In libreria “L’ alchimista imperfetta” di Naomi Miller

Inghilterra, 1600. Una contessa che osò essere una scienziata. L’incredibile storia di una donna fuori dagli schemi. “Mia madre era una strega. O almeno così dissero quando la trascinarono via. Ma per me era vera solo una cosa: lei era il centro del mio universo. Avevo nove anni e la mia vita cominciò quel giorno.” Inghilterra, 1573: in un mondo già illuminato dalla luce del Rinascimento, ma in cui ancora si dà la caccia alle streghe, la piccola Rose è figlia di una madre accusata di stregoneria, e per lei la vita sembra avere in serbo solo povertà e amarezza. Finché non avviene qualcosa che cambierà per sempre il suo destino: approda, come domestica, nel grande castello dei conti di Pembroke, regno della contessa Mary Sidney Herbert. Mary è una nobildonna, ma non una qualsiasi: amica della regina, mentore di un giovane poeta sconosciuto chiamato William Shakespeare, grande appassionata di letteratura e, cosa inaudita per i tempi, di scienza, Mary ha un segreto. Un vero e proprio laboratorio di alchimia, allestito nel suo palazzo, dove trascorre ore di studio ed esperimenti. E quando Rose si affaccia nella sua vita, Mary – che da tempo desidera una figlia che non arriva – la istruirà, insegnandole l’amore per lo studio. La loro amicizia, cementata dall’interesse proibito per la scienza, diventerà la cosa più importante: il modo per salvarsi dall’oscurità dei tempi, e lasciare la loro traccia nella Storia. Un romanzo raffinato ed emozionante, che racconta il personaggio, realmente esistito e ingiustamente dimenticato, di Mary Sidney Herbert, la contessa alchimista, ma è anche un affresco di un’epoca affascinante, l’era Tudor, magnifica nelle sue luci e nelle sue molte ombre.

Per Chris,
che completa il doppio uroboro

L’Opus alchymicum è il processo alchemico necessario a trasmutare i metalli comuni in preziosi o a distillare un liquido per raffinarlo, e si divide in tre fasi:

Nigredo (mortificatio): lo stadio iniziale, nero, che rappresenta l’immersione nel caos, nell’oscurità, nella cenere; la discesa, il morire.

Albedo (solutio/ablutio): lo stadio puro, bianco, che rappresenta pulizia, lavaggio, purificazione.

Rubedo (projectio): lo stadio finale, rosso, che rappresenta completamento e liberazione, sintesi, unità di maschile e femminile.

Preludio

IL LABORATORIO DI DISTILLAZIONE

Lady Catherine Herbert

L’alchimia non è superiore alla superstizione. Nel migliore dei casi, è un’ingenua speranza; nel peggiore, un’immensa sofferenza. Anche quando l’obiettivo è meno ambizioso che tramutare la materia vile in oro.

Catherine posa la lanterna sul pianerottolo e appoggia i polpastrelli alla porta di rovere per non perdere l’equilibrio. Respira in brevi rantoli, il petto compresso da cinghie di dolore per aver salito le tre rampe di scale fino in cima alla casa, con piedi che sembrano di piombo.

È rimasta delusa così tante volte che ha quasi abbandonato la ricerca. Eppure, ancora una volta, anche se le gira la testa per le vertigini, estrae dal sacchetto di mussola che le pende dalla cintura un anello con chiavi d’ottone, d’argento e d’oro. Infila nella serratura la più grande, quella di ottone, e apre con una spinta la pesante porta.

Il laboratorio di distillazione a quest’ora è immerso nel chiarore lunare, gli scaffali e i tavoli sono orlati di ombre nere; è molto diverso dall’arnia surriscaldata in cui si è data tanto da fare durante il giorno con intrugli e distillati. Ora il silenzio freddo della stanza è inquietante, minaccioso.

