Sinossi
C’è una donna ferma sulla soglia di un convento. Deve entrare, ma ha paura. Oltre quella soglia, lo sa, avverrà la resa dei conti. Perché è lí che si trova sua figlia, un’adolescente scappata di casa dopo l’ennesima lite con lei. Ed è lí che vive la persona che molti anni prima l’ha abbandonata senza una parola, per seguire la propria vocazione.
Dopo il successo de L’animale femmina, Emanuela Canepa torna a scandagliare i conflitti sotterranei che si annidano in ogni rapporto. Stavolta, lo fa attraverso tre figure femminili indimenticabili. Una madre, alla quale la figlia rimprovera un’esistenza di rinunce. Una figlia, che la madre ha sempre sentito inaccessibile. E una suora, che ha lasciato tutto, anche la sua piú grande amica, per abbracciare senza riserve il proprio destino. Tre donne profondamente legate tra loro, eppure in costante fuga l’una dall’altra. Perché ogni legame d’amore può diventare un cappio, e ogni distacco trasformarsi in battaglia.
Estratto
a Valentina,
signora della tempesta
La sua paura, cosí, diventava una paura anche mia. E io e lei, insieme, dentro la stessa stanza, ci muovevamo sperduti, come attraverso un fragore prorompente, che ci urtava, ci avvicinava e ci separava, vietandoci d’incontrarci mai.
ELSA MORANTE, L’isola di Arturo
Per tutto il viaggio l’acqua non ha smesso di cadere un momento. Veniva giú a dirotto, un lenzuolo liquido che il vento faceva oscillare scaricandolo a sciabolate sull’auto.
Emma raggiunge la sommità della collina e si infila in una piazzetta sterrata. Cerca con gli occhi un varco nel labirinto tra le pozzanghere. Il cielo trema l’ultima volta, poi lentamente comincia a spiovere.
La furia del temporale ha spogliato gli alberi, le aiuole sono ridotte a un pantano coperto di foglie, e il selciato è una costellazione di buche piene d’acqua su cui si riflettono le nubi spazzate via a larghe folate.
Emma riparte e parcheggia sotto una pergola. È rimasto in piedi a malapena lo scheletro. Il tetto della macchina sfiora le code dei rampicanti strappati dal vento che oscillano ancora.
Spegne il motore. Ricomincia a farle male la testa. Un segmento di luce pulsante connette fra loro le tempie. Non importa, si dice. Non è grave. Non è un buon motivo per fermarsi.
Guarda in alto, verso il cielo. Il movimento le causa una fitta alla testa, e il dolore si fa acuto salendo a ondate.
Afferra la borsa ed esce dall’auto. Si avvicina alla chiesa.
L’edificio è modesto. Una facciata in mattoni scandita da quattro lesene e due nicchie vuote, senza statue, come dopo un passaggio di barbari. Non ci sono fregi o decorazioni. Solo una cornice in marmo spezzata in due punti che definisce la linea del portale.
È tutto chiuso. Affisso su un pannello in legno c’è un minuscolo cartello protetto da un vetro che riporta gli orari delle messe.
Alle spalle della chiesa si allunga in perpendicolare la struttura imponente del monastero, preceduta da un portico ad arcate regolari che inclina ad angolo retto e segue il fianco della navata. In fondo c’è un ingresso, chiuso. A distanza però Emma riconosce la pulsantiera di un citofono.
Costeggia il fianco della chiesa e mentre cammina si impone lunghi respiri. Si prepara come un pugile prima di un incontro. È un atleta che alimenta l’accanimento, l’ostinazione.
Arrivata al citofono preme il pulsante con violenza. Pensa alle parole piú adatte a intimidire, ma subito si rende conto che non le servono, perché nessuno le chiede nulla. Non fa nemmeno in tempo a dire il suo nome che una voce le risponde: le apro, ma abbia pazienza, mi ci vuole tempo. Poi la porta si spalanca da sola.
Questo la sbilancia. Era preparata a fronteggiare un rifiuto.
Entra e si ritrova in un ambiente di passaggio di forma squadrata. Di fronte a lei si apre l’ampia grata del parlatorio.
