trama
Casa, famiglia, matrimonio. Ogni cosa ha il suo prezzo.
«Superbo» – Washington Post
«Pieno di twist inaspettati… Una storia che avvince fin dalle primissime righe» – Sunday Times
«Louise Candlish ci trasporta in un mondo da incubo in cui tutte le nostre certezze vengono meno» – Fiona Barton
«Non so dirvi dove abito, solo dove abitavo, perché un mese fa mio marito ha venduto la nostra bellissima casa. E poi è sparito.»
Non può essere vero. Deve esistere una spiegazione. Perché nell’imboccare la via dove abita, in un ricco e tranquillo quartiere residenziale alle porte di Londra, Fiona Lawson vede qualcosa di inconcepibile: una coppia di estranei intenta a traslocare al numero 91 di Trinity Avenue. Casa sua. La stessa in cui lei e il marito, Bram, abitano insieme ai figli a settimane alterne, da quando il tradimento di lui li ha portati alla separazione. Mentre l’amica e vicina Merle accorre in suo aiuto, i tentativi di Fiona di mettersi in contatto con quello che legalmente è ancora suo marito non danno alcun frutto. Bram è sparito, volatilizzato nel nulla. Tutto lascia pensare che abbia trovato il modo di vendere Trinity Avenue all’insaputa di Fiona, per trasferire il ricavato su un conto segreto e far perdere le sue tracce. La domanda che rimbalza ossessiva nella mente di Fiona e del lettore è una sola: perché? Segreti, ricatti, ripicche e menzogne abbondano in questo racconto a due voci di un matrimonio – e di un pugno di vite – deragliati in un tumultuoso innescarsi di reazioni a catena. Perché basta un istante per capovolgere tutto ciò che crediamo di sapere sul conto di noi stessi e di coloro che amiamo.
Estratto
1
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Venerdì 13 gennaio 2017
Londra, ore 12.30
Deve esserci uno sbaglio, perché si direbbe che qualcuno stia traslocando in casa sua.
Il furgone è parcheggiato a metà di Trinity Avenue e un mobile ingombrante sporge dalle fauci spalancate del portellone posteriore e scivola lungo la pedana di metallo. Fi osserva la scena da mezzo isolato di distanza, strizzando gli occhi nella luce calda e burrosa – un fatto raro, in quel periodo dell’anno, una benedizione – mentre due uomini varcano il cancello e percorrono il vialetto, trasportando il mobile a spalla.
Il mio cancello. Il mio vialetto.
Non ha alcun senso: non può essere casa sua, è semplicemente impossibile. Deve trattarsi di quella dei Reece, a due civici di distanza; l’hanno messa sul mercato l’autunno scorso e nessuno sa se alla fine siano riusciti a venderla. Su quel lato di Trinity Avenue, le abitazioni sono tutte uguali – villette edoardiane di mattoni rossi, con un portoncino di legno nero e due finestre per lato – e tutti concordano nell’affermare che confondersi è questione di un attimo.
Una volta, tornando a casa da una delle sue “bevutine” al Two Brewers, Bram aveva sbagliato portone e dalla finestra aperta della stanza da letto Fi lo aveva sentito sbuffare e imprecare, mentre cercava di infilare la chiave nella serratura del civico 87, la casa di Merle e Adrian.
«Sono tutte uguali!» aveva protestato il mattino dopo.
«È vero, ma è impossibile non vedere la magnolia, persino da ubriachi» aveva risposto Fi, scoppiando a ridere. (Questo all’epoca in cui la propensione del marito a esagerare con l’alcol le appariva quasi divertente, invece di suscitarle tristezza o disprezzo, a seconda dei casi.)
D’un tratto è come se le mancasse la terra sotto i piedi: la magnolia. Lei e Bram sono gli unici a godere di quello spettacolo, magnifico in qualsiasi stagione. E il furgone è parcheggiato proprio lì davanti.
