In libreria: “L’ultimo marinaio” di Andrea Ricolfi edito da Garzanti. Estratto

Trama

Matias vive sull’isola di Noss, uno scoglio deserto scaraventato in mezzo al mare della Norvegia, gelido e misterioso. Il mare che è tutto per lui. Il mare che, quando era solo un bambino, gli ha portato via il padre per sempre. L’unica eredità che ha ricevuto è il Marlin, una barca di legno costruita a mano. È da qui che nasce il suo sogno: dare vita a una scuola di vela. Una scuola per forgiare marinai come ce ne sono stati un tempo. Una scuola aperta tutti i giorni dell’anno, per insegnare, attraverso i segreti del navigare, i segreti della vita. È così che Matias incontra Tomas, arrivato a Noss per mettere a disposizione degli allievi quello che ha appreso solcando le distese blu di tutto il mondo: il mare è pericoloso e non importa quante tempeste si siano affrontate, perché quella successiva mette la stessa, identica paura di morire. È la legge del mare, una legge crudele, ma mai crudele quanto quella degli uomini. Tomas è un uomo silenzioso, in disparte rispetto al resto del mondo, come il canto di una voce lontana che nessuno sa decifrare. Matias scopre in lui un’anima pura, capace della forza più vigorosa, ma anche della tenerezza più inaspettata. Virata dopo virata, mentre la notte del Nord si illumina di luci che danzano nel cielo, diventa non solo un maestro, ma un amico. Perché far parte di un equipaggio insegna che il vento non si deve affrontare da soli. Mai. Andrea Ricolfi ci porta in Norvegia tra case colorate, venti e mareggiate. Ci porta sul ponte di una nave dove si impara il coraggio, la fatica e l’amicizia più vera. Ci porta in un mondo in cui essere marinai significa esserlo per tutta la vita.

Estratto

1.

C’era sempre una voce che cantava. Poteva non farsi sentire per giorni, ma poi tornava e ogni volta spargeva per le strade la stessa melodia. Non sono mai riuscito, allora, a vedere chi fosse a cantare. Per anni mi sono esercitato a immaginare che aspetto avesse quella persona.

Mi chiamo Matias Holm. Da bambino non avrei mai pensato di invecchiare su un’isola con trecento abitanti e invece sono qui da quando ho dodici anni.

Sono nato sulla costa norvegese, in una città con un porto pieno di pescherecci e un gran viavai di gente che veniva a commerciare. Un giorno mio padre mi disse di andare a scuola da solo: erano arrivati i pescatori del Nord, che avevano una barca nuova ben attrezzata e quel mattino lo volevano nell’equipaggio. Era il 5 novembre 1964. Una giornata di tardo autunno con raffiche di pioggia. Il mare faceva paura, nessuna imbarcazione in vista. Quando tornai da scuola trovai la casa chiusa. Un vicino mi accompagnò al porto senza dirmi una parola, mi teneva stretto per un braccio. C’era molta gente sul molo grande, gli impermeabili gonfi di vento, si stava in piedi a malapena. Mio padre era caduto in mare. Non si trovò mai il corpo.

Alcuni mesi dopo mia madre mi portò qui, sull’isola di Noss. Mi parve uno scoglio deserto scaraventato in mezzo al mare. Non credo che lei volesse scappare, ma solo stare in un posto più adatto alla nostra solitudine. «Ci farebbe bene un luogo che ci rassomigli», mi disse il giorno della partenza. Adesso ho sessantadue anni e sono solo, anche mia madre mi ha lasciato una ventina di anni fa.

Le strade di Noss sono strette e sono poche. Le case sono di legno, a forma di casa. La mia è come molte altre, costruita con assi orizzontali pitturate di bianco, bassa e col tetto spiovente; sembra quasi infossarsi, o avere radici, nel lastricato che ricopre una delle vie più antiche dell’isola.

Le finestre sono piccole e a forma di finestra, come le disegnerebbe un bambino di cinque anni.

Il mare norvegese è freddo tutto l’anno. Tuttavia i ragazzini dell’isola passano l’estate in spiaggia, pescano, tagliano legna, vanno a cavallo, nuotano, si asciugano davanti al fuoco, si abituano al clima e al vento. Durante la mia prima estate sull’isola passavo tutte le mie giornate con loro, ma ero l’unico a non saper nuotare. Stavo per ore seduto su uno scoglio a guardare gli altri buttarsi nell’acqua gelida e non so se avrei voluto farlo anch’io. Forse sì. Sfioravo i paguri sulle rocce e pensavo che mi sarebbe stato più facile essere accettato dalla loro comunità piuttosto che farmi degli amici della mia stessa specie. Finché non conobbi Jonas.

Jonas era un ragazzino di due anni più vecchio di me che, senza conoscermi, un giorno irruppe nella mia solitudine, mi prese per un braccio e disse: «Vieni, Matias, oggi ti insegno a nuotare». Quel giorno smisi di essere uno straniero.

Jonas mi invitava spesso nella sua grande casa, proprio dietro l’unica spiaggia che si può trovare a Noss. Mangiavamo un pezzo di pane o di cioccolato, riprendevamo le forze e uscivamo di nuovo, come se la giornata ricominciasse da capo. Una musica raffinata pervadeva le stanze di quella casa, ogni volta che ci andavo la sentivo. I genitori di Jonas amavano la musica classica; suonavano il violoncello e fin da ragazzi avevano girato l’Europa per fare concerti. C’erano veli di lino azzurro a separare le diverse stanze e, nelle giornate di vento, erano agitati come i mantelli dei supereroi. Io pensavo che non fosse il vento, ma quella musica a farli danzare.

