Disponibile dal 23 Settembre 2022
Il nuovo romanzo dell’autore di Treno di notte per Lisbona
Sin dall’infanzia, l’inglese Simon Leyland è affascinato dalla parola. A dispetto dei suoi genitori, una volta adulto diventa un traduttore e persegue con determinazione il suo sogno: imparare tutte le lingue parlate nel Mediterraneo. Da Londra si trasferisce con la moglie Livia a Trieste, dove lei ha ereditato una casa editrice. In questa città di importanti letterati, crogiolo di lingue e culture, l’uomo crede di aver trovato il luogo ideale per il suo lavoro, finché una diagnosi medica inaspettata lo porta a cambiare rotta ancora una volta. A indicargli la nuova direzione è la morte dell’amatissimo zio, un linguista che gli lascia in eredità la sua casa di Londra piena di libri e di memorie. Per Simon questa triste coincidenza segnerà un nuovo inizio, un punto di svolta e un’opportunità per reinventare completamente la sua vita. Il lettore lo accompagnerà in questo inatteso viaggio: a poco a poco entrerà in confidenza con quest’uomo sensibile, accoglierà i suoi ricordi, leggerà le sue lettere, finendo così per conoscerlo a fondo e per affezionarglisi. Il peso delle parole, nel riflettere su quanto siamo liberi nelle scelte che facciamo, parla di quanta libertà ci doni la letteratura. Dopo Treno di notte per Lisbona, Pascal Mercier ci regala un romanzo profondo e ricco di suggestioni che, in un tono garbato e intimo, racconta l’amore per i libri in tutte le sue sfaccettature.
«Tutto ciò che per lui avesse mai contato erano le parole. Ogni cosa esisteva realmente solo quando veniva nominata e formulata in parola. Non l’aveva deliberatamente scelto, gli era capitato ed era stato così fin dall’inizio… Faceva esperienza delle cose solo quando le afferrava per il tramite della parola, diceva talvolta, e allora la gente lo guardava incredula. Solo con Livia non aveva avuto mai bisogno di parole».
Escrever não faz homens novos.
Cria, porém, clareza e compreensão.
Ou o seu semblante. E quando
alguém é bem-sucedido com as
palavras,é como um despertar
para si próprio, e nasce, então,
um novo tempo: o presente da poesia.
PEDRO VASCO DE ALMEIDA PRADO,
O tempo da poesia, Lisboa 1903
Scrivere non crea uomini nuovi.
Ma produce chiarezza e comprensione.
O perlomeno la loro parvenza.
E quando si è fortunati nell’invenire
le parole, è come un destarsi a se stessi
e allora nasce un tempo nuovo:
il presente della poesia.
PEDRO VASCO DE ALMEIDA PRADO,
O tempo da poesia, Lisboa 1903
1
«Welcome home, Sir», disse l’addetto al controllo passaporti dell’aeroporto di Londra. Simon Leyland lo guardò come si guarda qualcuno che ha appena detto qualcosa di importante, qualcosa che tocca nel profondo. Prese in consegna il passaporto. «Thank you», disse, «thank you very much». Lentamente si avviò lungo il corridoio diretto alla scala mobile che conduceva giù in basso al ritiro bagagli. Di tanto in tanto si scostava di lato, fermandosi e osservando tutto come fosse la prima volta. Sulla scala mobile sfogliò le pagine del passaporto soffermandosi sulla propria fotografia. L’ultima volta l’aveva osservata nel suo studio a Trieste. Era la fotografia di un individuo che non aveva più futuro. Ora ritraeva un uomo per il quale il futuro si riapriva. Non riusciva ancora a crederci del tutto. Contemplò a lungo l’immagine e inciampò quando il gradino della scala mobile che l’aveva sorretto fu inghiottito dal pavimento. Mentre aspettava il bagaglio pensò a quando, a Trieste, aveva riposto il passaporto in un cassetto insieme agli altri documenti che i figli avrebbero trovato. Senza saperselo spiegare, con il palmo della mano l’aveva premuto sopra i
documenti. Era stato un gesto definitivo, una pressione che suggellava qualcosa e che l’aveva spaventato nel momento stesso in cui l’aveva esercitata. Era stato a settembre, un giorno di calura rovente alimentata dallo scirocco. Ora era novembre e durante l’atterraggio era scivolato dentro una coltre di leggera nebbiolina.
Leyland si avviò verso la scala che portava in basso alla metropolitana e si arrestò in cima. Osservò la grande insegna luminosa, il grande cerchio rosso attraversato dalla barra blu con la scritta «UNDERGROUND» in bianco. Aveva quattro o cinque anni quando l’aveva vista per la prima volta. Da Oxford era arrivato in treno a Londra insieme alla madre, erano scesi a Paddington Station e avevano preso la metropolitana. I londinesi la chiamavano the tube ed erano orgogliosi che fosse la più antica al mondo, gli aveva spiegato la madre. Affascinato, aveva sbirciato la scura imboccatura del tunnel le cui pareti erano percorse da spessi fasci di cavi neri fuligginosi. Più addentro nel buio comparivano luci di un giallo opaco che diventavano sempre più grandi e luminose, accompagnate da un misterioso e minaccioso rimbombo che andava crescendo sempre
più. Quando il treno alla fine sfrecciava fuori dal tunnel e piombava in stazione rombando, spingeva davanti a sé un cuscino d’aria che spazzava la banchina e faceva turbinare le cartacce sparse. L’aria sapeva di cantina, di polvere e di stufe a carbone e tuttavia anche di qualcosa di affatto diverso, un odore che esisteva solo lì sotto, l’odore della misteriosa metropoli e il ragazzino tenuto per mano dalla madre aveva inspirato a fondo quell’aria.