Pensa, Fi. Pensa. Deve trattarsi di una consegna: Bram ha comprato un mobile nuovo e si è dimenticato di avvisarla. Sviste di questo genere non sono infrequenti; la nuova organizzazione non è priva di difetti, Fi è la prima ad ammetterlo. Accelera il passo, alzando la mano per ripararsi dal sole, finché non è abbastanza vicina da leggere la scritta sul fianco del furgone: TRASLOCHI PRESTIGE. Dunque è davvero un trasloco. Forse sono amici di Bram, passati a lasciar giù qualcosa di ingombrante lungo il tragitto verso una casa troppo piccola. Un pianoforte per i ragazzi non sarebbe male (Ti supplico, fa che non sia una batteria).
Ma ecco che gli addetti tornano verso il furgone per caricarsi in spalla altri oggetti: un grande vassoio rotondo, uno scatolone con la scritta FRAGILE, un armadietto alto e stretto come una bara. Di chi diavolo sono quelle cianfrusaglie? Uno spasmo di rabbia le serra lo stomaco mentre giunge all’unica conclusione possibile: Bram ha invitato qualcuno a stare da loro per qualche tempo. Un compagno di bevute, senza dubbio, qualche spiantato senza altro posto dove andare. («Puoi fermarti quanto vuoi, amico, lo spazio non manca.») Quando contava di informarla, l’irresponsabile? Be’, Fi non ha alcuna intenzione di permettere a un estraneo di piazzarsi in casa sua, fosse anche per qualche giorno. I ragazzi vengono prima di qualunque altra cosa: non sono forse questi i patti?
È quasi arrivata. Mentre passa davanti al civico 87, si accorge di Merle, alla finestra del primo piano, accigliata, un braccio alzato per attirare la sua attenzione. Fi le rivolge un breve cenno, mentre varca il cancello e percorre decisa il vialetto.
«Scusate? Dico a voi! Volete spiegarmi cosa sta succedendo?» Ma nella confusione che la circonda, nessuno le dà ascolto. Parla di nuovo, questa volta a voce più alta: «Si può sapere dove state portando tutta questa roba? Dov’è Bram?».
Una donna mai vista prima esce sulla soglia. «Salve, posso aiutarla?» domanda con un sorriso.
Fi sussulta, come davanti a un fantasma. Sarebbe questo, l’amico in difficoltà di suo marito? Le somiglia più nei modi, che nell’aspetto: è bionda, dal piglio energico, il classico tipo che si rimbocca le maniche e prende l’iniziativa. Più giovane di Fi, però. Sulla trentina. Il genere di donna che – la storia insegna – tende a soffocare gli spiriti liberi come Bram. «Spero proprio di sì, grazie. Sono Fi, la moglie di Bram. Cosa sta succedendo? Lei è… una sua amica?»
La sconosciuta si avvicina, ha l’aria perplessa. «La moglie di chi?»
«Di Bram. L’ex moglie, in realtà.» A quella precisazione, la donna le propone di spostarsi qualche passo più in là, per non intralciare i “ragazzi”. Mentre quello che sembra un enorme dipinto accuratamente imballato le sfila accanto, Fi si lascia condurre sotto le fronde della magnolia. «Si può sapere che accordi ha preso con mio marito?» domanda. «Di qualunque cosa si tratti, devo informarla che non ne so nulla.»
«Temo di non seguirla» ribatte la donna. Ha la fronte corrugata, lo sguardo diretto, gli occhi di un color nocciola dorato. «Abita qui vicino?»
«Abito qui» ribatte Fi, impaziente.
Le rughe sulla fronte dell’estranea si accentuano. «Questo non è possibile. Abbiamo comprato da poco. Mio marito sarà qui a momenti con il secondo furgone. Siamo i Vaughan?» Pronuncia l’ultima frase in tono interrogativo. Le porge la mano per una stretta formale. «Mi chiamo Lucy.»
Fi non crede alle proprie orecchie, ai messaggi ingannevoli che il cervello le sta trasmettendo. «Senta, sono la proprietaria di questa casa e penso che se l’avessi data in affitto, lo saprei.»
