In via Cesare Correnti, nei pressi delle colonne di San Lorenzo, a Milano, avviene un omicidio apparentemente incomprensibile: un anziano violinista di strada viene avvicinato da un distinto signore in loden e cappello, che gli spara un colpo di pistola con il silenziatore. Il commissario Lucchesi è sconvolto dalla notizia: conosceva la vittima solo superficialmente, di vista, ma la loro era un’amicizia senza parole solida e piena di rispetto. Le indagini si rivelano subito complesse. Con l’aiuto della sua compagna, Lucia Anticoli, Lucchesi scava nel passato del violinista fino a svelare una vicenda che affonda le radici nella Seconda guerra mondiale e nella tragedia della deportazione.
Estratto
Capitolo 1
Le undici di una giornata di fine maggio e Andrea Lucchesi se ne stava seduto alla sua scrivania, concentrato su una grossa ragnatela che occupava l’angolo superiore della finestra, tra il battente e il muro.
Su uno dei fili, lungo una trentina di centimetri, stava arrancando un grosso ragno nero, con una macchia biancastra sul dorso. Nella parte superiore della ragnatela, una mosca agitava freneticamente le zampette, nel vano tentativo di liberarsi, ma con l’unico effetto di impigliarsi sempre più in una sorta di bozzolo che ormai non le dava scampo.
Il commissario in ufficio era tormentato dalle mosche che, già numerose per il caldo precoce, non gli davano pace, posandosi sui fascicoli che aveva davanti, o addirittura sulle mani. Lui che le scacciava, e le più audaci che avevano l’ardire di planargli sulla fronte, sulle guance o sul mento. Forse per la mia pelle nera che emana un sentore dolciastro, pensava mestamente Lucchesi, maledicendo una volta tanto le sue origini di cui di solito andava fiero.
Lui odiava le mosche, ma neppure simpatizzava per i ragni che silenziosamente si buttavano sulla preda, ricordandogli i peggiori criminali nei quali gli era capitato di imbattersi: e in quel momento era teso di fronte al crimine che stava per consumarsi sotto i suoi occhi.
Non poteva assistervi senza intervenire e, preso dalla scrivania il giornale ripiegato, balzò dalla sedia per raggiungere l’angolo. Nonostante il suo metro e ottanta, però, non riuscì ad arrivarci, neppure alzandosi sulla punta dei piedi.
Il ragno aveva ormai raggiunto il centro della sua trappola e avanzava verso l’alto, ora più lentamente, quasi intuendo che la sua vittima non poteva più sfuggirgli. Si imponeva una decisione immediata e Lucchesi allungò dietro di sé una mano, afferrando un volume a caso che scagliò con forza verso l’angolo del soffitto. Aveva sempre avuto un’ottima mira e il piccolo volume spazzò via in un sol colpo ragnatela, vittima e carnefice, rimbalzando però contro il vetro della finestra, infrangendolo rovinosamente e scomparendo nel cortile sottostante, con una pioggia di schegge di vetro che si abbatteva sul pavimento.
Il botto parve squassare il vecchio edificio e due secondi dopo si spalancò la porta dell’ufficio di Lucchesi e apparve Minniti, bianco in volto, con lo sguardo che correva dal commissario – che stava considerando il disastro – al vetro rotto e al pavimento coperto di schegge.
«Commissario, sta bene? Chi ha sparato?»
«E chi dovrebbe avere sparato? Cosa ti fa pensare che qualcuno abbia sparato?»
«Il botto di un momento fa. Lo riconoscerei tra mille. Questa è una calibro 9, sono pronto a scommetterci il mio stipendio.»
«E faresti un pessimo affare. Non si tratta di una calibro 9, ma di un codice penale che ha fatto giustizia di una ragnatela che stava vicino alla finestra, ma ha poi finito con lo sfondare il vetro finendo in cortile.»
Minniti lo guardò perplesso. «Mi scusi, commissario, ma non poteva chiamarmi? Avrei provveduto io a togliere la ragnatela, salendo su una scala.»
«Non c’era tempo. Era una situazione d’emergenza. Un maledetto ragno stava per acchiappare una mosca che vi era rimasta impigliata e, se non avessi provveduto subito, il dramma si sarebbe compiuto.»
«Certo, certo, capisco, commissario», rispose Minniti. «Il fatto però è che non dovrebbero esserci ragnatele, nell’ufficio del dirigente della sezione Omicidi. Ma niente paura, da domani ci penso io.»
