«A cosa pensa una donna quando, assordata dalle voci di tutti, capisce all’improvviso di aver soffocato la propria?» In pochi come Matteo Bussola sanno raccontare, con tanta delicatezza e profondità, le contraddizioni dei rapporti umani. In pochi sanno cogliere con tale pudore il nostro desiderio e la nostra paura di essere felici. Una donna sola che in tarda età scopre l’amore. Una figlia che lotta per riuscire a perdonare sua madre. Una ragazza che invece non vuole figli, perché non sopporterebbe il loro dolore. Una vedova che scrive al marito. Una sedicenne che si innamora della sua amica del cuore. Un’anziana che confida alla badante un terribile segreto. Le eroine di questo libro non hanno nulla di eroico, sono persone comuni, potrebbero essere le nostre vicine di casa, le nostre colleghe, nostra sorella, nostra figlia, potremmo essere noi. Fragili e forti, docili e crudeli, inquiete e felici, amano e odiano quasi sempre con tutte sé stesse, perché considerano l’amore l’occasione decisiva. Cadono, come tutti, eppure resistono, come il rosmarino quando sfida il gelo dell’inverno che tenta di abbatterlo, e rinasce in primavera nonostante le cicatrici. Un romanzo in cui si intrecciano storie ordinarie ed eccezionali, che ci toccano, ci interrogano, ci commuovono. «Ho deciso di scrivere di donne perché non sono una donna. Perché ho la sensazione di conoscerle sempre poco, anche se vivo con quattro di loro. E perché è piú utile scrivere di ciò che vuoi conoscere meglio, invece di ciò che credi di conoscere già» (Matteo Bussola).
a te che cadi, ma non resti lí
A unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora piú intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità.
HARUKI MURAKAMI, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio
A cosa pensa una donna quando lascia qualcuno? Quando si innamora senza scampo? Quando non viene ritenuta all’altezza, quando le dicono che è troppo o troppo poco, quando le sembra di non capire una figlia, o una madre, quando comprende la fragilità di un padre, quando rifiuta destini già scritti o quando invece li accoglie, quando cerca di cavare il meglio che può dal poco che ha, quando viene ferita, tradita, umiliata, derisa, quando si ammala e il mondo la ignora o quando ha paura e nessuno la sente? Quando è triste o felice o arrabbiata o risoluta o crudele? Quando è accudente come una nonna oppure spietata come un nemico? Quando fin da piccola viene educata alla colpa, alla vergogna, a essere soppesata da occhi estranei, quasi che il suo corpo e la sua vita non fossero mai davvero suoi, ma sempre anche di qualcun altro? Quando si deve giustificare per la voglia di fare sesso o per quella di non volerlo fare? Quando deve soddisfare aspettative, aderire a immaginari, quando è troppo magra o troppo grassa o troppo giovane o troppo vecchia o troppo ignorata o troppo guardata e però mai, mai davvero vista? Quando si accorge che la maggior parte degli incontri è come il tramonto in autunno, dove una volta sparito il sole tutto si raffredda velocemente? Quando non si fida piú delle promesse? Quando non si arrende nonostante questo? Quando non crede alla vita dopo la morte ma vede invece la morte dentro ogni vita, come se tutto fosse sempre sul punto di cadere, nell’apparente fissità dei giorni?
A cosa pensa una donna quando, assordata dalle voci di tutti, capisce all’improvviso di avere soffocato la propria? Di non essersi mai davvero prestata ascolto?
Cos’hai pensato, tu, la mattina o il pomeriggio o la notte in cui, per la prima volta, lo hai capito?
Margherita
(Speravo di non trovarti ancora qui)
È un sabato di ottobre, sono le quattro del pomeriggio, il cielo trattiene una pioggia che non vuole saperne di venire giú. È un peccato, penso, la pioggia le sarebbe piaciuta.
Ho parcheggiato vicino agli alberi in fondo, dietro una vecchia Punto bianca da cui sono scese, con aria trafelata, una signora di mezz’età e una ragazza con un’esplosione di treccine in testa. Le ho viste piú di una volta in reparto. – Dài, maman! – dice la ragazza.
Dall’altro lato della strada una giovane incinta, con una pancia enorme, si affretta assieme a una donna castana sulla quarantina, in mezzo a loro una bambina bionda di quattro, forse cinque anni, che entrambe tengono per mano. Riconosco la giovane, lavora come receptionist all’ospedale, non immaginavo che si conoscessero bene. Non abbastanza da trovarla qui, almeno. Ogni tre passi la piccola solleva i piedi da terra e prova a dondolarsi fra le braccia delle due, quasi fossero le corde di un’altalena.
