“L’ ordine delle cose” di Linda Tugnoli edito da Nord editore

In tutte le librerie e sugli store on-line dal 7 Ottobre 2021

La malerba non muore mai. E a volte uccide… Le battaglie contro pervicaci rose rampicanti e i progetti per eleganti bordure all’inglese; i bicchieri di barbera goduti in religioso silenzio con l’amico Osvaldo e le mai più di tre parole scambiate con gli altri valìt. È questa la sua vita da giardiniere, e a Guido sta bene così. Meglio che il passato – l’appartamento a Parigi e il lavoro di «naso» per una prestigiosa casa profumiera – rimanga dov’è e non superi le montagne della Valle Cervo, il luogo che l’ha visto nascere e che, dopo vent’anni, lo ha riaccolto alla sua maniera, senza cerimonie. Una valle che, come lui, custodisce molti ricordi e molti segreti, e che adesso sembra sia stata dimenticata da Dio e dagli uomini. A rompere l’equilibrio ci pensa una visita del commissario per una sorta di consulenza botanica. In città è stata uccisa una donna, gli indizi scarseggiano e allora tutto potrebbe essere utile all’indagine, come la busta piena di semi trovata in una tasca del suo vestito. Ma che tipo di semi sono? Per Guido alcuni sono semplici da riconoscere, mentre altri sono un vero e proprio mistero. E la cosa più strana è che sembrano tutti di piante infestanti. Di malerbe. Sebbene Guido non conosca la vittima e sappia che col commissario è meglio non scherzare troppo, subito scatta in lui la curiosità di saperne di più, di entrare nella vita ordinata e prevedibile di una donna che, forse, dell’ordine e della prevedibilità era diventata prigioniera. Ma quando scopre che la povera vittima, in realtà, per lui non è poi una sconosciuta, ecco che la curiosità diventa ossessione…

Alla mamma e al babbo, che in tempi lontani
hanno costruito la mia riserva di felicità

1

Si morse il labbro per non gridare di dolore. Abbassando gli occhi, vide comparire quattro righe parallele sul braccio, dove lei aveva affondato gli artigli.

Bruciavano più del fuoco, e nei solchi bianchi notò con sorpresa che già affioravano rapide le gocce di sangue, l’una dopo l’altra, come piccole sfere perfette. Appena spuntate, cominciarono a colare giù verso il gomito formando piccoli ruscelli rossi.

La abbrancò e la scrollò con tutta la forza della sua rabbia. Lei gli graffiò ancora i polsi e le braccia, mentre lui si sforzava di afferrarla più saldamente.

«Adesso ti ammazzo! Ti ammazzo! Capito?»

Si era avvicinato troppo.

Fu un attimo, lei gli aprì la pelle sullo zigomo, fino ad appena sotto l’occhio, con precisione chirurgica. Guido tirò indietro la faccia di scatto, un secondo prima di rimetterci un bulbo oculare.

Accecato dal dolore, si dimenticò di essere sull’orlo del burrone, fece un passo indietro e si trovò di colpo a penzolare nel vuoto. Con la coda dell’occhio vide gli alberi oscillare venti metri più in basso.

No, non erano gli alberi.

Era lui che oscillava sull’abisso, disperatamente abbracciato a un ramo.

Gli si fermò il cuore per la paura e, insieme, lo attraversò come un lampo l’assurda curiosità di come poteva essere quel lungo volo, prima di sfracellarsi sulle rocce del torrente.

Con la forza della disperazione, diede un colpo di reni e ritornò in piedi per miracolo sul ciglio dello strapiombo.

Ora la vedeva attraverso una nebbia rosa: il sudore freddo del doppio spavento – di morire e di avere per un attimo desiderato di morire – gli colava negli occhi insieme al sangue di una piccola ferita sulla fronte; lì per lì, non si era neanche accorto di avere battuto la testa su una pietra.

«Maledetta…»

Si divincolò dalla sua stretta. La colpì ancora una volta, ma senza convinzione, a mano aperta.

Lei se ne restò lì immobile come se nulla fosse, con una certa aria di innocenza.