«Minniti, come te lo debbo dire? Tu sei un agente di Polizia, non un addetto alle pulizie. Semmai, puoi sentire l’Economato, che è responsabile delle pulizie. E un’altra cosa che posso permetterti di fare è quella di aiutarmi adesso a raccogliere tutti questi pezzi di vetro…»
«No, commissario, ai vetri ci penso io da solo. Su questo non transigo. Vado a procurarmi un paio di guanti e sistemo tutto, e domani stesso faccio cambiare il vetro perché non ci piova dentro, anche se le previsioni non danno pioggia. Mi dia dieci minuti, e nel frattempo lei deve fare un’altra cosa, ed è opportuno che la faccia di persona.»
«E cosa dovrei fare, Minniti?»
«Scendere in cortile per recuperare il suo codice, sperando che non sia finito in testa a qualcuno.»
«Giusto, Minniti. Questa volta non posso che darti ragione. Anche perché i nostri codici hanno il timbro della pubblica amministrazione e su quello che è finito di sotto c’è anche il mio nome.»
Così Lucchesi si avviò lungo le scale che portavano al pianterreno, nel cortile interno.
Una volta fuori si diede un’occhiata in giro.
Un ispettore della Narcotici che conosceva di vista stava discutendo con un agente in divisa, che in mano aveva il suo codice.
«Scusate, credo che il codice sia mio», fece Lucchesi avvicinandosi.
«E lei chi sarebbe?» chiese l’agente con fare altezzoso.
«Lo scusi, commissario», s’intromise l’ispettore. «L’agente Faraglia è arrivato da pochi giorni e non conosce ancora tutti. Faraglia, questo è il commissario Lucchesi, dirigente della Omicidi.»
L’agente scattò sull’attenti. «Chiedo scusa, commissario, non avrei mai potuto pensare che…»
«Un commissario buttasse dalla finestra un codice?»
«No, sì, effettivamente…»
«Ero affacciato mentre lo stavo consultando e mi è scivolato di sotto, col rischio che cadesse in testa a qualcuno.»
«In effetti», fece l’agente Faraglia, «mi ha mancato di poco, ma il guaio è che nell’impatto col lastricato si è un po’ sfasciato. Ma se lei permette in pochi minuti glielo sistemo io. Ho in ufficio tutto l’occorrente e sono diventato uno specialista, con tutti i libri che sfascia mio figlio…»
«Non dirmi che hai già un figlio che va a scuola…»
«Eh, sì, commissario. Ho trentaquattro anni e un maschietto che fa la terza elementare.»
«Ma guarda un po’, e io che ti avevo preso per un ragazzino… Comunque ti ringrazio e auguri per tuo figlio», disse Lucchesi allontanandosi.
«Forse il commissario non ce l’ha raccontata del tutto giusta», commentò l’agente Faraglia con l’ispettore, quando restarono soli.
«E perché?»
«Perché oltre al codice che mi ha mancato per un pelo, dall’alto sono piovuti anche dei pezzi di vetro, e l’unica spiegazione è che il codice non sia scivolato da una finestra aperta, ma che abbia sfondato una finestra chiusa. Vede anche lei, qui per terra, i vetri?»
«Certo che li vedo. Tutto è possibile, anche perché quel commissario è un tipo irascibile. In ogni caso dai subito una bella spazzata qui e poi vai a riparare il codice. E ancora una cosa: il codice poi lo porti a me, ci penserò io a consegnarlo al commissario. Tu dimentica questo piccolo incidente e non andare in giro a raccontare sciocchezze. Sono stato chiaro?»
«Chiarissimo, ispettore.»
Dopo essersi sbarazzato delle schegge di vetro, l’agente della Narcotici Faraglia si precipitò nel suo ufficio, accingendosi al suo lavoro di rilegatore, che sbrigò in poco più di mezz’ora.
Era piuttosto seccato. Forse esagerava, ma se quel codice gli fosse caduto in testa, quantomeno un bel bozzo gliel’avrebbe fatto. Quel tanto che sarebbe bastato per un paio di giorni di riposo per cause di servizio. Ma ricordò le parole del suo superiore. Come avrebbe potuto giustificare il bozzo? Con qualche fandonia: era inevitabile. E avrebbe dovuto tenersi il suo bozzo senza fiatare.
