Trama
In un podere perso tra le foreste e gli acquitrini del profondo Nord, Klingsor si vota all’arte dopo un’esperienza quasi mistica. Vagando nel bosco trova l’ultimo bicchiere usato da un avo per la sua sbronza di Pentecoste: rimasto saldo a un legno storto per quasi un secolo, si è fieramente raddrizzato, puntando verso le stelle. Per Klingsor è una rivelazione, la chiave di lettura dell’esistenza: la materia vive esattamente come noi, non c’è confine tra vita e morte. Puntando dritto alla «verità» come il bicchiere suo Graal, il taglialegna illuminato, omonimo del mago wagneriano e dell’artista di Herman Hesse, fa un corso di pittura per corrispondenza e dà inizio a una nuova arte, che ammette solo nature morte per penetrare la loro vita intima. Dall’accademia di Stoccolma ai circoli di Parigi, Klingsor attraversa l’intera scena artistica come il nuovo Cézanne, dipingendo brocche, tazze e caraffe, sempre le stesse sulle stesse tele, strato su strato in dipinti identici uno all’altro, cercando di vedere attraverso le cose, convinto che «il futuro appartiene alla radiografia». Maestro del gioco intellettuale, capace di toccare con lo humour e il paradosso inattese altezze di pensiero, Lindgren crea un personaggio che sfugge a ogni canone vivendo l’arte in tutti i suoi significati per interrogarsi sul rapporto tra materia e spirito. Con i suoi quadri monotoni e «autentici», il suo filosofeggiare saggio e folle, la sua coerenza e ostinazione, Klingsor lotta eroicamente per dipingere il segreto della vita, rimanendo, ignorato da tutti, «il più grande pittore della storia svedese».
estratto
1
Agente immobiliare: «È da un’eternità che qui non ci abita nessuno.»
Noi: «Ma quindi è qui che è nato?»
Agente immobiliare: «Sì, questa era probabilmente la camera da letto. Sarà stata Hanna Gralin, a tagliare il cordone ombelicale.»
Noi: «Hanna Gralin?»
Agente immobiliare: «Una vera e propria levatrice effettivamente non lo era. Ma conosceva l’arte. E qui a casa Klingsor ne erano nati innumerevoli, di bambini. La gente si spaccia per essere questo o quello.»
Noi: «Chissà se avrà visto qualcosa di strano? Qualcosa di speciale? Niente camicia? Magari dita in più? Dubbi sul sesso? Nessuna membrana luccicante sugli occhi?»
Agente immobiliare: «Per quanto ne sappiamo noi: niente di particolare.»
Noi (ora in cucina davanti alle alte finestre): «Quella montagna, laggiù oltre il lago, ha un nome?»
Agente immobiliare: «Hundberget. E dietro l’Hundberget c’è l’Handskberget. E dietro l’Handskberget c’è un’altra montagna. E così via. Così via.»
Noi: «E qui stava in ginocchio sulla panca della cucina e vedeva le montagne.»
Agente immobiliare: «Anche questo si può immaginare, sì.»
Noi: «Handskberget e così via? Hundberget e così via? Le sfumature azzurre?»
Agente immobiliare: «Esattamente. E così via.»
Agente immobiliare: «Esattamente. E così via.»
Noi: «Anche se le montagne non le ha dipinte mai?»
Agente immobiliare: «Per quanto ne sappiamo noi, mai. Siete sul serio interessati alla casa?»
Noi: «Di certo non ci sarà nessuno che vuole comprarla, no?»
Agente immobiliare: «Fino a oggi nessuno. Ma avete chiesto. È in vendita. Per meno del valore catastale.»
Noi: «In realtà abbiamo chiesto della casa dei Klingsor. Lo scopo della nostra visita sono loro, i Klingsor. Soprattutto il pittore Klingsor.»
Agente immobiliare: «Sì, questa è la casa dei Klingsor. Fu il Vecchio Klingsor a costruirla.»
Noi: «Il Vecchio Klingsor?»
Agente immobiliare: «Sì, arrivò qui. E dissodò il campo di patate. Fu il Vecchio Klingsor in persona a costruirla.»
Noi: «Costruì la casa?»
Agente immobiliare: «Sì, costruì la casa.»
