisamente belli.
In particolare, Kath aveva messo gli occhi su un ragazzo di nome Billy, che ogni tanto Mark portava a casa. Se ne stava seduto in cucina, dondolandosi sulle gambe della sedia, fumando una sigaretta dopo l’altra e bevendo birra direttamente dalla bottiglia. Indossava pantaloni ampi e golfini stretti, spesso a righe, e a lei sembrava il tipo più eccitante che avesse mai incontrato. Sua madre non era dello stesso avviso: non appena se ne andava spalancava porte e finestre, anche se faceva brutto tempo, lamentandosi della puzza disgustosa del tabacco.
«Non vorrai rimanere qui per sempre?», le domandò l’amica. Joan era una delle studentesse più brillanti della classe ed era capace di prendere ottimi voti con il minimo sforzo. Se avesse ottenuto la media a cui ambiva, si sarebbe iscritta all’istituto tecnico di Ipswich per studiare stenografia e dattilografia.
Kath detestava sentir parlare male di Felixstowe. Secondo lei era perfetta. Non le mancava niente: aveva la spiaggia, un bel lungomare, i giardini pubblici, il circolo di tennis e un buon numero di negozi; c’erano i balli al municipio o al padiglione sul molo ogni fine settimana e la palude per stare in solitudine. Perché andarsene? E poi, tutti i suoi amici erano lì.
Kath era una di quelle giovani che affrontavano la vita con leggerezza, avendo scoperto fin da piccola che un sorriso dolce era più potente di mille parole e che nella maggior parte dei casi poteva farle ottenere ciò che desiderava. Non era la ragazza più carina della classe, e di sicuro non era la più sofisticata, eppure era una delle più popolari; non si poteva definire una studentessa brillante, eppure se la cavava; quando formavano le squadre di hockey non veniva mai scelta per prima, ma nemmeno per ultima. Non aveva la più pallida idea di come sarebbero andati gli esami finali e non gliene importava granché; fino a quel momento non aveva riflettuto su cosa avrebbe voluto fare da grande, sebbene avesse maturato la vaga convinzione che un giorno si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli…
Liz Trenow ha lavorato come giornalista per la radio e la TV, tra gli altri anche per la BBC. È autrice di otto romanzi, tradotti in diversi Paesi. Canta in due cori musicali, prediligendo il repertorio classico. La Newton Compton ha pubblicato Il mercante di seta, Un amore perduto e La casa dei segreti.
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