Doveva essere la rimpatriata perfetta: sei amici dell’università che si ritrovano dopo vent’anni. L’ospite, Ali, ha la vita che ha sempre voluto, una carriera di cui andar fiera e uno splendido marito, che è il suo ragazzo di allora. Ma quella notte succede qualcosa di scioccante e imprevedibile. La sua migliore amica Karen, infatti, rientrando in casa dal giardino, lancia un’accusa scioccante che scuote i presenti. Sanguinante e sconvolta, afferma di essere stata aggredita dal marito di Ali, Mike. Ali deve prendere una decisione immediata: a chi credere? Al suo sconcertato marito o alla sua migliore amica? La versione dei fatti di Mike è completamente diversa da quella data da Karen, quindi uno dei due sta mentendo, ma chi? E perché? E così, appena dopo aver rievocato i bei tempi passati, Ali si rende conto che ci sono ricordi oscuri rimasti sopiti per decenni, misteri per i quali qualcuno sarebbe disposto a uccidere.
Capitolo uno
Ora che è tutto finito mi ritrovo spesso a pensare al momento in cui è cambiata ogni cosa. Il breve intervallo di tempo in cui la mia vita è passata dall’essere perfetta (ok, magari non perfetta ma almeno non male) a totalmente devastata. Soprattutto penso a come la mia mente abbia cercato di allontanarsi da quello che è successo – per favore non ora – e agli sforzi che ho compiuto per fingere che non ci fosse nulla di vero, di reale. Almeno per qualche secondo. Era una parte di me che non conoscevo, questa capacità di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi. Pensavo di essere la classica persona che si attiva immediatamente, che chiama la polizia, prepara un tè caldo zuccherato per combattere lo shock.
Invece, quando Karen arrivò in cucina quella notte – barcollante, tremante, con il vestito nero arrotolato intorno alle cosce, i lividi sul collo che risaltavano come sbavature d’inchiostro su un giornale – non ero pronta. Rimasi in piedi, raggelata dall’orrore, desiderando che si potesse riavvolgere il tempo e congelare il momento appena passato, conservarlo pulito e intatto.
Karen singhiozzò, sembrava che l’avessero privata perfino della voce. E prima che la mia mente traditrice avesse anche solo il tempo di pensare per favore, non dircelo, ce lo disse.
«Mi ha violentata. Mi ha violentata».
Anche Jodi era lì, in piedi con la caffettiera in mano, il bollitore che brontolava, e fu lei, non io, a trovare il coraggio di porle la domanda: «Chi, Karen? Che cosa significa?».
E Karen disse quel nome, poi cadde in ginocchio, un movimento teatrale, drammatico, come se le gambe la stessero abbandonando. Aveva i capelli in disordine, arruffati come se qualcuno glieli avesse afferrati con forza. Un rivolo di sangue le scorreva lungo la coscia, si allungava sulle piastrelle di ardesia del pavimento della cucina. Più tardi, dopo che i poliziotti se ne furono andati, lo strofinai via. Ma non si è mai pulito davvero.
Prima ho detto che non ero pronta a sentire ciò che Karen aveva da dirmi, mentre irrompeva nella mia cucina e collassava di fronte ai miei occhi. Ma sul serio, come si può essere pronti per una cosa del genere?
Poco prima, lo stesso giorno
«Devo proprio, mamma?»
«Certo che sì. Cosa potresti fare altrimenti?». La mia testa era impegnatissima a passare in rassegna la mia to-do list. Letti, asciugamani, cioccolatini da caffè, la stanza di Benji.
Benji alzò a malapena lo sguardo dal suo iPad. Dieci anni e aveva già un iPad. A volte me ne meravigliavo, come facevo con molte cose nella mia vita. «Sarà una noia. Non c’è nessuno della mia età».
Odiavo l’intonazione lamentosa della sua voce, il modo in cui il suo faccino liscio e privo di acne si distorceva in un’espressione corrucciata. Nessuno ti avverte mai che c’è un’altra faccia della medaglia quando dai ai tuoi figli tutto ciò che non hai mai avuto – diventano deimocciosi viziati. «Ascolta, rimani solo per cena e comportati bene, poi puoi fare quello che vuoi. Guardi un film, giochi con l’iPad, qualsiasi cosa. Ok?». Prendere il servizio buono, tirare fuori il gelato dal freezer, lucidare i calici.
«Cosa c’è per cena?». Le sue dita non si fermavano mai, scorrevano in continuazione sul device. Lo guardai negli occhi, quegli occhi di un azzurro così chiaro che si muovevano lungo il monitor, e mi assalì l’ansia per il tempo che passava davanti allo schermo. Il disturbo da deficit dell’attenzione me lo stava rovinando.