Lucy Vaughan la guarda confusa, le guance accese da un repentino rossore. «Non l’abbiamo presa in affitto. L’abbiamo comprata» puntualizza.
«Non dica sciocchezze!»
«Sono serissima!» Lucy consulta l’orologio. «Siamo diventati i nuovi proprietari a mezzogiorno in punto, ma l’agente immobiliare ha acconsentito a consegnarci le chiavi con un po’ di anticipo.»
«Di che diamine parla? Quale agente? Nessuno a parte me e mio marito ha le chiavi di questa casa!» Sul viso contratto di Fi affiorano emozioni contrastanti: paura, frustrazione, rabbia, un’ombra di ilarità. Perché deve per forza trattarsi di uno scherzo, anche se di proporzioni inaudite. Cos’altro potrebbe essere? «Sono su Candid Camera?» Lancia uno sguardo alle spalle della donna, cercando una telecamera, un cellulare pronto a immortalare il suo sconcerto, ma non lo trova: soltanto scatoloni. «Perché le assicuro che non mi sto divertendo affatto. Dica a quelle persone di darci un taglio.»
«Non ci penso proprio» sbotta Lucy. Ma un attimo dopo cambia tono ed espressione «Un momento. Fi, hai detto? Ti chiami Fiona?»
«Sì. Fiona Lawson.»
«Allora devi essere…» Lucy si guarda attorno, registra gli sguardi incuriositi dei traslocatori. «Forse è meglio se entriamo.»
Fi si ritrova a varcare la soglia di casa – la sua casa – come se fosse un’ospite. Mette piede nell’ingresso e resta di sale. Quello non è il suo ingresso. Le dimensioni sono le stesse, certo, le pareti del solito colore, un elegante azzurro smaltato, e le scale sono ancora al proprio posto, ma lo spazio è stato svuotato, depredato di ogni traccia di familiarità: la ribaltina e la vecchia cassapanca in legno, il mucchio di scarpe e le borse, le foto alle pareti. E l’adorato specchio con la cornice in palissandro, eredità di sua nonna: scomparso anche quello. Allunga una mano a toccare il muro, come se temesse di non trovarlo sotto il sottile strato d’intonaco.
«Chi ha portato via le nostre cose?» pretende di sapere. È in preda al panico e la sua voce risuona stridula.
«Io non ho portato via proprio niente» risponde Lucy. «Sei stata tu a farlo. Ieri, credo.»
«Stai mentendo. Fammi controllare al piano di sopra.»
«Be’…» prova a obiettare Lucy, ma Fi sta già salendo le scale due gradini alla volta. Nelle stanze nulla è come dovrebbe essere: mobili e suppellettili sono spariti. Restano solo i segni
sulla moquette, nei punti dove fino a ventiquattr’ore prima c’erano le gambe dei letti, le librerie e gli armadi. Una macchia verde lasciata da una slimeball sul pavimento della stanza dei ragazzi. Una confezione di shampoo all’olio di melaleuca – ricorda di averla comprata da Sainsbury’s – nell’angolo della doccia. Ovunque, l’odore pungente del detergente al limone.
«È assurdo» mormora Fi tornando al piano terra. La sensazione di straniamento le annebbia i pensieri. «Non capisco. Mi spieghi cosa diavolo sta succedendo, per favore.»
«È quello che sto cercando di fare. Andiamo in cucina: qui intralciamo i lavori.»
Anche la cucina è spoglia, fatta eccezione per un tavolo, delle sedie e uno scatolone aperto sul piano di lavoro. Lucy accosta la porta per risparmiare alla sua ospite la vista degli operai e del loro indaffarato andirivieni.
Ospite. Sono un’ospite in casa mia.
«Guarda queste e-mail» dice Lucy, porgendo a Fi il cellulare. «Sono del nostro legale, Emma Gilchrist.»