Becco e bastonato, pensò tra sé. È il destino di un onesto agente di Polizia.
E l’agente Faraglia onesto lo era davvero e quello che riuscì a fare in mezz’ora era un capolavoro di legatoria.
E va bene, pensò, questa sera a mia moglie invece delle squallide vicende di piccoli e grandi spacciatori, di cui non vuole più sentir parlare, avrò da raccontarle una storiella un po’ bizzarra che forse la farà sorridere. E, col sorriso sulle labbra, si recò dall’ispettore Cucchi che, chissà per quale ragione, voleva riportare di persona il codice a quel commissario nero, di cui tutti parlavano e che finalmente aveva conosciuto anche lui.
Capitolo 2
L’ispettore Cucchi bussò alla porta di Lucchesi.
«Ecco il suo codice, commissario. Meglio di prima, oserei dire. L’agente Faraglia in queste cose fa miracoli: credo che non si limiti a risistemare i libri di suo figlio, ma che ne abbia fatto una sorta di secondo lavoro per aumentare le entrate, vista la famiglia che si ritrova…»
«Perché? Non ha solo quel figlio di cui ha parlato?» chiese Lucchesi.
«Magari! Quello è il maggiore. Al maschietto di otto anni ne è seguito un altro, poi una femminuccia e infine due gemelli, di pochi mesi. Cinque figli in tutto, alla sua età. Io ho cercato di affrontare l’argomento, ma lui mi ha stoppato subito. È un cattolico convinto e…»
«Ma anche la Chiesa con Bergoglio sta cambiando. Io non seguo molto queste cose, ma mi pare che papa Francesco abbia affrontato l’argomento…»
«Papa Francesco sta a Roma, ma i preti no. E quello della parrocchia che lui frequenta ha idee del tutto diverse e non ammette alcun metodo di contraccezione. Io continuo a chiedermi come il povero Faraglia possa farcela con lo stipendio che ha a mantenere una famiglia di sette persone, ed è per questo che mi auguro possa arrotondare un poco, con i suoi lavoretti da rilegatore, che svolge perlopiù di notte.»
«Certo, certo», borbottò Lucchesi, «con l’agente Faraglia non voglio e non posso certo affrontare a mia volta l’argomento, ma due parole a quel sacerdote forse andrebbero dette. Si informi di chi si tratta. Troverò il modo di farlo io. Intanto però una cosa la posso fare. A casa ho parecchi libri che
avrebbero bisogno di una sistemata. Uno di questi giorni me li porto in ufficio e glieli do, dicendogli che ci pensi lui e che non bado a spese pur di vederli rigenerati.»
«No, commissario, sarebbe tempo sprecato, con l’unico risultato di fargli perdere qualche altra nottata, perché da lei non si farebbe pagare neppure un centesimo. Di questo sono certo.»
«E allora gli dirò che i libri non sono miei, ma di qualche mio conoscente… Qualcosa mi inventerò.»
«D’accordo, commissario, Faraglia è un ragazzo che merita una mano, anche perché è di un’onestà adamantina e nel nostro settore le tentazioni potrebbero essere tante. Non so davvero come ringraziarla…»
«Sciocchezze», fece Lucchesi. «Intanto lo ringrazi da parte mia per il codice penale.»
«Non mancherò, commissario», rispose l’ispettore, e si avviò verso la porta senza fare alcun commento sul vetro sfondato della finestra che non gli era sfuggito. Continuava però a chiedersi se quel codice Lucchesi lo avesse scaraventato in testa a qualcuno, sbagliando mira, oppure se avesse scagliato via il codice dopo essersi imbattuto in una norma che lo avesse irritato, cosa tutt’altro che improbabile, viste le idee politiche di quel commissario nero, note a tutti, anche al Questore, che tuttavia pendeva dalla stessa parte.
Lucchesi si rimise al lavoro. Davanti a lui un fascicolo aperto che prima o poi, ne era quasi certo, sarebbe stato archiviato. Una rapina in una piccola gioielleria verso Quarto Oggiaro. Due malviventi armati di taglierino avevano arraffato una manciata di orologi dal bancone e si erano dati alla fuga a piedi per raggiungere il complice che, a una trentina di metri, li attendeva su una macchina
sgangherata. Il proprietario, munito di una pistola, era uscito dal negozio e aveva svuotato il caricatore sui fuggitivi, colpendone uno alla schiena, a morte. Gli altri due erano riusciti a darsi alla fuga.
