Quando Lee è arrivata ad Amsterdam per la prima volta, aveva con sé un bambino appena nato e un segreto. Sono trascorsi cinque anni da allora e le cose sembrano essersi messe per il verso giusto: la sua carriera di fotografa di celebrità è decollata, suo figlio Jasper sta crescendo, ed entrambi non vedono l’ora di trascorrere le vacanze di Natale con gli amici. Ma tutto questo è destinato a cambiare quando, una mattina, Lee trova nel cestino della sua bicicletta un libro con un messaggio all’interno. Chi è stato a scriverlo? Spinta dalla curiosità, rintraccia il proprietario del libro, Sam. E tra loro scatta istantaneamente una connessione improvvisa quanto innegabile. Ma mentre la neve cade e il ghiaccio si addensa sui canali della città, il segreto che Lee ha tenuto nascosto tanto a lungo riaffiora. E in un istante tutto ciò che le è caro sembra sul punto di crollare e infrangersi. Riuscirà a sistemare le cose in tempo per Natale?
A Helen Fearn,
un’altra mamma tosta
Prologo
Confine turco-siriano, 2014
«Non ci posso credere, hai preso una macchina!», Lee ammirava incredula l’abitacolo spartano della vecchia Toyota Hilux.
«Non ci posso credere, hai preso una macchina!», Lee ammirava incredula l’abitacolo spartano della vecchia Toyota Hilux.
«Ovvio che ho preso una macchina». Cunningham le strizzò l’occhio da dietro gli occhiali da aviatore mentre il vento caldo gli soffiava indietro i capelli scuri.
Lee scosse la testa con un sospiro. Quell’uomo avrebbe ammaliato il diavolo in persona. «Come hai fatto?»
«Cinquanta bigliettoni e tutte le mie sigarette».
Lee lo guardò scettica. «Tutte quante?»
«Be’, forse non tutte». Con un sorriso infilò la mano nella tasca del giubbotto antiproiettile e gliene passò qualcuna.
Lei rifiutò con un cenno del capo.
«Hai smesso?», si stupì. Whisky e sigarette erano l’unico piacere che ci si potesse concedere da quelle parti.
«Ci sto provando. Quella roba ti uccide, lo sai».
Cunningham scoppiò a ridere, la testa gettata all’indietro contro il sedile, e ripose le sigarette in tasca. «Sì, certo, morirò per colpa del fumo».
Sorrise anche lei, reclinando la testa al bracciolo, felice di essere tornata. I finestrini erano aperti – il condizionatore dell’auto era morto molto prima dell’inizio della guerra – e Lee sentiva il sole feroce scottarle il braccio appoggiato allo sportello.
La macchina fotografica le giaceva in grembo, sempre pronta, eppure, una volta tanto, non la prese. Non era ancora al lavoro e i suoi occhi sfioravano tranquillamente l’orizzonte vuoto, in cerca di bellezza – un albero verde, un uccello in volo, mucche al pascolo, fiori… Ma si trovavano nel bel mezzo di una distesa ininterrotta di terra rossa e riarsa, le montagne alle spalle, il poderoso Eufrate poche miglia più a sud. Di tanto in tanto incontravano una matassa sperduta di filo spinato fissata al terreno, una profonda ferita aperta nel suolo dove era esplosa una mina, ammassi di macerie di cemento dove una volta c’erano villaggi, pennacchi di fumo causati da colpi non lontani di mortaio o di armi.
A occhi chiusi, Lee si godeva il solletico sul viso dei capelli biondi scompigliati dal vento e cercava di resistere al sonno. Era tornata lì da soli tre giorni e, dal momento in cui il suo volo era atterrato alla base militare di Hama dove si sarebbero dovuti incontrare, li aveva trascorsi in strada a cercare di intercettare Cunningham. Aveva passato sei settimane a casa in una pausa più che necessaria, mentre Cunningham nel frattempo non si era mai fermato; si erano salutati a Raqqa, da dove era partito per Hama (ma senza fermarvisi, a quanto pareva) e adesso eccoli nella provincia di Aleppo, al confine con la Turchia.