Noi (prendiamo appunti tutto il tempo su quello che vediamo e sentiamo. Cerchiamo con lo sguardo qualcosa su cui sederci, una sedia o qualsiasi altra cosa, ma la stanza è totalmente vuota. E cerchiamo di capire a cosa possano condurre le tre porte). Chiediamo: «Qual era la sua, di camera?»
Agente immobiliare: «Nessuno aveva una camera particolare. E di particolare lui non aveva proprio niente. Allora. Lì dentro dev’esserci stato il gigantesco telaio.»
Noi: «Il telaio?»
Agente immobiliare: «Il telaio della Vecchia Klingsor. Fabbricato dal marito.»
Noi: «C’erano i piatti in quello stipo? Sopra il lavello?»
Agente immobiliare: «È probabile. Così era in genere. Siete parenti?»
Noi: «No, non esattamente.»
Agente immobiliare: «Pare che si tratti di una famiglia incredibilmente numerosa. Nordamerica. E Stoccolma. E la costa del Norrbotten. Ma erano solo i Klingsor a chiamarsi Klingsor.»
Noi: «In effetti siamo sparpagliati. È l’unica cosa che ci unisca, il fatto di essere sparpagliati.»
Agente immobiliare: «Non è nulla di cui vergognarsi. Che cosa ne pensate?»
Noi: «Di cosa?»
Agente immobiliare: «Della casa?»
Noi: «Quel quadro accanto alla canna fumaria? La zuccheriera? È uno dei suoi?»
Agente immobiliare: «Qualcuno l’aveva appeso lì. Quella famosa volta. Quando era stato sul giornale. Quando era una celebrità.»
Noi: «Solo quell’unico quadro?»
Agente immobiliare: «L’idea era che questo posto diventasse un museo. Un museo Klingsor.»
Noi: «Quell’unico quadro? Nessun altro?»
Agente immobiliare: «Per il momento. Ma non è che importi poi molto. In fondo dipingeva sempre e solo lo stesso quadro.»
Noi: «Sì, certo, così pare. È quel che si può pensare.»
Agente immobiliare: «A che pro, poi. Ma che cosa voleva, in definitiva?»
Noi: «Voleva cambiare il mondo.»
(Olio su tavola, Tazza da caffè con ghirlande blu, 32×29 cm, firmato 1941)
Agente immobiliare: «Potete averla, la casa. Basta che ve ne occupiate.»
Noi: «No, la casa no. A noi interessa solo l’artista.»
Agente immobiliare: «Prima di lui nessuno era mai stato artista.»
Scrittore: «Siamo noi quelli che dobbiamo scrivere il libro sulla sua vita.»
Agente immobiliare: «Ma ormai non è più famoso, no?»
(Si spostano tra le varie stanzette, tutte le porte sono aperte, le finestre hanno i vetri rotti, gli uccelli hanno sporcato i pavimenti, attraverso il tetto di corteccia di betulla e scandole trapela il sole. Nell’acquaio trovano un nido di topo abbandonato.)
Noi: «C’è odore di catrame in tutta la casa.»
Agente immobiliare: «Catrame vegetale, o olio di colofonia. O trementina. Questa casa è un po’ particolare.»
Noi: «Tutte le case e tutti gli esseri umani hanno un loro significato. Tutto va interpretato.»
Agente immobiliare: «Il tetto è il primo a cedere. Poi le finestre. E i muri rivolti a nord crollano. Gli edifici vanno in rovina. Così è.»
Noi: «Non abbiamo molto tempo a disposizione. Né noi né le case.»
Agente immobiliare: «A lungo andare, niente ha senso.»
E a noi tornò in mente qualcosa che Klingsor ci aveva detto molto tempo prima: «Perché l’essere umano si decompone dopo la morte, perché non si cristallizza?»
Agente immobiliare: «Nel ramo immobiliare non ci siamo mai posti la domanda.»
Il Vecchio Klingsor è sepolto nel cimitero abbandonato sopra Klåvaviken. La lapide è di granito grigio, il nome klingsor è inciso semplicemente nella pietra, le lettere una volta erano probabilmente riempite di nerofumo diluito in olio di lino.
In quella tomba il Vecchio portò innumerevoli segreti con sé.