Solleva la lanterna ed entra a passi incerti, inalando gli aromi muschiati di spezie e minerali. Tiene la lanterna con mano tremula, facendo roteare tutto intorno lame di luce e ombra, infine la posa sul tavolo da lavoro che si estende per quasi tutta la lunghezza di una parete. Sugli scaffali al di sopra del tavolo stanno allineate bottiglie di vetro colme di sciroppi di erbe e liquori, tinture e balsami, accanto a unguenti e lozioni in vasi di peltro. Le erbe secche del suo giardino sono appoggiate accanto a costosi minerali e spezie provenienti dall’estero, tutti etichettati con cura e divisi secondo la capacità di guarire o nuocere. Lungo la parete sotto il tavolo ci sono casse di ingredienti pronti per essere usati non appena lei si sentirà abbastanza in salute da riprendere il suo lavoro… se mai quel giorno arriverà.

Suo marito, Henry Herbert, Conte di Pembroke e proprietario di Wilton House, non ha badato a spese per sostenere la sua attività nel laboratorio di distillazione, in cui ha preparato e perfezionato rimedi chimici ed erboristici per la salute del numeroso personale di Wilton e per quella dei contadini e degli abitanti delle campagne del Wiltshire nei pressi della tenuta. Ma Lady Catherine non è venuta quassù di notte per procurarsi uno sciroppo per la tosse di un cameriere o una tintura per alleviare i dolori del parto di una donna del villaggio. Né per cercare ancora una volta l’inafferrabile rimedio ai propri malanni. Abile com’è a curare gli altri, perché non è in grado di guarire se stessa?

Da anni, ormai, la produzione di medicinali va di pari passo con la chimerica ricerca di una cura… non per la sua debolezza persistente, ma per la sterilità. Suo marito non le ha mai rimproverato l’incapacità di generare un figlio, ma a ventidue anni, ancora senza figli dopo nove anni di matrimonio, è fin troppo consapevole che l’assenza di un erede al titolo di conte è per lui motivo di sconforto e di preoccupazione per la stirpe dei Pembroke. Lei stessa quasi non riesce più a immaginarsi con un neonato tra le braccia. A lei interessa il bambino, non la stirpe.

Resa impaziente da questi pensieri, Catherine si avvicina decisa all’armadietto in fondo alla stanza, oltre gli scaffali aperti che contengono tutti i recipienti alchemici essenziali per il suo lavoro: aludel e storte di vetro, vasi d’argento e pellicani di rame. Gli aludel, noti agli alchimisti come “uova” per via della forma, la fanno sempre pensare al proprio grembo vuoto, in attesa di essere riempito. Appoggia la lanterna accanto all’armadietto e sceglie la piccola chiave d’argento, apre lo sportello intarsiato e inala un vago sentore di fragranze esotiche. I ripiani inferiori ospitano una serie di bottigliette e fiale piene di tinture e liquori speciali. Un altro scaffale contiene vasetti di spezie preziose provenienti da terre lontane: cardamomo, zenzero e zafferano dall’India, noce moscata e chiodi di garofano dalle Isole delle Spezie, cannella da Ceylon. Lei solleva i coperchi e chiude gli occhi, e la nota distintiva di ogni aroma si mescola in complessa armonia con le altre, inebriando i suoi sensi. Il ripiano più alto contiene le sostanze più rare e pericolose, da usare solo in piccole dosi per i malanni estremi.

Il ripiano centrale del mobile è coperto di minerali colorati, da un marmo venato di cremisi a un grande quarzo rosa cristallino, la pietra regina della sua collezione, circondata da una manciata di piccole gemme tagliate dallo stesso quarzo: cristalli burattati, lisci e traslucidi alla luce tremolante. Ne strofina uno tra le dita e lo infila nel sacchetto di mussola.

Catherine tira fuori dal fondo dell’armadio l’oggetto della sua ricerca: un cofanetto nero di noce, regalo del marito, che custodisce le sue ricette medicinali. Passa le dita sui simboli alchemici incisi sul coperchio e sui lati: linee incrociate sotto un cerchio sormontato da due corni a indicare l’argento e un cerchio intorno a un punto centrale, con una corona messa di sbieco, per oro. Non si stanca mai di toccare quelle linee, che sembrano impregnate del potere delle sostanze che rappresentano.