Fi prende il telefono e si sforza di mettere a fuoco. La prima e-mail ha la data del lunedì precedente e riporta i dettagli della trattativa tra David e Lucy Vaughan e Abraham e Fiona Lawson, in relazione alla compravendita del 91 di Trinity Avenue, Alder Rise. La seconda è di quella mattina e conferma l’avvenuto passaggio di proprietà.
«Poco fa l’hai chiamato Bram» prosegue Lucy. «Per questo ci ho messo un minuto a collegare. È il diminutivo di Abraham, ovvio.» E aggiunge: «Guarda anche questo. È un contratto per la fornitura del gas intestato ai Vaughan di Trinity Avenue».
Fi le restituisce il telefono. «Non significa un bel niente. Le mail potrebbero essere false. Magari è un caso di phishing.»
«Phishing?»
«Sì. Qualche settimana fa, a casa di Merle, ho partecipato a una riunione di quartiere sulla criminalità e l’agente ci ha spiegato come funziona. Le e-mail e le fatture finte sono sempre più credibili. Ci cascano anche i più svegli.»
Lucy la guarda incredula. «Sono vere, te lo assicuro. È tutto vero. A quest’ora il denaro dev’essere già sul vostro conto.»
«Quale denaro?»
«Il prezzo pattuito per l’acquisto della casa! Mi dispiace, ma non posso continuare a ripetere le stesse cose all’infinito!»
«Nessuno ti ha chiesto di farlo» sibila Fi di rimando. «Ti sto dicendo che dev’esserci uno sbaglio. Non puoi aver comprato una casa che non è mai stata in vendita.»
«E invece era in vendita, eccome! Altrimenti come avremmo potuto acquistarla?»
La testa di Fi è sul punto di esplodere. Ciò che questa Lucy sostiene e il modo in cui si sta comportando sono pura follia; eppure non ha affatto l’aria di una pazza. Al contrario, è chiaro che agli occhi di Lucy la squilibrata è lei, Fiona.
«Credo che dovresti chiamare tuo marito» conclude Lucy incrociando le braccia.
Ginevra, ore 01.30
È a letto, nella sua camera d’albergo, e non trova pace. Il materasso, confortevole, non basta certo a placare il suo stato di agitazione. Nemmeno i due antidepressivi che ha trangugiato hanno sortito alcun effetto. Forse sono stati i voli a renderlo così irrequieto, il modo impietoso in cui quei bestioni alati hanno sobbalzato lungo tutto il tragitto, scricchiolando e gemendo sotto il proprio stesso peso. O più probabilmente è il terrore di fronte a quello che fatto, la consapevolezza di aver sacrificato tutto.
Perché ora è tutto vero. L’orologio svizzero ha suonato l’una e mezzo; mezzanotte e mezzo a Londra. Quella che per settimane è stata soltanto una spaventosa prospettiva, adesso è un fatto: Bram è un fuggitivo, un uomo alla deriva per sua stessa volontà. Si era illuso di provare un cupo senso di sollievo, ma adesso che il momento è arrivato, la sua mente è invasa dal… nulla.
Oddio, Fi. Ha già saputo? Qualcuno avrà pur visto. Qualcuno le avrà telefonato per avvisarla. Forse è già sulla strada di casa.
Si mette seduto, la schiena appoggiata alla testiera, e cerca di concentrarsi su un punto della stanza. La poltrona è in similpelle rossa, la scrivania è verniciata di nero. Un rigurgito di estetica anni Ottanta, più inquietante del dovuto. Fa scivolare le gambe giù dal letto. Il pavimento è caldo sotto i piedi nudi: linoleum, o qualche altro materiale sintetico. Fi saprebbe riconoscerlo all’istante, è un’appassionata di arredamento d’interni.