A Lee – momentaneamente ammorbidita dalla ritirata nel mondo della corrente elettrica e dell’acqua calda, delle macchine di lusso e dei cuscini di piume – sembrava di camminare su un filo, su un orizzonte sospeso sul nulla. Le tonalità, il calore, il rumore, tutto era come carne viva. Da quando era partita, la situazione sembrava peggiorata; le pareva impossibile dopo Homs, invece, in un modo o nell’altro, ogni volta che le sembrava di toccare il fondo, il fondo sprofondava un altro po’.
La strada era in condizioni pietose, con profonde buche e solchi che si aprivano ovunque in modo allarmante; impossibile che le sospensioni della piccola, vetusta Toyota potessero sopportarle, invece continuava ad andare, alzando nuvoloni di polvere al suo passaggio .
«Ti ho visto con Schneider», lo stuzzicò Lee inarcando un sopracciglio.
L’uomo la guardò di sottecchi e scoppiò in una risata sconcertata. «Adesso non sarai mica gelosa. Dovevo pur avere qualcuno. Non sapevo neanche se saresti mai tornata».
«Mi sembrava di averti detto chiaramente che sarei tornata, o no?».
L’uomo le rivolse uno dei suoi sguardi, quelli cui ricorreva quando mancavano le parole. Sapevano entrambi in che condizioni era quando era partita. Homs era stata un’esperienza brutale, un instancabile, martellante bombardamento che aveva scosso nel midollo perfino i reporter più navigati.
«Non ti ho sostituito, Fitch, e lo sai». Le scoccò uno dei suoi famosi sorrisi che lei non poté che ricambiare. Lo sapeva, condividevano l’adrenalina provocata dal loro lavoro. Nella normale definizione del termine, erano due pazzi che si andavano a cercare il pericolo, che raggiungevano zone di guerra e non vedevano l’ora di farlo.
Quanti incarichi avevano condiviso ormai? Undici? Dodici? Un numero notevole, viste le aree in cui operavano e dato che la prima volta si era trattato di un abbinamento casuale. Homs, tuttavia, aveva rappresentato una svolta cruciale per entrambi. Certa di aver visto il peggio, era convinta che ormai nessuna barbarie sarebbe riuscita a scioccarla e neanche l’atto più depravato potesse spezzarle il cuore. Fin quando le bombe non avevano cominciato a piovere dal cielo. Tuttora, la vista di un elicottero, l’inconfondibile rumore delle pale, le ghiacciavano il sangue nelle vene.
E per cosa poi? A che scopo lei e Cunningham avevano vissuto quell’inferno, smantellato la propria anima, si erano esposti in prima linea se non era cambiato niente? Le prime pagine dei giornali non bastavano; gli scatti del terrore negli occhi di un bambino, della disperazione di una madre, non erano stati sufficienti a fermare quelle bombe che, anzi, continuavano a cadere, più cattive che mai. Eppure era stata di nuovo attirata lì, contro ogni buon senso, contro ogni ragionevolezza, per la pura e semplice ragione che se non lo avesse fatto lei, allora chi? La gente credeva solo a ciò che vedeva, e toccava a lei essere gli occhi del mondo. C’erano storie che andavano raccontate. Quelle persone non avevano nessun altro. E neanche lei.
Cunningham allungò la mano a stringerle la coscia. «È bello riaverti qui, Fitch. Mi sei mancata».
«Sì, anche a me è mancato il tuo brutto muso, penso. Tuttavia avrei preferito che mi dicessi da subito di incontrarci qui invece che a centinaia di miglia», sorrise sarcastica. «Tre notti di sonno perso che non recupererò mai più».
L’uomo sghignazzò, tamburellando con le dita sulla parte alta del volante. «Bisogna andare dove ci sono le storie, Fitch».