Apre il cofanetto con la chiave più piccola, quella d’oro, solleva il coperchio e tocca il fascio di carte. Spera di poter donare questo prezioso cofanetto a una figlia. Ma la collezione di ricette non è ancora completa. Il rimedio più importante continua a sfuggirle. Nonostante i continui fallimenti e il crescente scetticismo riguardo ai poteri dell’alchimia, sa che se mai le torneranno le forze, continuerà la ricerca, per disperata che sia.

«Rosmarino, salvia, menta piperita, angelica, ginepro, ruta.» Sussurra quei nomi come per lanciare un incantesimo o chiamare gli spiriti a riempire il suo corpo… o come per nominare la bambina che immagina di istruire un giorno nell’arte dell’alchimia.

Ma ora occorre tornare al compito presente: non una ricetta, ma un messaggio.

Catherine mette il cofanetto sotto il braccio, solleva la lanterna e si gira. Muovendosi rapidamente, passa così vicino agli scaffali che la manica dell’abito si impiglia in uno degli aludel di vetro. Il recipiente scivola oltre il bordo dello scaffale e si frantuma sul pavimento. Lei impietrisce. Poi chiude gli occhi e butta fuori il fiato.

Non tutti gli incidenti sono segni.

Catherine raggiunge uno scrittoio di fronte alla finestra illuminata dalla luna e posa il cofanetto di noce. Sprofonda nella sedia di fronte allo scrittoio, prende un foglio di carta dal cassetto e immerge la penna d’oca nel calamaio. Mentre scrive, le spalle strette si rilassano e il respiro si stabilizza. Le parole prendono forma lentamente alla luce tremula della lanterna, ma ora la mano è ferma. Alla fine posa la penna d’oca, rilegge quanto ha scritto e piega il foglio. Prende la candela di ceralacca sulla scrivania, l’accende alla fiamma della lanterna, fa sgocciolare la cera cremisi sul foglio. Con la sicurezza che le deriva da una lunga pratica, le sue dita trovano il piccolo ciondolo d’argento, annerito dall’uso, che tiene appeso a una striscia di cuoio intorno al collo. Preme energicamente il cerchietto nella cera per completare il sigillo. Mentre l’immagine si indurisce nella cera che si raffredda, rimette il ciondolo al collo.

Solleva il coperchio inciso del cofanetto per infilarci dentro la carta, poi si ferma e, dopo aver intinto ancora una volta la penna d’oca, scrive con uno svolazzo:

Alla prossima Cleopatra

PARTE PRIMA

1573-78

NIGREDO (mortificatio):
lo stadio iniziale, nero, che rappresenta l’immersione
nel caos, nell’oscurità, nella cenere; la discesa, il morire.

1

ROSE

1573

Mia madre era una strega.

O almeno così dissero quando me la portarono via. L’unica verità che conoscevo è che lei era il centro del mio mondo. Ma fu quello il motivo per cui mi allontanò.

Avevo nove anni.

«La signora nella grande casa ti insegnerà quello che io non so» disse. «Lei ti darà strumenti che nessuno potrà mai mettere in discussione: leggere, scrivere, preparare rimedi. La sua erudizione non ha pari.»

Mi afferrò per le braccia con forza, facendo una smorfia come se avesse assaggiato qualcosa di amaro, e io aggrottai la fronte per nascondere il mio terrore.

«Impara tutto ciò che puoi, Rose» mi disse con urgenza. «Ma non usare il tuo sapere a meno di non esserci costretta. La conoscenza fuori del comune spaventa la gente. Ecco perché…» Si interruppe con un singulto. Vidi la sua gola contrarsi e ingoiare le parole. Le sue guance un tempo paffute, che mi piaceva tanto baciare, sembravano dimagrite, ma inspiravo ancora l’inebriante miscela di fragranze delle erbe del suo orto e della dispensa, pungenti e dolci.

«Mamma, puoi insegnarmi tu tutto quel che mi serve.» La mia voce si incrinò per la disperazione mentre cercavo di scavarmi una tana nel suo petto. Volevo soltanto non lasciarla mai. Restare a casa con mamma, papà e il mio fratellino. Non essere rinchiusa in quella magione per servire una signora che non conoscevo.