– Adesso basta, su, – le dice la donna. La giovane incinta, invece, guarda la bambina con una tenera condiscendenza, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso: forse osservarla che gioca le pare un affaccio momentaneo sul futuro. Mi passano di fianco, rallento per spegnere la suoneria del cellulare nella borsa, la giovane e io ci scambiamo un cenno con la testa.
– Ci siamo quasi, eh? – dico.
– Sí, – dice lei, accarezzandosi la pancia.
Non posso fare a meno di pensare a quanto l’inizio e la fine, nelle nostre vite, convivano separati da una linea sottilissima. Come questo cancello arrugginito che divide chi resta da chi si congeda. Lo supero, entro nel piazzale davanti al sagrato.
Di solito non vado mai ai funerali dei malati che seguo. Perché parte del mio lavoro, va detto, ha a che fare con il riuscire a mantenere un certo equilibrio emotivo, persino con la pratica di piccole forme di distacco: non puoi concederti il lusso di vivere ogni percorso clinico come una storia personale. L’empatia è sempre in agguato, pronta a farti a brandelli.
Stavolta è diverso.
Lei è stata la mia ultima paziente.
Mentre cammino verso le scale, torno con la mente alla prima.
Ho dieci anni, sono appena arrivata da scuola, getto la cartella rossa sulla poltrona color senape, mangio in fretta e subito scappo a casa sua, nell’appartamento sopra il nostro. Entro nella stanza dalle persiane sempre socchiuse e la zia è lí, nella penombra, in attesa. La tiro un po’ su, bilanciando il peso sulle mie gambe magre, la aiuto a prendere le medicine, le cambio le calze e le massaggio i piedi duri e gelati. Mi fermo a parlarle, la ascolto anche quando le esce appena un filo di voce. Mi occupo di ciò che c’è da fare, di quello che è alla portata delle mie capacità di bambina. Lo faccio con dedizione, lo faccio quasi ogni giorno, concedo respiro allo zio e alla mamma, mi sento buona e amata. Una brava bambina diligente. Sono gli occhi liquidi e colmi di gratitudine della zia, la sua mano tremante che mi carezza il viso, il suo tono flebile nel dire «Margherita mia», a confermarmi che questa è la mia vocazione, che per combattere i mostri ci vogliono quelli come me. Anche se c’è un mostro che alla fine vince sempre.
Quando la zia muore, io ho dodici anni e mi sento di colpo sola. Non è soltanto la tristezza per la sua morte, non è il fatto che eravamo amiche. Mi manca sentirmi utile, necessaria. Mi manca il calore che deriva dal poter lenire e offrire conforto, l’ammirazione negli occhi delle persone che mi facevano sentire una bambina cosí speciale. Adesso, sono solo una bambina qualunque. Rivoglio tutto indietro. La scelta mi appare ovvia, il liceo non sarà che un passaggio, un ostacolo da togliersi dai piedi.
Mio padre preferirebbe medicina, chirurgia, addirittura, infine capisce e approva: io non cerco la verità del sangue, il potere di aggiustare i corpi, ma quello di riuscire a farli stare meglio durante il decorso ospedaliero, nel mezzo del guado della malattia, quando persone già fragili si vergognano per un lenzuolo bagnato d’urina o sporco di vomito, se vedono intaccata la propria dignità.
Per questo divento infermiera oncologica. Sentendomi nel posto giusto, orgogliosa per la mia scelta, sostenuta dallo sguardo fiero dei miei genitori e con zia Katia a vegliare su di me. Qui imparo finalmente i modi per alleviare sofferenze come la sua. Lo faccio per molto tempo, pure se certi giorni sono peggio dell’inferno. Credo di avere ogni cosa sotto controllo. Fino a che, due anni e mezzo fa all’incirca, non incontro lei.
Siamo alla fine di marzo, o all’inizio di aprile, ma l’inverno non molla la presa. È stata ricoverata per l’asportazione di un tumore al seno, il decorso procede bene, soprattutto in considerazione della sua età. Sento i suoi occhi addosso mentre armeggio con la sacca della flebo.
«Perché lo fai?» mi chiede.
«Perché altrimenti rischia di infettarsi», rispondo d’istinto, pensando si riferisca all’agocannula che le sto cambiando.
«Ma no, sciocchina, – sorride. – Intendevo questo lavoro. Si vede che ti fa star male, allora perché lo fai?»
È un quesito diretto, elementare, che meriterebbe una risposta altrettanto chiara. Ma è una domanda che non mi ha mai rivolto nessuno. Soprattutto, nessuno si è mai permesso di dubitare delle mie motivazioni, o di insinuare che io sia poco adatta. Forse per questo la domanda mi colpisce con violenza. Forse per questo, per la prima volta, sento aprirsi una piccola crepa nella narrazione apparentemente perfetta e priva di sbavature che è stata la mia vita fino a lí.
