Una donna racconta diversi incontri che si snodano nella quotidianità della sua vita: un ex in cui si imbatte per caso durante un evento pubblico, un host di Airbnb incerto su come interagire con i propri ospiti, uno sconosciuto che cerca aiuto per confortare l’anziana madre, un’amica di gioventù ricoverata in ospedale con un cancro terminale. In ognuna di queste persone riconosce un bisogno comune: l’urgenza di parlare di sé e di trovare qualcuno cui raccontare la propria esistenza. La narratrice orchestra questo coro di voci come un interlocutore passivo, finché non riceve una richiesta inusuale, che la trascinerà in un’esperienza intensa e di profondo cambiamento. In “Attraverso la vita”, Nunez combina intelligenza, umorismo e intuito nel descrivere i rapporti umani e la natura mutevole delle relazioni nei nostri tempi. Una storia sull’empatia e sui modi insoliti in cui due persone possono offrirsi conforto nell’affrontare le difficoltà. Un ritratto commovente e provocatorio del modo in cui viviamo al giorno d’oggi.
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Andai a una conferenza. L’evento aveva luogo in un campus universitario. Il relatore era un professore, ma insegnava da un’altra parte, in uno stato diverso. Era uno scrittore piuttosto noto e quello stesso anno aveva vinto un premio internazionale. Eppure, nonostante l’evento fosse gratuito e aperto al pubblico, i posti a sedere erano occupati solo a metà. A dire il vero, non ci sarei andata neppure io. Anzi, se non fosse stato per una coincidenza, non mi sarei neppure trovata in quella città. Una mia vecchia amica era ricoverata da quelle parti, in un ospedale specializzato nella sua particolare forma di tumore. Ero venuta a trovare questa persona molto cara che non vedevo da alcuni anni e che, a causa della gravità della malattia, rischiavo di non rivedere mai più.
Era la terza settimana di settembre, 2017. Avevo prenotato una stanza con Airbnb. La padrona di casa era una bibliotecaria in pensione, vedova. Dal profilo avevo appreso che aveva quattro figli e sei nipoti e che fra i suoi hobby c’erano la cucina e il teatro. Viveva all’ultimo piano di un piccolo condominio a circa tre chilometri dall’ospedale. L’appartamento era pulito e ordinato e profumava vagamente di cumino. La stanza degli ospiti era arredata nel tipico modo che la maggior parte delle persone sembra giudicare adatto a mettere a proprio agio: morbidi tappeti a pelo lungo, letto con schiera di cuscini e piumone trapuntato, tavolino con caraffa di ceramica contenente fiori secchi e una pila di romanzi gialli sul comodino. Il classico posto in cui non mi sentirò mai a casa. Quello che i più chiamano accogliente (gemütlich o hygge) può risultare soffocante ad altri.
Mi era stato promesso un gatto, ma non ne vidi neppure l’ombra. Solo quando stavo per andarmene seppi che il micio della proprietaria nel frattempo era morto. Mi diede la notizia in modo brusco, cambiando immediatamente argomento, come per scoraggiare ulteriori domande, anche se in realtà gliene avrei fatte solo perché qualcosa nel suo atteggiamento mi suggeriva che se lo aspettasse. Mi balenò il pensiero che forse non era stata l’emozione a farle cambiare discorso all’improvviso, ma il timore che potessi lamentarmene in seguito. Padrona di casa deprimente si è messa a parlare del gatto morto. Commenti del genere si leggevano di continuo sul sito.
In cucina bevvi il caffè e mangiai gli stuzzichini che la padrona di casa aveva preparato per me (mentre lei, come veniva raccomandato a tutti gli host di Airbnb, rimase in disparte) e diedi un’occhiata alla bacheca di sughero su cui aveva attaccato i dépliant degli eventi in città. Una mostra di stampe giapponesi, una fiera dell’artigianato, una compagnia di ballerini canadesi in tournée, un festival jazz, un festival della cultura caraibica, un programma all’arena sportiva locale, un reading di poesie. E poi, quella sera stessa, alle sette e mezzo, la conferenza dello scrittore in questione.
In foto l’uomo sembra avere un’aria arcigna; no, vabbe’, «arcigna» è un po’ esagerato. Diciamo l’aspetto severo che viene a molti bianchi di una certa età: capelli candidi, naso aquilino, labbra sottili, sguardo penetrante. Da rapace. Non proprio invitante. Il messaggio non è esattamente: Dai
vieni a sentirmi. Sarei felicissimo di vederti stasera! Piuttosto: Non fare sciocchezze. Ho parecchio da dire. Dovresti ascoltarmi per capire come stanno le cose.