Si lascia alle spalle l’ingresso e si sposta in una sala disadorna. Solo un paio di poltrone molto vecchie e un divano coperto dalla stessa tappezzeria pesante. Sulla parete un grosso crocifisso pende dall’alto, sostenuto da una catena.
Prova a sedersi, ma le è impossibile rimanere ferma.
Si rialza guardandosi intorno. Sopra la porta c’è una stampa con la riproduzione di un’icona. Non la vede bene, troppo alta sullo stipite. Si avvicina.
La Vergine sostiene il bambino che la fissa intimorito e le si aggrappa. Il figlio di Dio ha bisogno di sua madre. Lei non lo ricambia, e non mette alla prova la natura di quella dipendenza. La dà per scontata. Rivolge invece lo sguardo verso il mondo e gli occhi sono duri, pieni di rimprovero, come se paragonasse l’inviolabilità del suo spazio materno, esemplare e compiuto, all’imperfetto mondo dei supplici.
Emma si gira e si mette in ascolto. Cerca di captare il rumore di un suono in avvicinamento, ma non sente nulla. Da quando è entrata lí dentro il silenzio sembra essere piú compatto. Avverte intorno a sé una densità quasi vischiosa.
Dalla finestra vede l’avancorpo del porticato allungarsi. Al centro del muro in mattoni si apre un grosso cancello di metallo sbarrato da una catena.
Un fruscio alle sue spalle. Per un istante, prima di girarsi, immagina che possa essere Irene. Tutta la rabbia che ha covato nel corso del viaggio diventa fisica e palpabile. Si volta, pronta a un gesto di forza, ma la donna che ha davanti non può essere lei.
È una suora giovane, in abito da lavoro, con un grembiale grigio che le copre il petto e si allaccia in due giri intorno alla vita. Non può avere piú di vent’anni. Sorride.
– Buongiorno. Scusi se l’ho fatta aspettare.
Emma fa un cenno. – Non importa. Cerco mia figlia, Matilde Montanari.
La suora ha un’espressione incerta. – Mi spiace, non so chi sia. Non abbiamo ospiti in questo momento. La foresteria è chiusa.
Emma fiuta la menzogna. Si avvicina per fronteggiare la donna. – So per certo che c’è. Ho ricevuto una chiamata ieri sera.
La suora continua a sorridere. – Una chiamata da qui, dice?
– Era una delle sue compagne. O almeno suppongo che lo sia.
La suora però la guarda e non dice niente.
– Irene Scarpa, – scandisce Emma.
È cosí che la chiamano ancora, lí dentro? Non ne ha idea. Sono anni che non ci pensa. Anni che non dice il suo nome.
La suora fa segno di avere capito. – Sí, è qui, ma è impegnata. Vuole lasciare un messaggio?
Emma sente con chiarezza che la resistenza della donna va smontata. Che deve attaccare. Che non può essere accomodante per nessuna ragione. Alza la voce.
– Io non me ne vado finché non mi fate parlare con mia figlia. Piuttosto chiamo i carabinieri.
È una bugia. E se lo facesse non servirebbe a nulla. Matilde è maggiorenne e si è allontanata da casa di sua spontanea volontà. Emma spera solo che la suora non lo sappia.
La giovane fa un mezzo passo indietro.
– Mi dispiace, ma senza appuntamento non è possibile –. Abbassa la voce. – È un convento di clausura. Le assicuro che in questi giorni non ospitiamo nessuno.
Emma non la lascia neppure finire. – Chi è il responsabile qui?
– Come dicevo, occorre un appuntamento.
– Non mi muovo finché non mi ci fate parlare. Veda lei cosa le conviene.
La donna aggrotta le sopracciglia. Finalmente smette di sorridere. Poi piega la testa. – Un momento –. Ed esce.
Rientra qualche minuto dopo. – Venga. La accompagno –. Oltrepassano una porta a vetri ed Emma ha la certezza che Matilde sia lí, a pochissima distanza da lei. Il cuore le si allarga in un riflusso d’amore che la collera non riesce ad arginare.