Non serve a niente schermirmi, fingere che la sua osservazione non mi abbia toccata, intaccando la mia risolutezza. Non serve uscire dalla stanza, farmi sostituire al turno successivo, solo per poi rivederla il giorno dopo e incontrare, ancora, quel suo sguardo di affettuosa attesa.
«Faccio questo lavoro perché l’ho scelto, signora, – dico infine, cercando il tono piú sereno possibile. – Perché ho fatto una promessa. E non sono abituata a scappare solo perché le cose sono troppo difficili».
Mi abbasso su di lei per prenderle la temperatura, una porzione del mio viso si riflette in un piccolo specchio che tiene sul comodino, accanto a un origami che sembra una primula, osservo la mia espressione tirata e già stanca alle otto del mattino. Chi è quella?, mi domando per un istante.
Lei mi accarezza la guancia senza neppure chiedermi il permesso, come fanno le madri con le figlie. O le zie con le nipoti.
«Ma non puoi nemmeno rovinarti la vita per una promessa, – dice. – Neanche se quella promessa l’hai fatta a te stessa».
Credi di avere tutto sotto controllo.
Pensi di essere nel posto giusto, nel pieno del tuo potenziale, a fare quel che vuoi. E poi basta una cosa cosí, bastano una domanda e due parole dette da un’estranea. E di colpo, nel riflesso impietoso di uno specchietto su un comodino, ti sembra di scorgere un viso che non riconosci piú, accanto a un piccolo fiore di carta giallo.
Oggi invece niente fiori.
Niente corona funebre, niente ghirlande commemorative. Appena poche piante in vaso. Ciò contribuisce a rendere la situazione un poco surreale. Ma siamo in molti, piú di quanti mi sarei aspettata. Sarebbe piú giusto dire molte, visto che siamo quasi solo donne. A una prima occhiata, poche sembrano conoscersi, non ce n’è una che parli con le altre. Magari è il pudore che il contesto richiede. Però, se siamo qui, significa che siamo state tutte toccate, in un modo o in un altro, dalla sua maniera accogliente di stare nel mondo.
Fra le donne presenti, ce ne sono alcune di cui mi ricordo bene.
C’è quella che doveva essere una cara amica, era spesso lí a portarle di nascosto bicchierini di cioccolata calda, sebbene fosse vietato, come le bambine che rubano la marmellata e sono convinte che nessuno lo sappia. Tiene forte il guinzaglio di un cane enorme, in apparenza male in arnese: le sta seduto di fianco che pare una sentinella, in silenzio, quasi a sottolineare la solennità del momento. Poco distante c’è la signora un po’ curva alla quale era difficile far comprendere il concetto di «orario delle visite» quando saliva a trovare suo marito. Un giorno si sono incontrate e si sono conosciute cosí, chiacchierando in corridoio, fuori dalla stanza di lui, specchiandosi l’una nel dolore dell’altra. Oggi quella donna stringe fra le mani una busta gialla, sembra animata da una percepibile urgenza.
Non me la sento di avvicinarmi a nessuna delle due. In situazioni tipo questa, vengo spesso guardata come avessi la colpa di ricordare ad amici e parenti i momenti peggiori, con la mia semplice presenza. Lo capisco. Ma oggi non potrei farcela a sostenere quegli occhi. Non ce la faccio piú a fare tante cose. Lei lo comprese con chiarezza al suo secondo ricovero, due mesi fa. Quando, dopo averla graziata una prima volta, il mostro ritornò piú forte che mai.
«Speravo di non trovarti ancora qui», dice sorridendo, mentre chiudo le tende per non farle arrivare troppo sole.
«Potrei dirle la stessa cosa, – rispondo. – Come si sente, oggi?»
«Come una che è tanto stanca, – dice lei. – Ma anche priva di rimpianti, perché alla fine ho vissuto due vite piene».
«Due vite?»
Tossisce, indica l’acqua sul comodino, gliene verso un po’ in un bicchiere di carta.
«Be’, sai, – dice bevendo un sorso, – a volte ci sono cose che facciamo perché dobbiamo. Altre che invece facciamo perché vogliamo. Quasi fossimo abitate da due anime diverse. Di solito fare quello che vogliamo è un atteggiamento piú frequente nella nostra giovinezza, insomma nella prima parte della vita. Io invece ho invertito l’ordine degli addendi, diciamo».
«Non capisco».
«Allora ti auguro di capirlo presto».
«Eh? In che senso?»
«Ma no, niente, lascia stare, sono gli ultimi vaneggiamenti di una signora anziana». Mi passa il bicchiere.
«Eh no, non se la cava cosí», le sorrido. Mi sorride.