«In un inferno simile le storie sono dappertutto. Non si scappa. Non c’è una sola persona in questo paese che non abbia una storia».
La guardò e le strizzò l’occhio. «Non come questa qui».
Nel suo atteggiamento qualcosa la colpì e le fece drizzare le antenne. «Oddio», gemette. Da quando lavoravano insieme poche volte gli aveva visto quello sguardo e sapeva benissimo cosa significasse. «Che cos’hai rimediato?»
«Una soffiata».
«Oh oh», mormorò lei in attesa di ulteriori spiegazioni. Cunningham si faceva un vanto della propria rete di contatti ramificata nel paese, che si estendeva attraverso le varie regioni come una impalpabile ragnatela, invisibile se non in una minuscola vibrazione nel vento.
«C’è un piccolo villaggio a otto miglia a ovest da qui: Khrah Eshek. C’è un tipo con cui voglio parlare. Si chiama Moussef. A Raqqa ho aiutato suo cugino a…».
Lee lo ascoltava parlare e intanto ne osservava la pelle bruciata, i capelli impolverati, la stanchezza cucita addosso come la camicia. Cunningham ci faceva più caso ormai? Dopo sei settimane di stacco la sua prospettiva si era rinnovata. Vedeva quei luoghi con occhi rigenerati.
«…tirar fuori i tre figli quando la casa è stata centrata in pieno. La bambina era rimasta sotto un architrave. Siamo riusciti a liberarla, ma aveva entrambe le gambe schiacciate».
«Quanti anni aveva?». Rabbrividì all’immagine che già le si formava nella mente. Quante altre bambine aveva fotografato nella stessa angoscia?
L’altro scrollò le spalle ma non riuscì a nascondere il fremito sulla mandibola. «Sei?»
«Camminerà di nuovo?»
«Camminare sì, ma non diventerà mai una ballerina».
Lee inspirò a fondo e tornò a guardare fuori dal finestrino. Tanto nessuno ballava più lì. Era quasi perverso pensare a musica, risate e balli quando il cielo era infuocato e il paese in fiamme.
«Comunque, questo è secondario», concluse asciutto, non volendo indugiare con il pensiero su ciò che la bambina aveva perso: era viva, quello era l’importante. «Moussef, come ti dicevo, è suo cugino. Il loro villaggio è stato invaso da gente in fuga da Kobane. Come sicuramente già sai l’ISIS ha moltiplicato gli attacchi negli ultimi tempi».
Certo che lo sapeva e la rabbia le fece digrignare i denti, immaginando già le storie che lei e Cunningham avrebbero sentito arrivando lì, già sapendo come sarebbe andata a finire. Lo scopo strategico degli jihadisti non era assumere il controllo della singola città, ma dell’intero cantone. Nelle ultime settimane avevano invaso la regione e preso già il potere in centinaia di villaggi. Non c’erano luoghi sicuri. Con la città sotto assedio – già si parlava di interrompere la fornitura di acqua ed elettricità – non andava certo meglio all’esterno alle decine di migliaia di cittadini spodestati che fuggivano da un villaggio all’altro, dritti tra le braccia del nemico.
Questa gente non ne aveva già passate troppe? Quando sarebbe finita? Ormai non c’erano più case in cui vivere, negozi in cui comprare o qualcuno che potesse governare. Quella guerra aveva già privato milioni di siriani di una patria. Per cosa combattevano più ora? Per un pugno di sabbia?
«Ma non è questa la storia», le sussurrò Cunningham protendendosi verso di lei.