A Lucchesi non era rimasto che il cadavere di un giovane albanese, ex muratore in nero di un’impresa che aveva chiuso i battenti, identificato attraverso le impronte digitali rilevate quando tempo prima era sceso da un barcone approdando in Italia; i due complici invece non erano stati rintracciati.
Il commissario, poi, aveva pensato bene di denunciare il gioielliere per omicidio volontario, infischiandosene dei sempre più frequenti distinguo sulla legittima difesa.
La gente del quartiere, la sera stessa, aveva inscenato una manifestazione di solidarietà nei confronti del proprietario della gioielleria, con canti, urla e schiamazzi e uno sventolio di tricolori, prendendo a sassate due volanti che si trovavano a passare. Per la sua iniziativa, che fino a quel momento non aveva avuto alcun esito giudiziario, Lucchesi era stato ovviamente messo alla gogna da certa stampa e dalle forze politiche che ci stavano dietro, ma anche in questo caso se ne era infischiato altamente.
Ora, aspettando le decisioni del Pubblico Ministero, rileggeva il verbale di autopsia di Gentilini, il medico legale: due colpi di una 7.65 che avevano raggiunto l’albanese alla schiena, trapassandogli cuore e polmone, con un terzo proiettile che aveva ferito di striscio un passante.
Leggeva e rileggeva per l’ennesima volta, ma era distratto, lo sguardo che spesso vagava sul soffitto alla ricerca di possibili ragnatele che fossero sfuggite a Minniti, preoccupato per le mosche che, grazie al varco creatosi nella finestra, andavano pacificamente avanti e indietro, posandosi sul verbale o sulla sua mano che lo sfogliava.
E fu proprio Minniti che bussò alla porta, e a un cenno di Lucchesi entrò nella stanza.
«Ciao, Minniti. Devo ringraziarti per la pulizia che hai fatto.»
«Niente, commissario. Ho scovato anche un’altra ragnatela e l’ho eliminata, ma non la sto disturbando per questo. È che un attimo fa il centralino ha ricevuto una chiamata in cui si segnala un’aggressione, con un morto.»
«Di chi si tratta?»
«La persona che ha telefonato non è stata molto precisa. Pare che sia un violinista.»
«E dov’è successo? A casa, in teatro…»
«Per strada, commissario. È questa la stranezza…»
«Dove?»
«In via Correnti.»
«Ma Cristo! Cosa aspettavi a dirmelo? Telefona che mi facciano trovare in cortile una volante. Ci vado subito.»
«Una volante, commissario? Ho capito bene?»
«Te lo devo mettere per iscritto?»
«No, certo che no, commissario. So che lei odia muoversi con le volanti e quindi pensavo di accompagnarla io.»
«Grazie, Minniti, ma voglio andarci da solo. Nella peggiore delle ipotesi, se dovessi aver bisogno di te e di Corradi vi telefono. Tu resta in ufficio e aspetta una mia eventuale chiamata. Nel frattempo assicurati che sia pronto anche Corradi con i suoi della Scientifica. Ora vai, Minniti.»
Si precipitò per le scale: la volante lo stava già aspettando, col motore al minimo.
«Dove dobbiamo portarla commissario?»
«Cesare Correnti.»
«A che altezza?»
«All’inizio, al Carrobbio, dove via Correnti fa angolo con Porta Ticinese.»
«Okay, commissario», rispose l’agente alla guida, e uscì dal portone di via Fatebenefratelli mettendo in funzione la sirena.
«Senti, per favore. Quella sirena occorre proprio? Non basta il lampeggiante che c’è sul tettuccio?»
«Se vuole arrivarci in fretta la sirena è necessaria. A quest’ora c’è traffico ed è giorno e la luce lampeggiante non basta. Però se vuole che la stacchi…»
«No, no, hai ragione. Tienila pure accesa.»
Gianni Simoni, ex magistrato, ha condotto quale giudice istruttore indagini in materia di criminalità organizzata, di eversione nera e di terrorismo. Presso Garzanti ha pubblicato Il caffè di Sindona, in collaborazione con Giuliano Turone. Per TEA è autore dei casi dell’ex giudice Petri e del commissario Miceli e delle indagini del commissario Lucchesi, due serie premiate entrambe da un progressivo consenso di pubblico e critica.
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