Scaccia il pensiero. Le occorre lucidità.
Segue la suora. Attraversano due lunghi corridoi perpendicolari su cui si apre una fila di finestre altissime. Oltre i vetri c’è un bosco di alberi fitti e assiepati che formano un fronte discontinuo sulla linea dell’orizzonte.
Poi la suora si ferma davanti a una porta massiccia, stretta e bassa come tutte quelle che Emma ha visto finora.
– Suor Irene può riceverla, – dice. Sfiora lo stipite con le nocche e abbassa la maniglia facendosi da parte senza entrare.
Irene la aspetta in piedi dietro la scrivania, al centro della stanza.
Emma ha il tempo di osservarla. Le sembra molto diversa. I capelli ancora neri sono tagliati corti, una ruga orizzontale le segna la fronte. Indossa una tonaca grigia, lunga e dritta, ma non porta il velo.
Per un secondo Emma oscilla, poi l’impulso alla caparbietà le raddrizza la schiena. Cerca una parola inequivocabile che metta subito in chiaro come stanno le cose tra loro. Non la trova. Si chiude la porta alle spalle e si avvicina alla scrivania.
– Matilde aveva detto che saresti arrivata. Non era necessario, – dice Irene quieta. – Ho chiamato solo per tranquillizzarti.
– Dimmi dov’è.
Irene ha un’esitazione, un tremito delle labbra che ha la sembianza di un sorriso.
– Per favore, siediti. Parliamo.
Parte prima
Quand’è che le cose con Matilde avevano cominciato a peggiorare? Emma se l’era chiesto spesso, ma l’origine del disagio le sfuggiva. Sapeva solo che sempre piú di frequente le capitava di sentirsi inutile. Una madre superflua.
Forse il primo segnale inequivocabile era stato quel capodanno che Matilde aveva chiesto di passare in montagna con alcuni amici. Qualche mese dopo, a marzo, avrebbe compiuto diciassette anni. Era sempre stata una ragazza autonoma e piuttosto solitaria. Usciva poco, non se ne lamentava, sembrava quasi che non le importasse. L’isolamento era l’unica dimensione che occupava con slancio, e da moltissimo tempo i suoi avevano smesso di badarci. Matilde era fatta cosí.
La richiesta era insolita, ma poteva segnare una svolta felice. In ogni caso perché Emma e Fausto avrebbero dovuto impedirglielo? Si trattava di un paio di giorni insieme a compagni di classe di cui conoscevano il nome e la famiglia. Non c’era motivo di opporsi, e non lo fecero. Emma però avvertí fin da subito un’increspatura di affanno, qualcosa che la turbava senza avere un contorno preciso.
Matilde sarebbe dovuta rientrare la sera del primo gennaio. Invece quel giorno aveva telefonato dicendo che voleva fermarsi piú a lungo. Il pomeriggio successivo aveva ripetuto la stessa cosa, e alla fine solo un messaggio, per avvisare che non sarebbe tornata a casa prima della ripresa della scuola.
Non era mai successo. Il tono era sbrigativo, e quando Emma aveva cercato di contattarla al telefono lei non aveva risposto.
Emma si era innervosita. Sono una madre comprensiva? Direi di sí. Le pareva una cosa di cui essere orgogliosa. Le sarebbe piaciuto che Matilde in cambio le riconoscesse un’elementare forma di rispetto. Anche a una madre compiacente si può usare la cortesia di chiedere con educazione.
– Alla sua età non me lo sarei mai potuta permettere, – aveva detto a Fausto.
– Una volta ho sentito mia madre dire una cosa simile parlando della sua. E mi ricordo di una versione di Seneca dello stesso tono, ed era il I secolo. Significa solo che i figli crescono e noi stiamo diventando vecchi.
Emma aveva messo giú il libro che teneva in mano per guardare suo marito, inginocchiato sul terrazzo davanti alla porta finestra, socchiusa per non fare entrare il freddo. Le dava le spalle. Indossava una vecchia camicia a scacchi rossi e blu, e i guanti verdi da giardiniere, strappati all’altezza delle prime due dita della mano destra. Era sempre felice quando si dedicava alle piante.