Se l’era cercata, in effetti, si disse Guido. Aveva cominciato lui.

Provò a darle un’altra strattonata rabbiosa ma niente, lei rimase lì, salda e tranquilla.

Accettò la sconfitta.

Era coperto di graffi e di tagli dappertutto: sulla faccia, sulle mani, sulle braccia, sul collo. La lasciò andare di colpo e fece tre passi indietro con la testa che gli girava, poi crollò a sedere su un muretto.

Le gettò uno sguardo di vero odio.

Non c’era niente da fare, era più forte di lui.

Controsole, un unico fiorellino sgualcito, di impietosa bruttezza, pendeva da un ramo del grande arbusto di rosa rampicante. Un bocciolo secco, rimasto lì chissà come da prima dell’estate. Ma anche se fosse stato un boccio nuovo, si sarebbe aperto in una striminzita rosellina pallida, con tanti petali disordinati, senza profumo.

Un volgare portainnesto che aveva preso il sopravvento su una raffinata rosa antica, e che ora se ne stava lì sul ciglio del burrone a bere al posto suo la luce di quell’alba di inizio autunno.

Nessuna rifiorenza, niente profumo, fiori insignificanti, vigore eccessivo e portamento sgraziato: un vero schifo di pianta.

Ma non c’era verso di tirarla via.

Le radici di quella brutta rosa affondavano nel terreno per più di un metro, infilandosi sotto le rocce. E aveva spine fittissime, lunghe più di un centimetro, che lo avevano massacrato ogni volta che aveva cercato senza successo di levarla di là.

Le aveva provate tutte: non riusciva a sradicarla, non poteva scavare nella pietra e tagliarla alla base sarebbe servito solo a farla crescere più forte.

Probabilmente avrebbe continuato a fiorire primavera dopo primavera per altri cento anni dopo la sua morte: un monumento al cattivo giardiniere, che aveva lasciato seccare una profumatissima Souvenir de la Malmaison, con i suoi fiori a coppa, pieni e perfetti, di un delicato rosa conchiglia, lasciando prosperare al suo posto un maledetto arbusto selvatico.

2

Il corpo è steso su una striscia di prato tra la panchina e l’aiuola bordata di pietre aguzze, gli occhi spalancati sul cielo nero. Una brezza leggera muove appena i fili d’erba intorno alle gambe.

Un lampione difettoso del parco bagna la scena di una luce gialla intermittente, da telefilm.

Il collo si deve essere spezzato sulle rocce dentate, perché la testa fa un angolo strano, e il sangue, scurissimo nell’ombra della panchina, cola lento e abbondante nella terra della bordura; i fiori lo berranno durante la notte, perché la nuca è affondata in un cuscino di pansé viola e gialle, come se già si stesse celebrando il funerale. Il viso è levigato e pallido, tranquillo come quello di un angelo di marmo. Una lacrima, l’ultima, scende molto lentamente dall’angolo di un occhio.

Il corpo sdraiato a faccia in su sembra già composto da mani professionali per una dignitosa eternità. Peccato per la gonna corta sollevata sul davanti, a mostrare lo slip color carne bordato di pizzo, che nuoce un po’ al decoro dell’allestimento funebre.

A lampi stroboscopici, un’ombra nera si muove a passi rapidi intorno al cadavere, torcendosi le mani.

Va verso di lei, poi cambia idea, si ferma a guardarla.

Ora si avvicina, si china su di lei.

Si allontana a scatti nella luce gialla lampeggiante, poi torna di nuovo indietro. Tira giù la gonna che si era sollevata nella caduta.

Ora la morta sembra davvero soltanto dormire sull’erba.

3

Guido scese a bere qualcosa al bar della Rita senza neanche darsi una ripulita. Tanto, non aveva una gran reputazione da difendere. Era il fransèis, tornato a vivere in Valle dopo vent’anni d’assenza, per motivi non del tutto chiari. Quale proprietario di un appartamento al centro di Parigi sceglierebbe di tornare a stare in un paesino di novantatré anime, sperduto sulle Prealpi piemontesi, senza delle ragioni meno che limpide?