2.

Posso dire, adesso che è quasi passata, che la mia vita è stata interessante solo in minima parte: un minuto al massimo, volendo sommare tutti gli istanti degni di essere ricordati. Ma sono certo che ognuno di essi avesse qualcosa a che fare con il mare.

Anche se aveva portato via mio padre, io non l’ho mai considerato un nemico. Neanche mia madre mostrò mai una vera e propria ostilità nei confronti del mare: fu proprio lei a insistere per portare sull’isola la nostra vecchia barca a vela, il Marlin: era tutta di legno, l’aveva costruita a mano mio nonno molti anni prima che io nascessi. Era pesante ma slanciata, dai lineamenti antichi.

Siccome mio padre non c’era più, mi occupavo io della manutenzione e la tenevo come avrebbe voluto lui, o almeno così mi piace credere. Quando stava in mare, non c’era molto da fare: le barche di legno sono fatte per stare sempre in acqua. Nei mesi di tempesta la tiravo a secco e allora sì che il Marlin rischiava la vita. Col sole il legno tende ad aprirsi e con la pioggia a marcire. Chi non si è preso cura della propria barca di legno non può capire questo legame. Ci si sente responsabili per la sua vita, ci si sveglia di notte per un tuono, con l’unico pensiero del suo legno, e ci si chiede: “Starà soffrendo?”.

Da bambino il Marlin mi sembrava enorme, pensavo fosse un galeone, e mio padre un pirata buono.

Non la usava solo per andare a pesca. Ci usciva con mia madre, la domenica, se il mare era calmo e c’era un po’ di vento. È uno dei pochi ricordi che ho dei miei genitori insieme. Io preferivo stare a casa a disegnare, avevo un’enciclopedia di mare da cui copiavo le immagini dei pesci. Osservavo i miei dalla finestra: una volta usciti, raggiungevano lo scoglio piatto che usavamo da sempre come pontile; il Marlin era ormeggiato lì, proprio davanti a casa, lo tenevamo sempre vicino. Mio padre saliva per primo, liberava il timone, preparava le vele, buttava in mare le alghe tirate su dall’ancora, allentava gli ormeggi per facilitare la salita a mia madre e infine le allungava una mano per accompagnarla a bordo. Lanciata la cima d’ormeggio sullo scoglio, in un attimo alzava le vele e il Marlin decollava, inclinato e silenzioso.

Non avevo ancora quindici anni quando iniziai a fare qualche lavoretto qua e là, per aiutare mia madre. Nulla che avesse a che fare con chi ero veramente. Ma non sapevo chi fossi e la mia vita era come avvolta nella nebbia, non avevo idea di che cosa volessi diventare, né se fossi sulla strada giusta per iniziare a sentirmi vivo. Per fortuna Jonas era sempre con me: lavoravamo nei cantieri come muratori, aiutavamo i pescatori più anziani a ricucire le reti, riparavamo i sentieri sconnessi dell’entroterra, costruivamo boe di segnalazione per le secche attorno all’isola, aggiustavamo quello che si rompeva. Qualunque misero impiego gli capitasse tra le mani, chiamava me e andavamo insieme, e io facevo lo stesso. Nel tempo libero c’era il mare. Pescavamo dagli scogli nelle giornate di risacca, andavamo a nuotare e a cercare conchiglie e ricci sott’acqua; ma soprattutto, quando potevamo, prendevamo il Marlin e lasciavamo la terraferma. Grazie ai pochi rudimenti di vela che mi aveva insegnato mio padre, riuscivamo a farci qualche bella uscita. A volte pescavamo al traino andando a vela: bisognava che la barca avesse una specifica velocità, seguisse una rotta ben precisa – quella dove pensavamo si muovessero i pesci – e tenesse una certa andatura. Di rado riuscivamo a far collimare tutto, ma quasi sempre portavamo almeno un pesce in tavola.

A quell’epoca era solo questo il mare per me: un’entità quasi del tutto sconosciuta che mi aveva tolto qualcosa di prezioso, e che tuttavia mi circondava, con una sua delicatezza. Prendevo quello che di bello ci trovavo e riuscivo a farlo soprattutto grazie a Jonas. Fu proprio lui a spingermi a usare la barca di mio padre. Per il mio sedicesimo compleanno mi regalò un’antica bussola della sua famiglia, chiedendomi di provarla con lui sul Marlin. Se fosse stato per me, mi sarei occupato di preservarne il legno fino alla morte, ma credo che non avrei avuto l’ardire di mettermi per mare. «Che cosa la tieni a fare», mi diceva, «se non ci esci mai? È solo un pezzo di legno ben conservato!» Ma non fu facile, anche con il suo aiuto, vincere quel blocco: mi ero sempre sentito al sicuro sul Marlin proprio perché mio padre era lì, era lui il capitano. E se ai miei occhi lui era il migliore, e ora non c’era più, come potevo io prendere il suo posto e sperare di tornare a casa vivo? Jonas in qualche modo riuscì a farmi superare questa esitazione – forse nella mia mente avevo eletto lui a mio futuro capitano, e così iniziai a fidarmi del vento…

foto presa dal web

L’autore

Andrea Ricolfi è nato a Torino e ha studiato matematica a Torino, Padova e Bordeaux, conseguendo il dottorato di ricerca in Norvegia. Vive a Trieste ed è titolare di un assegno di ricerca presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"