“Il mondo è un alveare” c’è una storia che le api raccontano di Joanne Harris

Da oggi disponibile in tutte le librerie e on-line

C’è una storia che le api raccontano a cui è impossibile non credere. Una storia che si perde nei secoli. Ha inizio con la nascita di Re Crisopa, un uomo crudele e ingannatore, che trova la redenzione compiendo un lungo viaggio dentro sé stesso e nel cuore silenzioso del mondo. È qui che incontra individui straordinari, ognuno dei quali ha qualcosa da insegnare. La creatività è il primo regalo che riceve, da un abile giocattolaio che rincorre l’opera perfetta, perché incapace di sacrificare la purezza dell’arte in nome della cinica materialità. La conoscenza è il secondo dono e giunge da una principessa tenace il cui animo si riscalda con le parole del sapere e si inaridisce di fronte alle rigide regole di corte. Grande esempio di solidarietà è per lui il cane più piccolo che si sia mai visto, il più insospettabile degli esseri mondani che nasconde un coraggio senza pari. Poi è la volta della regina innamorata della luna, che gli trasmette la bellezza come nessun altro sa fare. Incontro dopo incontro, Re Crisopa impara a guardarsi intorno con occhi diversi e scopre che il mondo assomiglia a un grande alveare. Come la casa delle api, è un mosaico di tanti microcosmi abitati da centinaia di migliaia di creature che, industriose, si adoperano perché tutto funzioni alla perfezione. Nessuna creatura può fare a meno dell’altra. Soltanto con uno sforzo collettivo si può tessere un grande racconto che si nutre del nettare magico dell’immaginazione. “Il mondo è un alveare” racchiude un universo di opposti dove luci e ombre, sogni e incubi, virtù e malvagità convivono e creano un perfetto equilibrio. Un universo dove la parola è una forza in grado di plasmare la realtà che ci circonda e di renderla intelligibile a chi è disposto ad ascoltare la sua voce senza pregiudizi.

A tutti gli uccellini azzurri…

LIBRO PRIMO 
TANTO TEMPO FA

C’è una storia che raccontavano le api,
per questo è difficile non crederci.

1. 
NETTARE

Quando i Nove Mondi erano ancora molto giovani non esistevano storie. Esisteva solo il Sogno, il fiume che scorre attraverso tutti i Mondi, riflettendo i cuori e i desideri del Popolo nel suo viaggio verso il Pandemonio.

Ma accanto a quel fiume cresceva un fiore senza nome. Cresceva solo lì, sulle rive del Sogno, fra le polverose pianure di Morte e le scure rocce di Dannazione. I suoi petali erano pallidi come l’amore giovane, le sue foglie erano come il cielo stellato, le sue radici erano impregnate dei sogni del Popolo e il suo profumo era come il miele e il dolore straziante.

Ma nessuno vedeva il fiore dei sogni, né sentiva il suo profumo nell’aria incantata. Nessuna creatura vivente aveva mai visto il colore dei suoi petali né toccato una delle sue foglie splendenti. Finché, un giorno, uno sciame di api trovò la via per il Mondo Sotterraneo. Si posarono sul fiore e si nutrirono, estrassero il nettare dal suo cuore profumato. E quando alla fine tornarono all’alveare, dal nettare fecero del miele e lo diedero da mangiare alla loro giovane Regina, mentre lei cresceva nella culla del favo.

Il miele era scuro, aromatico e dolce. La Regina, nella sua cittadella dorata, fu ben nutrita dal nettare dei sogni. E crebbe in saggezza e bellezza fino a quando non divenne la Regina 

del Favo, la capostipite del Popolo della Seta, che alcuni chiamano le Fate, e alcuni i Primi, e altri i Custodi delle Storie.

Tramite questa impollinazione incrociata, la Regina nacque nell’Aspetto della gente dai cui sogni aveva avuto origine. Poteva passare attraverso i loro Mondi, poteva vedere nei loro cuori. Poteva usare ciò che vedeva per tessere malie del tipo più meraviglioso: malie che costruivano mondi nell’aria, che aprivano ogni porta segreta, ogni camera del cuore. E queste furono le primissime storie.