Essere i primi a insorgere contro l’ISIS non era la storia? Tra la propria meraviglia, l’eccitazione del collega che sentiva sfrigolare in superficie e la scintilla nei suoi occhi, Lee imbracciò istintivamente la fotocamera e lo immortalò. Nel suo elemento. Lo fotografava raramente, quasi mai catturava quei fugaci momenti di luce, ma di tanto in tanto le erano necessari come quelli bui e, in quel momento più che mai, provò l’impellente bisogno di scattare, di ricordare a sé stessa che la vita era molto di più che restare vivi. Non aveva bisogno di controllare il display per avere la certezza di aver colto l’attimo.
«Ricordi le due ragazzine partite da Lione per diventare spose di jihadisti… circa due anni fa?».
Lo guardò in attesa della rivelazione. «Vagamente…».
«Secondo Abbad sono fuggite dall’ISIS e si nascondono a Khrah Eshek da dove stanno cercando di raggiungere il confine. I mariti sono rimasti uccisi in un attacco di droni e sono una incinta e l’altra con un figlio. Stanno cercando di rientrare in Francia, ma è molto rischioso arrivare al confine. L’ISIS ha messo una taglia molto alta sulle loro teste e sono entrate in paranoia, sicure che qualcuno possa venderle».
«Non è paranoia. Verranno vendute eccome».
L’uomo annuì.
Lee si incupì. «E come fa Abbad a sapere tutto questo a quasi cento chilometri di distanza?»
«Perché le sta aiutando Moussef». Man mano che svelava il suo piano, gli occhi gli si facevano sempre più brillanti. «Abbad è convinto che io possa attirare su di loro l’attenzione internazionale. Ci ha offerto Moussef come guida e interprete, in caso di necessità».
«Ah, capisco. Aiuti queste due ragazze a lasciare il paese e ci guadagni un’esclusiva internazionale?», osservò in tono beffardo.
L’altro alzò le spalle senza contraddirla. «Sì, avremo l’esclusiva internazionale. Uno spaccato dall’interno della vita dell’ISIS, ci pensi? Sarà l’apice della nostra carriera». Fissò il vuoto, gli occhi vivaci, l’adrenalina già in corpo. Qualunque fossero le sue motivazioni – gloria, compassione o comune e degna umanità – Lee sapeva che quell’uomo non si sarebbe mai sentito più vivo di così. «Tu parli francese, vero?»
«Un peau». Lee rispose come se sputasse fuori un moscerino.
«Bene, potrebbe tornarci utile».
«Ne dubito», sbuffò. «A meno che non ci servano indicazioni sul fornaio più vicino per comprare baguette e croissant. O debba chiedere l’ora o raccontare la mia routine quotidiana ai tempi della scuola».
I primi labili segni delle rovine di quella che un tempo era stata Kobane comparvero proprio nel momento in cui l’orizzonte fu solcato da un colpo di mortaio. Trasalirono. Era lontano miglia e miglia da lì, ma abbastanza vicino da percepirne la vibrazione nel terreno. Un altro edificio distrutto. Altre vite perse.
Lee lo vide stringere le dita sul volante. «E sei sicuro di poterti fidare di questo Moussef?»
«Ho salvato la sua famiglia, Fitch». Guardava fisso verso l’orizzonte che, chissà dove, nascondeva due giovani donne terrorizzate e lontane da casa. Braccate dagli individui più pericolosi del pianeta, non potevano immaginare che, in quel preciso istante, i loro biglietti per la salvezza sfrecciavano verso di loro in una sgangherata Toyota celestina con una Canon 5d Mark III come unica arma di difesa. «Oggi faremo qualcosa di buono in questo inferno dimenticato da Dio», mormorò Cunningham, chissà se più a sé stesso o a lei.
«Giusto». Lee si spostò sul sedile e percepì la ben nota paura che cominciava a serrarle lo stomaco man mano che si avvicinavano alla zona rossa. Aveva sperato di avere un po’ più di tempo prima di tuffarsi di nuovo nelle fauci della guerra, fossero anche venti minuti in una stanza con i piedi a terra, invece che farsi sballottare senza sosta su strade rocciose e difficili.