«Sto preparando il tagine. Couscous, insalata, cose così». Avevo già pianificato il menu nei minimi dettagli, ordinando quello che mi mancava da Ocado, e l’agnello e le verdure erano già disposte sul tagliere. Ma avevo paura. Mi pareva tutto troppo facile.
Benji brontolò. «Odio il cibo marocchino».
Mi sarebbe piaciuto moltissimo rispondergli: Quando avevo la tua età non l’avevo mai neppure sentito nominare, il cibo marocchino. Avevo quelle parole proprio sulla punta della lingua. Me la morsi. «Benji. Questa cosa è importante per me e papà. Non ci ritroviamo tutti insieme, e intendo tutto il nostro gruppo di amici, dai tempi dell’università. È un weekend speciale. Quindi perché non la smetti con la tiritera del povero ragazzino ricco, eh?»
«Devo davvero dividere la stanza con Cassie?»
«Lo sai benissimo. Altrimenti non c’è spazio per tutti».
«Ma Cassie mi sveglia sempre. Passa tutta la notte al telefono, mi va la luce negli occhi».
La lista si stava srotolando nella mia testa. Gettai un’occhiata all’orologio – merda, mi restava meno di un’ora. Perché mi ero messa d’accordo con Vix proprio per quel giorno? Come mi era venuto in mente? «Le dirò di non farlo allora. La tua stanza è in ordine per la zia Karen?»
«Sì». Allungò la mano verso il pacchetto di patatine Kettle e la respinsi con uno schiaffo.
«Hai appena pranzato. Perché non vai a giocare, Benji?»
«Giocare a cosa?».
Io ero più indipendente alla sua età, ne ero sicura. Dovevo parlare con Mike e togliergli l’iPad. Aggiunsi un’altra voce alla mia lista mentale, sotto controllare i bagni, accendere le candele, e tutte le altre faccende che dovevo sbrigare prima dell’arrivo degli altri. Perché ero sempre a corto di tempo? Offrii un contentino a mio figlio. «Ascolta, ti ricordi di Bill? Sta arrivando anche lui. Va sempre a pescare in Svezia. Scommetto che ti mostrerà come si fa, se glielo chiedi gentilmente».
Vidi un occhietto azzurro alzarsi dallo schermo dell’iPad. Colpito e affondato.
«Ti piacerebbe, vero?». Mike aveva comprato a Benji una canna da pesca per Natale ma non aveva ancora trovato il tempo di portarlo al piccolo ruscello al di là del giardino. Non pensavo che mio marito sapesse effettivamente pescare, ma Bill sì. Conservavo intatta nella mente l’immagine di lui sul retro di una barca, all’università, che catturava un povero pesciolino grigio usando un sandwich di gamberi come esca. Lo rilanciammo in mare, ma me la vedo ancora, quella bestiolina sfortunata. Come sbatteva sul legno, agonizzante. Io, Karen e Jodi che strillavamo come ragazzine. Bill con lo spinello che gli pendeva dalla bocca, sempre così disinvolto, ma un po’ sorridente anche lui, orgoglioso e sorpreso.
Benji spense l’iPad e si alzò. «Vado a riordinare la mia camera, allora. Voglio dire, a riordinarla meglio».
Lo presi tra le braccia e lo strinsi forte. Odorava di biscotti e shampoo. Non ancora di piedi e rancore, come un adolescente. Mi venne in mente che Jake sarebbe arrivato a breve, e quindi dovevo pensare a qualche argomento di cui parlare. Era un’impresa farsi largo tra le sue difese, arrivare al cuore del ragazzo impenetrabile che era diventato. E scoprire cosa potesse desiderare per il suo diciottesimo compleanno, che si avvicinava rapidamente. Almeno potevo godermi Benji ancora per qualche anno. «Sei un bravo bambino».
«Dai, mamma», disse, ma ricambiò l’abbraccio. «Dov’è Cassie?»
«In centro». Le avevo chiesto di comprare un’altra candela e non era ancora rientrata.Zuppa, pane, erbette per il tagine, lasciare il vino a respirare…
«Scommetto che è con Aaron».
«Va be’, magari hanno dei compiti da fare…».
«Non sono nella stessa classe, mamma». No, perché il ragazzo di Cassie frequentava il corso preparatorio a Oxford e Cambridge e lei non ce l’aveva fatta a entrare. E io e Mike fingevamo che andasse tutto bene, che non fosse assolutamente un problema. Altre preoccupazioni mi volarono nella testa come uno sciame di moscerini – Cassie che passava troppo tempo con Aaron, e poi fin dove si erano spinti? E se le fosse successo qualcosa? Era in ritardo. Poi la porta sul retro, quella che dava sul bosco, sbatté ed eccola lì.