In quel preciso momento, quella domanda era forse anche dietro la fronte della grossa barista e dei tre pensionati che già avevano iniziato la prima delle loro cento partite a carte quotidiane.

Il suo paese, oltre alla popolazione ottuagenaria, taciturna e particolarmente sospettosa verso i furèst, contava in tutto un bar – quello in cui Guido ora si trovava – e un minuscolo negozio di alimentari, che però minacciava ciclicamente di chiudere a causa della scarsa clientela. In compenso, traversato un bel ponte antico, sfoggiava un grandioso cimitero monumentale, completo di obelischi in stile egizio e angeli di pietra a grandezza naturale. Di sera il camposanto aveva più luci del paese, a ricordare che c’era ormai molta più gente oltre il torrente che nelle case.

Comunque, anche quei pochi che ancora restavano erano pronti a trasferirsi in massa di là dal ponte nel giro di qualche anno.

«Il solito caffè, Guido?»

«No, dammi un caffè corretto, Rita, grazie. Il Giovannino non c’è stamatìn

«No, è a scuola. Quest’anno sembra la vagga mej

Il Giovannino era il nipote della Rita. Seconda elementare e scarsi contatti col mondo esterno. Sempre perso nei suoi giochi solitari, come farsi cadere pezzettini di carta davanti agli occhi o picchiare su un tasto di una piccola pianola producendo una nota sempre uguale, per ore. Tra i residenti, il solo più taciturno di Guido: sapendo che molto difficilmente avrebbe risposto, infatti, nessuno gli parlava mai. Una libertà che, sotto sotto, Guido gli invidiava. Forse per quella segreta affinità, proprio Guido era una delle uniche persone al mondo con cui il Giovannino, bambino marziano, fosse disposto a parlare. Gli dispiacque un po’ di rinunciare al suo saluto mattutino, un trillo contento che lo aiutava a iniziare la giornata, come quando avvistava il primo pettirosso dell’autunno sul muretto a secco dietro casa sua, dalla parte del bosco.

A pensarci, ancora non ne aveva visti quell’anno, eppure l’inverno si avvicinava a grandi passi.

Tra poco, e per almeno due mesi, neanche un raggio di sole sarebbe più riuscito a scavalcare le cime delle montagne su quel versante della Valle; il ghiaccio nelle cunette all’ombra sarebbe rimasto lì per settimane, senza sciogliersi, come sulla cima del Bo, e il muschio si sarebbe allargato sui muri esposti a nord come un esercito conquistatore. Si sarebbe tutti aspettato gennaio per vedere finalmente un primo raggio di luce sbucare di nuovo da dietro una cresta imbiancata. E i pochi rimasti in paese avrebbero festeggiato il ritorno del sole sui tetti cucinando il risotto.

La festa, aveva sempre pensato Guido, era per congratularsi con se stessi di avercela fatta un altro inverno, contro ogni ragionevole aspettativa.

La Valle era stretta e angusta, con un versante sempre in ombra, e i suoi fianchi ripidi avevano spazio soltanto per poche case in equilibrio sui dirupi e piccoli fazzoletti di pascoli, buoni al massimo per una decina di mucche o di capre. I suoi antenati non dovevano avere avuto molte alternative quando si erano stabiliti là, in mezzo ai lupi e agli orsi, come testimoniavano i documenti storici.

Come lui, del resto.

«Che ci vuoi? Grappa? Sambuca? Anice?»

«Par carità, l’anice no… grappa va bene, grazie.»

Si incantò a guardare fisso il liquore trasparente che scendeva nel caffè.

«E parché stamatìn at beive al cafè corretto, Guido?»

«Bah, così, sento frëcc…»

Eh, sì, mettiamoci pure che i cari compaesani non si facevano mai, ma proprio mai, gli affari loro.

Guido mise su una faccia che intendeva scoraggiare qualsiasi altra domanda e guardò fuori dalla piccola finestra.

In compenso, il cielo terso, lassù tra le cime, era una promessa di paradisi possibili già in questa vita. E il canto sereno dell’acqua ti inseguiva fin dentro casa; non solo la voce da tenore del torrente, ma gli acuti dei cento fontanili di sienite grigia, da cui bere a piccoli sorsi, anche nel mezzo dell’estate, il gelo delle nevi appena sciolte.