L’uomo la guardò di nuovo. Riusciva a capirla meglio di chiunque altro al mondo. Coglieva d’istinto la sua incertezza, la paura, l’insicurezza. «Ehi, ti fidi di me, vero?».
Lee ricambiò lo sguardo del suo vecchio amico e sospirò, le mani sulla macchina fotografica, pronte a sollevarla e inquadrare. «Dio solo sa perché».
Lui le rivolse di nuovo quel suo sorriso trionfante. «Quindi, cosa mai potrebbe andare storto?».
Capitolo uno
Bloemgracht, Amsterdam, 14 novembre 2020
«Lo vedo!».
«Davvero? Evviva!». Grazie a Dio. Lee spostò il peso sulla ringhiera mentre Jasper si dimenava sulle sue spalle, incapace di contenere l’entusiasmo. La parata stava facendo la sua comparsa, il grande evento era finalmente arrivato, introdotto da un chiasso in crescendo della folla e degli ottoni della banda. Ogni bambino al di sotto dei dieci anni aveva atteso quel momento per tutto l’anno, ma anche lei, una ventina di minuti prima, aveva cominciato a desiderarlo ardentemente. A furia di tenerlo piegato le si era anchilosato il collo e le spalle chiedevano pietà mentre il suo amato bambino ridacchiava e scalciava in attesa del trionfale arrivo in città di Sinterklaas. Per non parlare del freddo che faceva. Aveva trascorso gli ultimi minuti a guardare i ghirigori disegnati dal suo fiato nell’aria.
«C’è Zwarte Piet!», si entusiasmò Jasper sventolando sopra la testa una bandierina di plastica rossa al passaggio della prima imbarcazione della piccola flotta. Era carica di uomini e donne imparruccati, in abiti di velluto dai colori sgargianti, maniche a sbuffo e gorgiere, impegnati a lanciare caramelle e pan di zenzero ai bambini radunati sulla banchina. La loro presenza segnava l’inizio delle festività e ogni bambino su quell’angolo di canale sapeva che, per un paio di settimane da quel momento, quelle persone – gli aiutanti di Sinterklaas – sarebbero scesi dai camini ogni notte per lasciare regalini ai bambini buoni e obbedienti, in preparazione del Pakjesavond (la notte dei regali) del 5 dicembre e quella di San Nicola del 6, il clou del calendario festivo olandese. Il Natale passava in secondo piano lì, anche se, con una mamma inglese, Jasper riceveva sia la visita di Sinterklaas sia di Babbo Natale.
«Mi ha visto! Mi ha salutato!», strillava il bambino martellandola con i talloni sul petto, beatamente ignaro del dolore che le arrecava.
«Smettila di scalciare, Jazz», lo richiamò stringendogli gli stinchi per calmarlo.
«Ma ha guardato proprio me e mi ha alzato i pollici! Verrà a trovarmi, mamma! Sono stato bravo! Sono stato bravo!».
Lee non poté che sorridere. «Certo che sei stato bravo. Sei il bambino più bravo della città, te lo dico sempre».
«Eccolo!!!», il tono di Jasper salì di tre ottave e anche il martellamento dei talloni ricominciò al lento passaggio del barcone di Sinterklaas. Era un omone con una vaporosa barba bianca, un abito e la mitra bianchi e rossi e un pastorale ricurvo. Salutava pacifico la folla che si era raccolta in suo onore, sapendo che non appena fosse sbarcato poche centinaia di metri più in là per montare in sella al suo bianco destriero Amerigo, la gente lo avrebbe seguito anche per le strade. Saranno stati mezzo milione là fuori quel giorno in occasione dell’inizio delle festività. «Seguiamolo!».
«E va bene», Lee girò le spalle al canale e si spostò incerta tra la folla, sempre stringendo forte Jasper per le gambette ossute. Non aveva voluto darle le mani, impegnato com’era a sbracciarsi e indicare tutti i regali impilati sui barconi mentre la sfilata natalizia entrava in città. Lentamente Lee risalì la strada e il ponte a schiena d’asino, ma era come muoversi nella melassa e passeggini e carrozzine non aiutavano, con i genitori che lottavano per tenere i figli vicini e sotto controllo.