Lei scosse la testa una volta, e poi basta.

Discutere ancora sarebbe stato inutile. E non c’era altro che potessi offrirle.

Mamma era figlia di un contadino, ma quello che sapeva l’aveva imparato da sua madre, come ad esempio riconoscere le bacche sulle siepi: quali assaggiare, quali buttare e quali spremere per farne liquori curativi. Fu la sua conoscenza delle erbe che indusse mio padre, Martin Commin, un mercante di stoffe con una bancarella a Salisbury, a sposarla.

Quella storia mi piaceva tantissimo e me l’ero fatta ripetere da mamma tante volte che avrei potuto raccontarla io stessa. «Ho sentito dire che vostra figlia Joan conosce le erbe e diventa più esperta di stagione in stagione» disse papà quando andò dal nonno, allevatore di pecore, a chiederla in matrimonio. «Credo che da queste parti le erbe medicinali abbiano un buon mercato, potrei venderle al mio banco, insieme alle stoffe… così manterrei i miei clienti in salute, oltre che ben vestiti. Voglio prendere in moglie la vostra Joan.» Mio padre non è mai stato tipo da farla tanto lunga.

Mamma mi raccontava che lui aveva grandi sogni. «È questo che mi è piaciuto, quando ha iniziato a corteggiarmi. Aveva undici anni più di me, ma i suoi sogni sembravano nuovi come i miei: desiderava farsi strada nel mondo, proprio come me.» Quella parte della storia era la mia preferita, perché anch’io avevo già dei sogni miei.

«Quindi ci sposammo nella parrocchia e mettemmo su casa qui ad Amesbury» diceva mamma, offrendo al mio fratellino Michael un biscotto e a me i suoi racconti, per far contenti entrambi.

«All’attività di Martin ho affiancato quella erboristica, insegnandone i segreti al suo nuovo apprendista, un ragazzo di nome Simon. La gente ha cominciato ad arrivare da tutto il Wiltshire per i miei preparati. All’epoca, il signore della casa si era preso una prima moglie con cui non andava d’accordo. E non era certo una guaritrice. Quando i lavoratori si ammalavano o si facevano male, Sua Signoria li mandava da me.» A quel punto sospirava e taceva un momento, lisciando una piega della gonna con le mani agili. «Simon amava le stelle. Mi ha insegnato i cicli dei pianeti e io gli ho insegnato i cicli delle piante.» Io aggrottavo la fronte e mamma mi spiegava la differenza tra piante e pianeti. «I pianeti assomigliano alle stelle nel cielo notturno.» Ascoltandola, abbozzavo immagini sulle pietre del focolare, come facevo sin da quando avevo imparato a tenere in mano un carboncino. Disegnavo piante con boccioli di luce stellare al posto dei fiori, e mamma sorrideva. I disegni che facevo mentre raccontava le sue storie ci rendevano felici entrambe.

«Insieme, io e Simon abbiamo preparato medicine da vendere che hanno portato a vostro padre tanti clienti che di più non si poteva» continuava lei. «Ah, abbiamo imparato tantissimo l’una dall’altro! 

Naomi Miller è un’apprezzata studiosa di letteratura rinascimentale, che vive e lavora in Massachussets dove insegna inglese e gender studies. Questo è il suo esordio, da poco pubblicato in Inghilterra dove ha ottenuto un grande successo di pubblico. L’alchimista imperfetta è il primo di una serie di romanzi chiamata “Shakespeare’s sisters” che celebreranno grandi figure di donne dell’epoca Tudor; Naomi Miller è già al lavoro sul secondo volume.

«Una storia di coraggio e di spirito indomito, che illumina la vita affascinante della scrittrice e scienziata visionaria Mary Sidney Herbert. Miller rende omaggio alla sua eroina letteraria, contribuendo a celebrare le voci e le vite di donne che la storia ha ingiustamente dimenticato.»

RUTH OZEKI finalista al Booker Prize e al National Book Award

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"

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