«Cara, vedi, il fatto è che spesso siamo i nostri peggiori nemici, – dice. – Perché preferiamo fare quello che ci riesce, o ciò che le persone che ci amano si aspettano da noi, piuttosto che fare quello che ci piace davvero. Preferiamo sentirci adatti a un ruolo già scritto, andare sul sicuro. E alla mia età posso dirtelo serena: è un gran peccato».
La guardo per qualche secondo.
«Non fraintendermi, – dice. – Tu sei bravissima nel tuo lavoro, sai? Sei professionale e carina, ma quella che entra qui tutte le mattine chi è? Quale delle due?»
«Delle due? Delle due, chi? – dico infastidita. – E poi perché si preoccupa tanto? Perché si interessa del mio lavoro?»
«Perché, l’interessamento dev’essere a senso unico? Solo tu puoi prenderti cura di me?»
«Be’, l’infermiera sono io».
«E questo stabilisce parti impermeabili? Se tu sei quella che cura, allora credi di non poter stare male? Di non dover avere mai bisogno di aiuto?»
«No, cioè, io non…»
«Perdona la mia invadenza. È la morfina che mi scioglie troppo la lingua, scusa».
«Ma no, si figuri. Anzi, mi scusi lei per essere scattata cosí».
«È probabile che sia il senso di colpa a farmi parlare».
«Senso di colpa per cosa?»
Si gira in direzione delle tende, una sottile lama di luce le percorre in verticale il viso, dalla fronte al mento, dividendolo esattamente in due.
«Ho una figlia della tua età».
«Una figlia? – dico. – Sapevo che ha una madre molto anziana, ma non una figlia. Non l’ho mai vista, qui».
«Né la vedrai, temo».
«E perché? – chiedo. – Se posso permettermi».
«Perché vive rinchiusa nella sua rabbia, – dice. – Ed è tutta colpa mia».
«Mi dispiace».
Ci fissiamo in silenzio.
«Però, continuo a non capire cosa c’entri sua figlia con me, – dico. – Solo per l’età?»
Si volta verso di me.
«Forse sí, ma alla fine non è importante. È solo che, magari, ogni tanto, ci illudiamo di salvare chi amiamo provando a salvare qualcun altro che ce lo ricorda, tutto qui. Ma le persone perdute restano perdute. E noi restiamo noi, disperati e alla ricerca di un’infinita redenzione, di una felicità uguale a quella di prima. Che non arriverà».
«Mi scusi, – dico, – e da cosa avrei bisogno di essere salvata, io?»
«Forse da niente, – dice. – Forse da te stessa. Forse la rabbia non è l’unica gabbia dentro la quale si può rimanere prigionieri. Il senso di responsabilità, il timore di deludere o ferire chi ci ama, possono essere anche peggio. Io ho fatto esperienza di entrambi, per questo so riconoscerli negli occhi delle persone».
Basta questa frase, e sento la mia intera vita traballare, come un castello di carte quando qualcuno scuote il tavolo.
Pensi che a te non succederà mai.
Credi di sapere chi sei, lo hai sempre saputo, hai cominciato presto a nutrire i tuoi obiettivi e ti sei costruita con cura, un pezzettino per volta. Sei convinta che questo ti terrà al riparo da tutto. E invece, in un pomeriggio di metà agosto, capisci che non stai combattendo i mostri, ma che il tuo mostro ha divorato te.
Rifletto sulle sue parole e mi rendo conto che a portarmi qui, a trattenermi negli anni, è stata quella bambina che credeva di poter essere amata solo facendo la brava, quella che esisteva esclusivamente attraverso l’approvazione degli altri, tormentata dalla folle e inconfessata paura che, se avesse smesso di compiacerli, il loro amore sarebbe scomparso. Quella che non si era mai concessa la possibilità di fare una cosa sbagliata, di correre un rischio, di accettare di sentirsi sola o spaesata. Quella che adesso, d’un tratto, in una camera d’ospedale, davanti a una donna vicina alla fine, si accorge di aver scalato una montagna che non era davvero la sua.
Un paio di occhi buoni indirizzano la mia vita la prima volta.
Altri due occhi buoni, quella mattina, me la cambiano in un attimo.
Ecco perché oggi sono qui.
Matteo Bussola (Verona, 1971) ha pubblicato per Einaudi il bestseller Notti in bianco, baci a colazione, (2016 e 2018), tradotto in molti Paesi, Sono puri i loro sogni (2017), La vita fino a te (2018 e 2019), L’invenzione di noi due (2020 e 2022), Il tempo di tornare a casa (2021) e Il rosmarino non capisce l’inverno (2022). Per Salani ha pubblicato il libro per ragazzi Viola e il Blu (2021). Conduce una trasmissione radiofonica su Radio 24, I Padrieterni e tiene una rubrica settimanale su «F» dal titolo Uno scrittore, una donna.
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