Il pensiero scatena una fitta di dolore, gli toglie il fiato. Si alza, alla ricerca di ossigeno – la stanza è al quinto piano e il riscaldamento è al massimo –, ma dietro i pesanti tendaggi le finestre sono sigillate. Le auto, bianche, nere e color argento, sfrecciano lungo le carreggiate che separano l’albergo dall’aeroporto e, in lontananza, le montagne, le vette bianche venate di un azzurro glaciale. Intrappolato, si gira a guardare la stanza e improvvisamente si ritrova a pensare a suo padre. Allunga la mano verso la poltrona, si aggrappa allo schienale. Non ricorda il nome dell’albergo. Lo ha scelto perché è vicino all’aeroporto, perché si tratta di un luogo senz’anima, com’è giusto che sia.
In fin dei conti è esattamente questo ciò che ha fatto. Ha venduto l’anima.
Tuttavia non ha dimenticato come ci si sente ad averne una. Non ancora.
2
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Marzo 2017
Benvenuti nel sito web La Vittima, il crime podcast acclamato dalla critica e vincitore del Premio Nazionale Audiodocumentari. Ogni episodio è un caso di cronaca nera raccontato direttamente dalla voce della vittima. Non vogliamo fare indagini investigative, ma offrire uno sguardo privilegiato sulla sofferenza di un innocente. Dallo stalking al furto d’identità, dall’abuso domestico all’appropriazione indebita, ogni vittima vi accompagnerà in un viaggio terribile, che è anche uno specchio inquietante dei nostri tempi.
Il nuovo episodio, intitolato La storia di Fi, è disponibile da adesso! Puoi ascoltarlo direttamente dal sito o tramite app. Durante l’ascolto, non dimenticarti di commentare con un tweet, utilizzando l’hashtag #VittimaFi
Attenzione: in questo programma viene usato un linguaggio forte.
Stagione 2, Episodio 3: La storia di Fi > 00:00:00
Mi chiamo Fiona Lawson e ho quarantadue anni. Non so dirvi dove abito, ma solo dove abitavo, dato che sei settimane fa mio marito ha venduto la nostra casa senza avvisarmi né chiedermi il permesso. Lo so, dovrei dire “dichiaro che”, dovrei dirlo prima di ogni frase, perciò dirò così: “dichiaro che” tutto quello che racconterò in questa intervista corrisponde al vero. Perché i contratti legali non mentono, giusto? E l’autenticità della sua firma è stata confermata dagli esperti. Sì, i dettagli devono ancora essere chiariti – inclusa l’identità del suo complice – ma come potete vedere devo ancora scendere a patti con l’unica cosa che conta, e cioè col fatto che non ho più una casa.
Non ho più una casa.
Certo, dopo aver ascoltato la mia storia penserete che dovrei prendermela soltanto con me stessa, e lo faranno tutti gli ascoltatori. So come funziona. Ognuno andrà su Twitter a dire che sono proprio un’ingenua. E lo capisco. Ho ascoltato tutta la Stagione 1 e ho fatto la stessa cosa anch’io. La linea che separa la vittima dallo sprovveduto è piuttosto sottile.
«Poteva capitare a chiunque, signora Lawson» mi ha detto una poliziotta il giorno in cui l’ho scoperto, ma voleva soltanto essere gentile, perché piangevo a dirotto e aveva capito che una tazza di tè non sarebbe bastata a calmarmi. (Più facile un po’ di morfina.)
No, una cosa del genere poteva capitare soltanto a una persona come me, troppo idealista, troppo indulgente. Una persona che si era illusa di poter cambiare la natura umana: trasformare un uomo debole in un uomo forte. La solita vecchia storia, insomma.
Perché ho deciso di partecipare a questa trasmissione? Chiunque mi conosca può dirvi che sono una persona molto riservata, quindi perché espormi al pubblico ludibrio, al compatimento o altro? Be’, in parte perché voglio avvertirvi che queste cose possono accadere veramente. I casi di appropriazione indebita sono in aumento: i giornali ce ne parlano ogni giorno, polizia e addetti ai lavori cercano di stare al passo con la tecnologia. Chi possiede una casa deve stare in guardia: non potete immaginare di cosa sia capace un truffatore professionista, ma anche un dilettante, se è per questo.