Leyland scese i gradini che portavano alla banchina: Heathrow era il capolinea della Piccadilly Line e il treno era già lì pronto. Salì e prese posto in modo da poter vedere il diagramma con le diverse linee della metropolitana. Conosceva la rete a memoria e non c’era stazione in cui non fosse sceso almeno una volta. Il pensiero che sotto quella enorme città – a una tale profondità che si stava sulle ripide scale mobili un tempo infinitamente lungo – vi fossero ovunque tunnel in cui centinaia di treni s’inoltravano con le loro luci opache nel buio fuligginoso, non aveva mai cessato di affascinarlo e la mappa della metropolitana aveva sempre avuto un posto nei suoi vari studi. Sidney, suo figlio, aveva tentato invano di convincerlo ad acquistare un cellulare. Alla fine gliene aveva regalato uno in occasione del compleanno e gli aveva installato un programma che informava dei disguidi sulla metropolitana di Londra. Il segnale assomigliava al limpido suono di una goccia d’acqua che cade pigramente e poi compariva una scritta: Central Line: two minutes delay at Bond Street. Leyland non si saziava mai di quegli avvisi e portava sempre con sé il cellulare anche se odiava l’idea di essere raggiungibile ovunque. Quando il segnale risuonava mentre era in compagnia di altri, estraeva il cellulare e con volto impassibile leggeva a voce alta: Circle Line: three minutes delay at Victoria Station. La gente la considerava una mania, ma era molto più di questo. A volte si sedeva sul Molo Audace, il grande molo del porto di Trieste, lasciando penzolare le gambe e aspettava il segnale da Londra. Si allontanava solo dopo aver sentito il segnale e letto il messaggio. Quel molo e the tube: se avessero potuto trovarsi nel medesimo luogo.
Quando il treno si mise in moto Leyland s’immerse nell’ascolto del sordo rombo delle ruote. Ogni volta che, a distanza di tempo, lo riascoltava, avvertiva quanto gli era mancato quel ritmico rombare smorzato. Era un rumore che rendeva tutto più leggero. A settembre, quando aveva riposto per sempre il passaporto, aveva immaginato di essere seduto lì e di sentire quel rumore. Non c’era alcun rimedio, aveva pensato. Nessun rimedio possibile. Chiuse gli occhi. Ora era tutto passato. Sì, era passato.
Leicester Square. Leyland imboccò il passaggio verso la Northern Line. Sulla banchina si fermò davanti al distributore automatico. Ogni volta che andava a Londra era solito infilarvi delle monete ed estrarre una tavoletta di cioccolato Cadbury avvolta nella carta blu con la scritta dorata. E ogni volta si lasciava sciogliere la cioccolata in bocca, ignorava i treni in transito e inspirava profondamente quando il cuscino d’aria lo investiva e spazzava la banchina. Intanto pensava all’ultima volta che era stato lì e alla volta ancora prima e rievocava quello che era successo nel frattempo. Che cosa ho fatto del tempo della mia vita?, si chiedeva poi immancabilmente. Qualche volta gli sembrava una domanda semplice e chiara; ma poi gli suonava bizzarra e non era sicuro di sapere che cosa intendeva con quella domanda e quale avrebbe potuto essere la risposta. Mentalmente si ritrovava a Trieste, vedeva tutto con precisione davanti a sé, ogni strada e ogni posto, era in grado di ricapitolare tutti i fatti importanti e tuttavia aveva l’inquietante sensazione che tutto questo fosse irreale. Che scivolasse via dileguandosi, senza alcuna presa su di lui. Com’era possibile? E all’inverso, quando camminava per Trieste, gli capitava che la sua vita precedente a Londra perdesse sempre più i suoi contorni reali. In quei momenti il limpido segnale della metropolitana di Londra proveniente dal cellulare risuonava come un remoto ricordo sempre più sbiadito, o come qualcosa di fantasmatico, un episodio di pura fantasia. Solo quando lavorava a una traduzione, impegnato per ore e ore nella ricerca dei termini esatti, si sentiva al riparo dalla sensazione della realtà che si ritraeva e svaniva. Solo allora tutto riacquistava il suo assetto e si colmava di presente.
Questa volta non prese la cioccolata dal distributore automatico. Questa volta doveva essere diverso. La domanda sul tempo della sua vita ora si sarebbe fondata su altre basi. Era venuto lì per affrontarla in modo nuovo. Come, non lo sapeva ancora. Warren Shawn, suo zio, gli aveva lasciato in eredità la sua casa di Hampstead. Negli ultimi giorni a Trieste ci aveva pensato sempre più pesso e sempre più gli era sembrato il luogo giusto per riflettere sul corso futuro della sua vita. Sidney e Sophia avevano notato che aveva preso la valigia grande. Nel prendere congedo all’aeroporto, Sophia aveva indicato il suo passaporto. «Non ne hai mai chiesto uno italiano», aveva detto. Lui aveva sfiorato i capelli di sua figlia, che presto si sarebbe laureata in Medicina. «Non preoccuparti, torno», aveva detto. Quando l’aereo era decollato, aveva guardato in basso pensando: ventiquattro anni. E adesso?
Pascal Mercier è nato a Berna nel 1944 e vive a Berlino. Il suo Treno di notte per Lisbona, successivamente adattato per il cinema, è diventato uno dei più grandi bestseller degli ultimi anni, è stato tradotto in trentadue lingue e in Italia ha vinto il Premio Grinzane Cavour per il miglior romanzo straniero nel 2007. Il peso delle parole è il suo nuovo romanzo: in testa alle classifiche di vendita per molte settimane, è un altro grande successo.