Rimestava con la paletta nella sacca di terriccio come in una zuppa sul fuoco. Per lui l’asprezza di Matilde e le difficoltà di Emma significavano poco, erano malesseri irrilevanti.
Non vale la pena discutere, pensò Emma. Non avrebbe saputo nemmeno spiegare cosa la disturbasse tanto. La sua inquietudine aveva ancora radici invisibili.
Il giorno prima del rientro di Matilde, Fausto provò a distrarre Emma. – Usciamo a prendere una cioccolata, dài.
Lei era stanca. Aveva pulito casa da cima a fondo, un’attività che detestava, anche se tendeva a rifiutare qualsiasi aiuto. E neppure aveva mai accettato di assumere qualcuno. Ne usciva sempre a pezzi e intrattabile. Una volta, molto tempo prima, Fausto le aveva domandato: allora perché lo fai? Lo sai che a noi non importa. Lavori tutta la settimana. Basterebbe un terzo dell’impegno che ci metti, se proprio vuoi occupartene tu. Chiamiamo qualcuno, no? Ed era uscito dalla stanza come se la cosa si imponesse con una tale evidenza da rendere superflua ogni replica.
Emma si era fermata in cima alla scala con una pila di coperte che stava mettendo via, irritata perché la risposta le sfuggiva senza che questo attenuasse l’urgenza. E in piú la faceva sentire stupida. Poi quella notte, a letto, le parole le erano venute: perché va fatto, ecco perché. E se non me ne occupo io nessuno se ne prenderà cura nello stesso modo. Era un dato limpido, incontestabile, e lui avrebbe dovuto capirlo da solo. Ma erano passate ore e a quel punto Fausto dormiva profondamente accanto a lei. Sarebbe stato ridicolo svegliarlo, e cosí Emma se l’era tenuto per sé, né le era mai capitato di tornare sull’argomento.
Stavolta però aveva ragione lui. Prendere una boccata d’aria avrebbe fatto bene a tutti e due.
Uscirono di casa verso le sei e passeggiarono per mezz’ora lungo le strade di Prati, sbucando in via Cola di Rienzo. Le luci di Natale avevano l’aria avvilita che prendono allo scadere delle feste, in giro c’era pochissima gente. Non faceva freddo, si poteva restare seduti fuori accanto alle lampade riscaldanti. Ma Emma continuava a distrarsi, e le chiacchiere di Fausto la innervosivano.
– Sono preoccupata per Matilde, – sbottò all’improvviso, interrompendolo.
Fausto la fissò sorpreso. – Perché torna con qualche giorno di ritardo? Non mi pare grave.
– Non è questo. È cominciato prima. Non so dirti quando con esattezza, ma prima. La sento sempre distante, non so mai cosa le passa per la testa.
– In concreto cosa? Fammi degli esempi.
Emma ci pensò, ma non seppe rispondere. A Matilde non si poteva contestare niente di specifico. Si alzava di sua iniziativa la mattina, a volte perfino prima di loro se le veniva voglia di andare a correre. Era puntuale, precisa, una studentessa capace, e aveva amicizie tranquille. Non c’era nulla in lei dell’adolescente irrequieta. Eppure, anche se formalmente non metteva in discussione l’autorità di sua madre, era da tempo ormai che viveva come se non ne avesse bisogno. Matilde era ineccepibile ma scostante.
Non si poteva nemmeno dire che i loro rapporti fossero mai stati migliori di cosí. Fino a una certa età Matilde era stata meno distaccata, forse. Ma affettuosa mai, anche se Emma era quasi certa di ricordare un tempo in cui sua figlia aveva provato per lei dell’ammirazione silenziosa, come un cortigiano verso un sovrano illuminato.
– Niente. Non posso rimproverarle niente. Però vorrei capire perché non parla con me ed è ostile. Lo so che è un’adolescente, ma lo è anche per te, invece vi vedo sempre insieme. O l’adolescenza è una condanna che devono scontare solo le madri? – Poi le uscirono parole dure che Fausto non meritava: – Si vede che quando non sei il vero padre certe cose vengono piú facili.