Lui dunque era il Vecchio Klingsor, dopo di lui venne il Nuovo Klingsor, poi Klingsor stesso e infine Klingsor, il pittore. «Vecchio Klingsor» lo diventò ovviamente solo da morto.
Fu lui a costruire la casa lassù a Håptjärnliden. E lui quello che avrebbe potuto spiegare lo strano odore che ancora la impregna tutta, tutte e quattro le stanze e la cucina, il tinello e la sala e le due stanze nel sottotetto, l’intera Casa Klingsor, quella che è dunque disabitata da un sacco di tempo, un odore che ha una nota di desolazione e di foresta primordiale e di disboscamento e di abbandono, ma anche un oscuro tocco di calore e intimità, insomma un odore molto marcato di catrame vegetale e olio di colofonia.
All’epoca in cui stava costruendo la casa, il Vecchio sedeva ogni sera e ogni notte sul basamento di pietra e piallava trucioli dal ceppo da cui si ricavava il catrame e da altri pezzi di legno di pino fortemente impregnati di resina, e li lasciava cadere nel buco delle fondamenta. Truciolo dopo truciolo, luccicanti di oli eterici. Il pittore, suo nipote, doveva ritrovare molto tempo dopo lo stesso profumo nella trementina di Venezia. Il liquido che causò anche una delle piccole catastrofi della sua vita. Forse furono questi effluvi balsamici a fare di lui l’artista che diventò.
Perché il Vecchio Klingsor riempiva le fondamenta della casa con schegge e trucioli e frammenti di legno di pino resinoso? Sera dopo sera, ceppo dopo ceppo, notte dopo notte, nella luce dell’estate?
oleva creare qualcosa di duraturo. E voleva eliminare qualcos’altro.
Quando? In che anno? Non lo sappiamo. Dev’essere stato durante una delle ultime, tiepide estati del diciannovesimo secolo. Ma i registri anagrafici parrocchiali e quelli del catasto tacciono.
In primo luogo voleva cancellare l’odore acre di Klingsor. Tutti sapevano che un Klingsor puzzava sempre di Klingsor. In futuro i suoi discendenti avrebbero odorato di catrame, e nient’altro.
In secondo luogo voleva preservare la casa dalla tisi, e il catrame era l’unica protezione sicura contro la malattia. Si poteva strofinare il torace con acqua catramata, si potevano masticare bastoncini di catrame, o mangiare briciole di pan di zucchero imbevute nell’olio di colofonia, o bere qualcuna delle tinture di catrame vegetale e olio di equiseto che preparavano in farmacia. Gli ultimi sospiri dei moribondi riempivano sempre l’aria nelle loro camere dell’inconfondibile, terapeutico profumo di catrame.
Il Vecchio Klingsor non sapeva che i Klingsor erano semplicemente molto resistenti alla tubercolosi polmonare. Ma tant’è.
Che cos’altro portò con sé in quella tomba ora invasa di arbusti di mirtillo rosso nel cimitero abbandonato, lassù sul pendio sopra Klåvaviken?
L’arte di assemblare casse e credenze e telai e letti-contenitori senza utilizzare piastre, rivetti o staffe angolari.
L’abilità di chiamare con un fischio lepri e volpi e perfino alci, che gli si avvicinavano strisciando sul ventre come fossero cani timorosi di buscarle.
Il trucco di scuoiare vacche e vitelli e pecore senza strumenti, solo con le dita. Sì, pare che una volta abbia perfino scuoiato così un cavallo, a Risliden.
La perizia di temprare il ferro di accette, vanghe e scalpelli in modo che diventasse duro e tagliente come l’acciaio che si compra.
La capacità di ricordare che lo metteva in grado di recitare l’intero Ecclesiaste e metà dell’Apocalisse.
Inoltre portò con sé nell’eternità il segreto dell’alcol.
Un liquore come quello che produceva il Vecchio Klingsor, nessuno dopo di lui è più riuscito a ottenerlo.
Nessuno sa come facesse. E nessuno sa neppure da chi avesse imparato.
Il bidone di latta l’aveva creato lui stesso, sì, proprio inventato. Altri l’hanno inventato in seguito, guadagnandoci sopra perfino enormi ricchezze, ma il Vecchio Klingsor fu il primo.