Sembrava che fossero usciti tutti di casa e un’atmosfera carnevalesca permeava il freddo delle strade tra squilli intermittenti di trombe e il risuonare dei fischi; perfino chi era senza bambini si affacciava alle finestre per non perdere la sfilata, stringendo una birra e diffondendo la musica dagli angusti appartamenti nei maestosi edifici seicenteschi a mattoncini neri sormontati da timpani bianchi.
L’assembramento in qualche modo si sciolse man mano che le barche avanzavano e superavano il ponte. Dovevano scendere al centro dell’azione; era impossibile avvicinarsi ai bordi con tutta quella gente, tantomeno in quel punto privilegiato. Dall’improvvisa ovazione, Lee capì che il barcone aveva attraccato e Sinterklaas stava sbarcando.
«Lo vedi?», chiese Jasper che continuava a dimenarsi e contorcersi sulle spalle come se fosse una sedia girevole.
«Sta prendendo Amerigo!», indicò incurante del fatto che sua madre non riuscisse a vedere altro che teste. Essere alta quasi un metro e ottanta contava poco in un paese in cui erano tutti alti come lei, se non di più.
«Forte!», strillò di rimando chiedendosi se ciò volesse dire che potevano ritirarsi e andare da qualche parte a prendere una cioccolata calda con marshmallow. Stava perdendo la sensibilità alle dita dei piedi e delle mani. «Bene, senti…».
Il bambino, però, conosceva troppo bene la sua intonazione. «Voglio vederlo andare a cavallo!».
Gli strinse le gambe, sempre senza riuscire a vedere Sinterklaas direttamente. «Ma è probabilmente il massimo che puoi ottenere, Jazz. Ha tutti gli altri bambini da vedere adesso, no? E poi hai detto che Zwarte Piet ti ha visto, giusto? Quindi siamo sicuri che passerà. Allora perché non…».
Lo scoppio riecheggiò tra la folla, secco, scioccante. La folla sussultò all’unisono in un rantolo collettivo come una contrazione muscolare, tutti guardavano a destra e sinistra in cerca della fonte di quel rumore. Tutti tranne lei. In un unico movimento fluido e con una forza che non pensava di
possedere, si era tolta Jasper dalle spalle e si era messa a correre tenendolo in braccio. Un vero e proprio scatto in realtà. Spingendosi tra la folla con le braccia a protezione della testa del bambino, si aprì un varco tra i corpi che solo un attimo prima sembravano impenetrabili. Sentiva le parole tra la gente, ma non si fermò.
«Mamma, aspetta! Fermati!», gridava Jasper con la voce ovattata dal cappotto contro cui era premuto mentre lei lasciava la strada principale in favore di stradine laterali, una, due, tre più indietro… nel giro di qualche minuto si ritrovarono soli, solo un cane e un paio di ciclisti sul bordo di un piccolo canale chiacchieravano con la tipica rilassatezza che distingue la gente del posto dai turisti.
Karen Swan, ha iniziato la carriera di giornalista di moda, prima di rinunciare a tutto per prendersi cura dei suoi tre figli e realizzare il sogno di diventare una scrittrice. La casa in cui vive si affaccia sulle splendide scogliere del Sussex. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi bestseller tra cui Un diamante da Tiffany (numero 1 nelle classifiche italiane), Un regalo perfetto, Natale a Notting Hill, Il segreto di Parigi, Natale sotto le stelle, Una questione di cuore, Un regalo sotto la neve, Una fantastica vacanza in Grecia, Le incredibili luci delle stelle, La mia fantastica vacanza in Spagna, Una festa da sogno, La spiaggia segreta e Innamorarsi a Natale.
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