Fausto si irrigidí ma non disse niente. Incassò e andò oltre, non era da lui portare rancore. E contro la verità dei fatti non poteva obiettare nulla. – È una fase, – rispose. Ma peggiorò la situazione, acuendo la pena di Emma. – Non è vero che ti ignora. Parliamo spesso di te.
Lo so che parlate spesso di me, pensò lei. È anche questo il problema.
Era cominciato in sordina, impercettibilmente, e all’inizio Emma non se n’era resa conto perché per tutta l’infanzia Matilde era stata una bambina taciturna.
Quando andava a prenderla a scuola la vedeva camminare sempre a passi lenti, senza scalmanarsi come i suoi compagni. Una minuscola adulta, non c’era altro modo per descrivere il senso del suo stare al mondo. Un piede davanti all’altro, lo sguardo dritto di fronte a sé.
All’inizio Emma si era preoccupata. Aveva pensato che avesse problemi di socializzazione, e in fondo la cosa non l’avrebbe stupita. Ma le maestre l’avevano rassicurata. Matilde non aveva nessuna difficoltà in classe, neppure con i compagni. Infatti, osservandola piú attentamente, con il tempo Emma aveva finito per riconoscere i segnali impercettibili della sua rete di legami. Certi bambini le lanciavano un saluto passandole accanto, e Matilde rispondeva sorridendo, oppure con un cenno d’intesa.
Intorno a lei però c’era sempre un vuoto d’aria, una vertigine di isolamento che Emma non riusciva a spiegarsi e che in qualche modo la confondeva.
A differenza delle altre madri aveva smesso quasi subito di andarle incontro. Si era convinta che a Matilde non piacessero le smancerie, e del resto non le amava neppure lei. Vedeva frotte di bambini accendersi come lampadine mentre correvano verso le madri, e si sentiva in difficoltà.
La seguiva con gli occhi dal momento in cui sbucava dal portone. Sollevava la mano per farsi notare, poi la aspettava fuori dal cancello accanto all’auto. Certe volte le pareva di essere un’istitutrice. Una donna pagata per prendersi cura di una creatura di un rango diverso dal suo. Quando arrivavano una di fronte all’altra premeva fra loro, sospesa e invisibile, una bolla di imbarazzo.
A quel punto Emma avvertiva la necessità di fare un gesto materno per ristabilire un legame, il primo che le saltava in mente, e che non risultava mai spontaneo. Le aggiustava il berretto di lana sulla fronte, o le toglieva un filo sporgente dal cappotto. Si salutavano con un bacio leggero e solo a quel punto l’impaccio si dissipava. Matilde era silenziosa e ubbidiente. Non discuteva mai. La fissava e basta.
Poi qualcosa era cambiato nella gerarchia delle sue passioni. Emma si era accorta che lo sguardo di Matilde verso di lei perdeva intensità. Al suo posto aveva preso avvio una nuova confidenza con Fausto, meno implicita e piú corporea, che ogni giorno si faceva piú forte.
– Torniamo a casa? – disse al marito, alzandosi. – Comincio ad avere freddo.
Cercò di scrollarsi di dosso la tristezza. Matilde sta cambiando, pensò. È sempre piú immune dal bisogno della mia approvazione. Forse è un bene. E se è un male, è colpa mia?
Non lo sapeva. Certo, c’era stato lo scoglio di qualche anno prima. Un atto di violenza, cosí l’aveva definito Fausto, esagerando. Dall’inizio del loro matrimonio era stato l’unico vero motivo di conflitto fra lui ed Emma, la sola divergenza importante sull’educazione di Matilde. Ma Emma non aveva ceduto e ancora oggi era solidamente convinta delle sue ragioni, forse addirittura piú di allora. Mentre Fausto, che sapeva di non poter vantare fino in fondo il diritto di padre, aveva dovuto ingoiare la frustrazione e fare un passo indietro.
Matilde sarebbe dovuta rientrare domenica per l’ora di cena…