No, la Rita e i tre giocatori potevano pensare quello che volevano, la verità era che Guido amava ogni pietra di quel vecchio paese, e non avrebbe voluto vivere in nessun altro posto.

Dopo averlo girato a lungo guardando nel vuoto, mandò giù in due sorsi il caffè corretto, poi ne chiese un altro. La Rita gli lanciò un’occhiata strana. Ma lui aveva bisogno di qualcosa di forte dopo il KO subito dalla rosa. Sentiva come un leggero fischio nel respiro affrettato, la gola stretta.

Ma che, gli aveva bucato un polmone, quella piantaccia, con le sue spine lunghe un centimetro? Davvero un’idea da ipocondriaco, sta’ a vedere che ora gli toccava aggiungere una voce all’elenco già piuttosto lungo delle sue nevrosi. Però gli era proprio sembrato che il caffè andasse giù con difficoltà, come se avesse qualcosa infilato in gola. Un ricordo lontano affiorò faticosamente, una espressione curiosa: boule hystérique. Sì, ecco, l’aveva usata uno strizzacervelli francese, in una sua vita precedente. Nodo isterico, un classico sintomo dell’ansia. Per inciso, frequentare assiduamente il suo lussuoso studio, all’epoca, non gli aveva portato alcun giovamento.

foto presa dal web

Linda Tugnoli vive tra Roma – dove lavora come autrice e regista di documentari, soprattutto per la Rai – e la campagna sabina, dove abita in un casale con il marito, tre figli, un orto, una serra e svariati cani di grossa taglia che periodicamente devastano l’orto e la serra. Ha contratto anni fa quello che gli inglesi chiamano il bug del giardiniere: una spiccata tendenza a parlare troppo di piante e di fiori. Dopo il fortunato esordio con Le colpe degli altri, questo è il secondo romanzo dedicato alle indagini del giardiniere Guido.

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Ogni vita nasconde un segreto. Ogni luogo cela un mistero. Ogni morte racconta una storia

La forma a ventaglio e il colore tipico di quel periodo autunnale, un giallo così acceso da sembrare innaturale. Impossibile sbagliarsi, per un giardiniere come lui: è una foglia di Ginkgo Biloba. Ed è la seconda cosa fuori posto che Guido nota in quel giardino trascurato, parte di una grande villa abitata solo per due settimane l’anno, in agosto. La prima, invece, è stata una ragazza bionda stesa a terra, con indosso un elegante vestito lungo, dello stesso punto di blu dei suoi occhi spalancati sul nulla. Forse per colpa di quel colore che lo riporta a un passato mai dimenticato, o per quella foglia inconfondibile in un giardino senza alberi di Ginkgo Biloba – un dettaglio che Guido, per qualche strana ragione, non segnala alla polizia –, o magari per quel sentore di un profumo antico e familiare che solo lui, grazie al suo olfatto finissimo, ha percepito sulla scena del delitto, comunque sia quella ragazza sconosciuta e il suo triste destino diventano quasi un’ossessione per Guido. Sebbene abbia svariati motivi per mantenere un profilo basso, non resiste alla tentazione d’intraprendere una sorta d’indagine clandestina parallela a quella ufficiale. E il punto di partenza è proprio la foglia di Ginkgo Biloba. Perché lì, in Valle Cervo, in alcuni giardini privati in effetti ci sono degli alberi di Ginkgo. Guido inizia così un pellegrinaggio nei luoghi che lo hanno visto nascere e da cui se n’era andato per cercare fortuna in Francia, ma dov’è tornato da qualche anno per ritrovare una certa tranquillità. Una valle dimenticata dal resto del mondo e in cui pare che il tempo sia sospeso, una valle dove tutti parlano poco e non succede mai nulla. Ma dove sono nascosti segreti che non è più possibile tenere sepolti… .

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito i seguenti corsi di formazione: "Lettura e benessere personale come rimedio dell'anima" " Avvicinare i bambini alla lettura con i racconti di Gianni Rodari"

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