Lo presenta una donna. La direttrice del dipartimento che l’ha invitato a parlare. Ha un’aria familiare: il classico tipo accademico glamour o vamp intellettuale. Una che ci tiene moltissimo a mettere bene in chiaro che benché sia una donna intelligente e colta, femminista e in una posizione di potere, non è né sciatta né noiosa, né tantomeno acida o asessuata. Okay, d’accordo, ha una certa età, e allora? La gonna aderente, i tacchi alti, la bocca rosso scarlatto e i capelli tinti (una volta ho sentito dire dal colorista di un salone da parrucchiere che, secondo lui, i capelli grigi compromettono la capacità di pensare di una donna), proprio tutto in lei dice: Sono ancora scopabile. È di una magrezza che quasi sicuramente significa fare la fame per buona parte della giornata. A donne come lei balena con triste regolarità il pensiero che in Francia persino gli intellettuali possono essere sex symbol. Anche se certe volte il simbolo rischia di essere imbarazzante (Bernard-Henri Lévy e le sue camicie sbottonate). Queste donne ricordano che da
piccole non venivano tormentate per il loro aspetto, ma per il loro cervello. Il vecchio detto secondo cui gli uomini non corteggiano le ragazze con gli occhiali in realtà si riferiva alle ragazze intelligenti, amanti dei libri, campionesse di matematica e di scienze. I tempi cambiano. Adesso chi non va pazzo per gli occhiali? Ogni due per tre senti uno che si vanta di essere attratto dalle donne intelligenti. Tipo quel giovane attore che ha dichiarato di recente: «Ho sempre pensato che le donne più sexy siano quelle con il cervello più grosso». Al che – confesso – ho alzato gli occhi al cielo con tale violenza che ho dovuto scuotere la testa per farli ritornare al loro posto.
In ogni caso, non può essere vera la storia di Toscanini che durante le prove con una cantante soprano perse la pazienza al punto da afferrarle i grossi seni urlando: «Se solo questi fossero un cervello!».
In seguito, cominciò a circolare il detto: Gli uomini non corteggiano le ragazze con il culone.
Me li vedo già quei due alla cena che seguirà sicuramente l’evento. Una cena che, considerata la celebrità di lui, sarà certamente ottima, in uno dei ristoranti più costosi della zona, dove probabilmente saranno seduti l’una accanto all’altro. La donna, naturalmente, spererà in uno scambio intenso e profondo – zero chiacchiere frivole –, magari persino in un pizzico di avance, anche se non sarà facile, visto che l’attenzione di lui continuerà a deviare verso il capo opposto del tavolo, dove sarà seduta la studentessa di dottorato incaricata di accompagnarlo a destra e a manca, compreso l’albergo in cui dovrà tornare dopo la cena di questa sera, e che dopo un solo bicchiere di vino risponderà alle frequenti occhiate dello scrittore con sguardi sempre più audaci.
Invece pare sia successo davvero. L’ho cercato su Google. Secondo alcune versioni dei fatti, Toscanini non afferrò veramente i seni del soprano ma si limitò a indicarli.
Durante l’obbligatoria enumerazione dei meriti dell’oratore, l’uomo abbassa lo sguardo con una smorfia di disagio e un’affettazione di modestia che dubito convinca qualcuno.
Se i miei voti si fossero basati più su quello che imparavo dalle lezioni che dai libri di testo, non sarei riuscita a terminare gli studi. Quando leggo o ascolto una persona che conversa, è raro che perda la concentrazione. Le conferenze, invece, mi hanno sempre dato problemi (i peggiori sono gli scrittori che leggono le loro stesse opere). Comincio a vagare con la mente quasi nell’istante stesso in cui l’oratore attacca a parlare. Quella sera, poi, ero particolarmente distratta. Avevo passato tutto il pomeriggio in ospedale con la mia amica.
Vederla soffrire e sforzarmi di non lasciar trapelare la mia angoscia nel trovarla ridotta in quello stato mi aveva sfinita. Il mio rapporto con le malattie… neanche in questo me la cavo molto bene.
Insomma, mi persi praticamente subito. Diverse volte mi accorsi che non stavo seguendo il discorso, anche se non era così grave, visto che la conferenza si basava su un lungo articolo che lui aveva scritto per una rivista e che io avevo letto appena era stato pubblicato, insieme a tutte le persone di mia conoscenza.
Compresa l’amica in ospedale. E buona parte del pubblico di quella sera, probabilmente. Pensai che almeno alcuni di loro fossero andati alla conferenza con l’idea di fare domande, di partecipare a una discussione sulle tesi del professore, che fondamentalmente conoscevano già per aver letto l’articolo. Lui, però, aveva preso la decisione alquanto inusuale di non accettare domande. Quella sera non ci sarebbero stati confronti di alcun genere. Questo, però, l’avremmo scoperto solo al termine dell’evento.
È finita, disse. Poi citò un altro scrittore, traducendo dal francese: Davanti all’uomo, la foresta; dopo di lui, il deserto. L’umanità, ormai era chiaro, non aveva la volontà… la volontà collettiva di prendere iniziative, agire o accettare sacrifici per cercare di prevenire la catastrofe. Un alieno intelligente avrebbe potuto pensare che fossimo in preda a un desiderio di morte.
È finita, ripeté. Non c’era più quella fiducia, quella consolazione che aveva sostenuto generazioni e generazioni prima di noi, la certezza che se anche la nostra permanenza sulla Terra aveva una scadenza, tutto ciò che amavamo e aveva significato per noi sarebbe andato avanti, il mondo di cui avevamo fatto parte avrebbe continuato a esistere. Quei tempi erano finiti, disse. Il nostro mondo e la nostra civiltà non sarebbero durati. Dovevamo vivere e morire con questa nuova consapevolezza.
Sigrid Nunez è nata e cresciuta a New York. Laureata alla Columbia University, insegna scrittura creativa all’Hunter College ed è autrice di nove libri di successo. Con Garzanti ha pubblicato anche L’amico fedele (2018), vincitore del prestigioso National Book Award.