In più, c’è un’indagine in corso e la mia storia potrebbe risvegliare la memoria di qualcuno, incoraggiare chi avesse informazioni a contattare la polizia. A volte non riusciamo a capire quanto un dettaglio sia importante finché non lo collochiamo nel suo contesto, ed ecco perché la polizia non è contraria alla trasmissione, o meglio, diciamo che non mi ha chiesto di non farla. Immagino sappiate che, poiché siamo sposati (che cosa ridicola), in caso di processo non sono obbligata a testimoniare contro Bram. Per legge lo siamo ancora, anche se io lo considero il mio ex fin dal giorno in cui l’ho sbattuto fuori di casa. Naturalmente, potrei scegliere di testimoniare, ma affronteremo la cosa a tempo debito, così dice il mio avvocato.
A essere sincera, secondo me lei non crede che ci sarà mai un procedimento legale a carico di mio marito. Pensa che Bram abbia già una nuova identità, una nuova casa, una nuova vita e tutto grazie al suo recente gruzzoletto.
Dice che non riusciamo più a prevedere quanto in là le persone possano spingersi per truffarsi le une con le altre.
Anche un marito con la moglie.
A proposito: mi avete detto che ci sono buone possibilità che lui mi ascolti, che la trasmissione potrebbe essere la molla che lo spinge a farsi vivo. Be’, allora voglio dirvi una cosa, anzi voglio dire a lui una cosa, e non mi interessa cosa ne pensa la polizia:
Non pensare minimamente di tornare, Bram. Se lo fai, giuro che ti uccido.
#VittimaFi
@rachelb72 Ma il marito dov’è finito? Si è dato alla fuga?
@patharrisonuk @rachelb72 Sarà scappato con i soldi. Chissà quanto valeva la casa!
@Tilly-McGovern @rachelb72 @patharrisonuk È stato suo MARITO? Wow, il mondo fa davvero schifo.
Bram Lawson, estratto da un documento Word inviato via e-mail da Lione, Francia, marzo 2017
A scanso di equivoci, vi dico subito che questo è un biglietto d’addio. Quando lo leggerete mi sarò già tolto la vita. Date la notizia con gentilezza, per favore. Sarò anche un mostro, ma sono sempre il padre di due bambini, che soffriranno perché me ne sono andato e che hanno il diritto di ricordarmi serenamente.
Questo vale anche per la madre, una donna più unica che rara che adesso starà vivendo in un incubo, tutto per colpa mia.
Una donna che, ci tengo a sottolinearlo, non ho mai smesso di amare.
3
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La storia di Fi > 00:03:10
Per quanto disastrosa, se non addirittura catastrofica, sia la situazione, credo che abbia avuto un epilogo piuttosto calzante, perché per noi tutto è sempre ruotato intorno alla casa. Il nostro matrimonio, la nostra famiglia, la nostra intera vita: tutto sembrava avere un senso soltanto tra le pareti domestiche. Bastava uscire di lì – anche per una di quelle favolose vacanze che ci regalavamo quando i bambini erano molto piccoli e avevamo parecchio sonno arretrato – e la colla che ci univa sembrava venir via. La casa era il nostro riparo, ci proteggeva e ci definiva. Ha tenuto in vita il nostro rapporto ben oltre la data di scadenza.
E poi, guardiamoci in faccia: siamo a Londra. Negli ultimi tempi la casa aveva acquisito più valore di quanto potessimo accumularne con i nostri stipendi messi insieme. Era come un capofamiglia, la nostra benevola padrona. Per gli amici e i vicini funzionava allo stesso modo: come se la nostra linfa vitale si tramutasse in mattoni e malta. I nostri risparmi non venivano investiti in fondi pensionistici, scuole private o finesettimana romantici a Parigi, ma nella casa. È l’investimento più sicuro, ci dicevamo. Non ci voleva una laurea in economia per capirlo.