Prese un tubo di latta, lungo quindici pollici e largo altrettanti, e lo ripiegò a entrambe le estremità in modo tale che le pieghe si congiungessero ad angolo. Poi calettò e saldò insieme i fogli di latta così che il bidone, che adesso era triangolare su tutti i lati, diventasse perfettamente stagno. E in uno degli angoli acuti tagliò un’apertura con le forbici da lattoniere, e tornì un beccuccio d’ottone e lo saldò nell’apertura, il beccuccio poteva essere chiuso con un cavicchio di legno di ginepro.
Era dunque in quel bidone di latta che faceva il suo liquore.
Per prima cosa lo riempiva con acqua di sorgente di Gårdmyr, poi aggiungeva tutti gli altri ingredienti. Pesava meticolosamente ogni cosa con la stadera e misurava nel misurino. Questi preparativi li faceva in ottobre, dopo di che seppelliva il bidone nel letamaio. E lì lo lasciava per tutto l’inverno.
Il bidone del resto esiste ancora, si può ammirarlo al museo di cultura rurale di Glommersträsk.
All’avvicinarsi della Pentecoste, il Vecchio Klingsor disseppelliva il bidone con la bevanda che aveva ora subito una profonda trasformazione grazie al calore prodotto dal letame che bruciava. Poi si chiudeva nel capanno del bucato per due notti e un giorno. Che cosa facesse lì dentro nessuno lo sa, dalla canna fumaria usciva fumo e la finestra si copriva di condensa, e a volte il vapore filtrava da sotto la porta, ma questo è tutto quanto si possa dire con certezza.
Quando infine usciva con il bidone triangolare, il liquore era pronto, non solo pronto ma perfetto.
Non aveva utilizzato il separatore o la zangola, né alcuna forma di distillatore, e non aveva colato o filtrato il liquido attraverso un blocco di lievito?
Una volta lo fece assaggiare a due suoi vicini, ed entrambi concordarono di non avere mai bevuto un liquore più limpido e più squisito.
No, dietro quel capolavoro non c’erano strani artifici o procedimenti complicati, solo qualcosa di così semplice e naturale come una trasformazione.
Dopo la solita prima colazione a base di farinata, il giorno della vigilia di Pentecoste se ne andava nella foresta con il suo liquore e un bicchiere di un verde brillante che aveva preso dallo stipo della credenza. E rimaneva via per tutto il giorno di Pentecoste e quello dopo.
Nel bosco si ubriacava fino allo stravolgimento. Era talmente sbronzo che a volte gli si annebbiava la vista e se la faceva addosso e piangeva di gioia. Di tanto in tanto si stendeva a dormire sotto uno dei pini secolari, e quando riprendeva i sensi, beveva con coraggio e perseveranza finché il bidone non era vuoto, danzava sul muschio tra i massi e cantava e sbraitava a gola spiegata tutti gli inni e i salmi che aveva dovuto imparare da bambino. Questo avveniva ai piedi dello Stormyrberget, davanti al pendio dove la sabbia emerge in superficie e la volpe ha la sua tana, proprio sul confine tra la sua proprietà in concessione e quella dei Granberg.
Ma quando tutto era bevuto e si avvicinava il giorno feriale con le pecore da condurre nel bosco, le patate da portare su dalla cantina e interrare nelle cassette di legno a germogliare, e la sorgente da ripulire dai girini, tornava a casa dalla Vecchia Klingsor e dai figli. Camminava con passo leggero ed elastico, ogni tanto faceva piccoli salti e balzi, sapendo che di lì a un anno avrebbe potuto ubriacarsi di nuovo.
L’ultima volta, però, non si sa in quale anno, si dimenticò quel famoso bicchiere nel bosco, sopra un ceppo tagliato un po’ storto.
L’ultima volta?
Nei giorni seguenti gli capitò di riflettere a fondo su se stesso e sulle sue sbornie. Per questo finì per essere l’ultima volta. E per questo il bicchiere rimase lì sul ceppo di abete, dimenticato.
Vide se stesso con l’occhio della mente, esattamente come dovevano averlo visto gli scoiattoli e la ghiandaia e il cielo: saltellante, barcollante, addormentato con il vomito che gocciolava ancora dagli angoli della bocca. …