«Cassie?».
Scivolò in cucina e notai quanto fosse corta la sua gonna, quanto fosse attillato il top. «Che c’è?».
Aveva un segno rosso sul collo. Dietro di lei, nell’androne, vidi qualcun altro – il suo ragazzo, Aaron. Era così alto che ci mancava poco che sbattesse la testa contro il lampadario d’antiquariato che avevo appeso all’ingresso. «Ciao, Aaron».
«Salve, signora Morris». Aveva delle maniere adorabili – ovvio, sarebbe stato strano il contrario. Adorabili come i suoi voti, la sua abilità nello sport, il suo aspetto pulito e biondo.
Ero preoccupata per Cassie, con un ragazzo del genere. Uno che sapeva già di poter avere tutto ciò che voleva nella vita.
«Come va a scuola?»
«Oh, sa com’è», disse. «Impegnato con gli esami. Sto andando a casa a studiare infatti».
«Non vuoi restare per cena?». La mia era una domanda retorica e lo sapevamo entrambi.
«Oh, è molto gentile da parte sua, ma mia mamma mi aspetta. Ha fatto la pasta a mano». E io stavo per servire tagine, uno dei piatti più semplici che esistano. Mi ritrovai a chiedermi, stupidamente, se non fosse troppo tardi per ricominciare tutto da capo.
«Allora ciao, Cass». La raggiunse. L’avrebbe baciata davanti a me? No, si limitò ad abbracciarla. Cassie lo strinse forte, chiudendo gli occhi. Sembrava così fragile accanto alla sua mole da rugbista. Aveva perso peso. Ancora.
«Hai preso la candela?», chiesi non appena Aaron varcò la porta che dava sul bosco.
La posò sul tavolo facendo tintinnare i piatti.
«Attenta. Che cos’è?»
«Fico e arancia. Ha un odore disgustoso».
«Mi aiuteresti, per favore? Sono un po’ in difficoltà». Mi tirai indietro una ciocca di capelli con l’avambraccio. In cucina l’acqua stava bollendo e tutti e quattro i fornelli erano in funzione, e anche il forno. Era solo giugno e già si parlava di un’estate da record, un inferno, la più calda di cui si avesse memoria. Non vedevo l’ora che cominciasse la festa – cena in giardino, che cosa mediterranea – ma ora il caldo mi gravava addosso come un coperchio, rallentando i miei passi e facendomi rimanere irrimediabilmente indietro sulla tabella di marcia.
«Perché non ti può aiutare papà?»
«È in ufficio».
«No, non è vero, è in giardino che legge il giornale».
«Bene, puoi chiedergli di controllare che il tavolo sia pulito, di passare lo straccio sulle sedie e di trovare della citronella, sarà pieno d’insetti».
«Chiediglielo tu, è qui».
«Prendimi delle erbette!», le urlai dietro, mentre sgattaiolava fuori e Mike entrava, tenendo la porta per farla passare.
«Che odorino». Sembrava allegro, ed era un vero sollievo. Non si era mostrato molto entusiasta di questo weekend. Troppa fatica, per come la vedeva lui, e poi non avevamo spazio per tutti. La nostra casa sfoggiava quattro camere da letto più una stanza sopra il garage, e non era ancora sufficiente.
Lo fissai per un momento, con un’espressione critica. Se quello era l’anniversario dell’inizio del nostro periodo universitario, voleva dire che erano passati venticinque anni da quando avevo visto Mike per la prima volta, in quel bar del college cupo come una caverna. Ricordo quant’era calmo e disinvolto, mentre gli altri non facevano che agitarsi e gridare con quella foga imbarazzante tipica del primo anno di college. Un metro e settantacinque, non un gigante, ma più che abbastanza per me. Capelli scuri, ormai un po’ brizzolati.
Quel giorno indossava una polo, pantaloncini color cachi e un maglione di cotone di un rosso fiammante, nonostante il caldo. Tutto nuovo, dall’aria costosa. Cercava di fare colpo, come me del resto.
Claire McGowan è nata nel 1981 in un piccolo villaggio irlandese, in cui l’evento più eccitante mai accaduto è stato trovare delle mucche che si riposavano in mezzo alla strada. È autrice dell’acclamata serie crime con protagonista Paula Maguire. Scrive anche romanzi al femminile con lo pseudonimo di Eva Woods.
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