Mi ero completamente dimenticata, e lo ricordo ora, che quel giorno, il giorno terribile in cui rientrando a casa ci trovai i Vaughan, Merle chiese loro a bruciapelo qualcosa che a me non era venuto in mente: «Quanto l’avete pagata?».
E anche se il mio matrimonio, la mia famiglia, la mia vita erano stati distrutti, smisi per un istante di piangere e ascoltai la risposta: «Due milioni» disse Lucy Vaughan con un filo di voce.
Ne valeva di più, pensai io.
Noi valevamo di più.
La comprammo per un quarto di quella somma e allora erano comunque parecchi soldi, tanti da toglierci il sonno. Ma non appena posai gli occhi sul 91 di Trinity Avenue, pensai che fosse l’unico posto che meritava la mia insonnia. Mi aveva colpita la sicurezza borghese della facciata esterna in mattoni rossi, con le rifiniture in pietra chiara, gli stucchi immacolati e il glicine che si arrampicava sul romantico balcone in ferro battuto sopra la porta d’ingresso. Era imponente ma benevola, solida ma piena di fascino. Per non parlare dei vicini, con cui ci sentivamo in sintonia. Dopo tante ricerche avevamo scovato quel posto incantevole, ci eravamo allontanati dal centro un po’ più del previsto in cambio dell’atmosfera languida e dolce che si respira in periferia, la stessa aria zuccherosa di una pasticceria mediorientale.
L’interno era tutta un’altra storia. Se ripenso ai lavori che abbiamo fatto negli anni, alle energie investite nella casa (per non parlare dei soldi!), non riesco a credere che l’avessimo comprata in quelle condizioni senza battere ciglio. Andando in ordine sparso, fu necessario ristrutturare la cucina, dare una rinfrescata ai bagni, ridisegnare i giardini (posteriore e anteriore), ammobiliare lo sgabuzzino al piano di sotto, riparare il telaio delle finestre, rinnovare il parquet. Poi, terminati i lavori strutturali, ci dedicammo a riempirla di cose nuove: nuove portefinestre che davano sul giardino, nuovi pensili e piano di lavoro per la cucina, nuovi armadi su misura per le camerette dei bambini, nuova parete divisoria per la sala da pranzo, nuovo cancello d’ingresso, area giochi e scivolo sul retro… e così via, in un cantiere senza fine. Sembrava che io e Bram (ma principalmente io) fossimo a capo di una fondazione filantropica che intaccava pesantemente il budget annuale e a cui dedicavamo tutto il nostro tempo libero. Era un turbinio continuo di appuntamenti, supervisione dei lavori e ricerche online e offline di impianti e finiture e di tutto il necessario per fissarle e mantenerle; e poi colori, palette, materiali, consistenze… E la cosa tragica è che non mi è mai passato per la testa di dire «È finita!». L’idea di casa perfetta mi sfuggiva sempre, come il dongiovanni di un vecchio romanzo d’amore.
Certo, se potessi tornare indietro nel tempo, non muoverei un dito. Mi concentrerei sulle persone. Le aiuterei a ristrutturare loro stesse prima che possano autodistruggersi.
#VittimaFi
@ash_buckley Cavoli, assurdo quanto costassero poco le case allora.
@loumacintyre78 @ash_buckley Poco? Mezzo milione di sterline? Non a Preston. C’è un mondo fuori da Londra, sai?
@richieschambers Ridisegnare i giardini? Palette di colori? Ma questa donna ci è o ci fa?
I vecchi proprietari erano una coppia di anziani come quelli che speravo saremmo diventati anche noi, un giorno. Avevano avuto una dignitosa carriera da insegnanti (avevano comprato la casa quando ancora non serviva essere manager rampanti né bancari come i Vaughan per farlo) e, dopo aver cresciuto i figli, ora volevano liberarsi della proprietà, liberare se stessi.
Volevano girare il mondo e me li vedevo attraversare il deserto sotto il cielo stellato, nella loro nuova veste di nomadi…