Ma, sull’altra sponda del fiume Sogno, la Regina di Halloween, per metà donna e per metà cadavere, signora del Regno della Morte, osservava la Regina del Favo da lontano. Dall’occhio morto riusciva a vedere nei sogni più cupi del Popolo, dall’occhio vivo riusciva a vedere ogni cosa nei Nuovi Mondi. Il tocco della sua mano viva era un dono che nessun uomo aveva mai conosciuto; il tocco della sua mano avvizzita portava Morte. Il suo regno era deserto da ogni lato. Non cresceva nulla, non cambiava nulla, e le uniche storie che lei avesse mai sentito erano quelle che si concludevano con la morte di tutti i protagonisti. Con il passare del tempo, divenne gelosa della Regina del Favo e delle sue storie e cominciò a fare piani per rubare il bel fiore dei sogni.

Così una notte attraversò il fiume e andò in cerca del fiore dei sogni. Per un po’ si trattenne a guardarlo, respirandone il profumo incantato. Nel suo reame niente era profumato, niente era morbido o bello. Una terribile solitudine scaturì nel suo cuore e una sola lacrima scorse sulla parte viva del viso distrutto. Tese una mano per cogliere il fiore, ma, nella fretta, la Regina scordò di usare la mano viva, e toccò il bel fiore dei sogni con le dita morte e avvizzite.

Il fiore dei sogni appassì e morì immediatamente. Un fiore simile non si è mai più visto. Ma il suo nettare rimase con la Regina del Favo e con le brave api industriose, che passavano di fiore in fiore, riportavano il polline all’alveare e raccontavano le loro storie ovunque andavano – poiché anche loro si erano nutrite del nettare, e ora facevano parte del fiume: il Fiume che scorre attraverso i Nove Mondi, portando con sé i sogni del Popolo e tessendoli in storie.

Alcune di queste storie portano con sé un pungiglione. D’ altronde è tipico delle api.

2. 
LA LEVATRICE

C’era una volta una levatrice, nota per la sua abilità. Una notte d’inverno, un uomo venne a bussare alla sua porta per chiederle di far nascere un bambino podalico. Era tardi, era buio, si sentiva odore di tempesta in arrivo, ma l’uomo – che era straniero – promise alla levatrice una generosa ricompensa se fosse riuscita a salvare la moglie e il figlio.

Così la levatrice andò con lui, viaggiando nel suo calessino fino a un villaggio che non riconobbe e a una piccola casa, povera ma pulita, dove giaceva una donna in travaglio, febbricitante e in preda al delirio. La levatrice ordinò all’uomo di andarsene. Lui parve restio a farlo.

Quando la levatrice insistette, le disse: «Ti lascerò a una condizione. Quando il bambino sarà nato, applicagli il medicinale sugli occhi. È un rimedio usato dalla nostra gente quando un bambino viene al mondo». E porse alla levatrice una boccettina, non più grande del polpastrello del pollice, piena di qualcosa che a lei sembrò miele, scuro, trasparente e appena uscito dal favo.

«Ma qualunque cosa tu faccia», aggiunse l’uomo, «non avvicinare la medicina agli occhi. Anche se per noi è innocua, per la gente come voi sarebbe pericolosa.»

La levatrice acconsentì e fece nascere il bambino – un bambino sano – senza difficoltà. Prese la boccetta di medicinale e gli unse gli occhi con la punta del dito, come aveva indicato il padre, prima di rivolgere la sua attenzione alla madre. Lo stato della madre era grave e ci volle tutta la capacità della levatrice per salvarle la vita. Quando ebbe finito, la levatrice si scostò i capelli umidi dagli occhi e una piccola sbavatura del medicinale con cui aveva unto il bambino le entrò nell’occhio sinistro, facendolo bruciare e lacrimare.

Per un momento ebbe paura che la medicina l’avesse accecata. Però, via via che il velo svaniva dall’occhio, scoprì che non solo non aveva perso la vista, ma riusciva a vedere diverse cose nuove. Chiudendo l’occhio indenne, guardò la piccola casa e la donna di cui aveva fatto nascere il bambino.

Ma non era più una casetta. Si ritrovò invece in un’elegante camera da letto, con colonne di marmo, pavimenti a mosaico e un letto a baldacchino, tutto drappeggiato di Seta bianca, dove giaceva la donna più bella che avesse mai visto: una donna con occhi senza palpebre, scuri come il miele. Anche il bambino appariva diverso: paffuto, con la pelle dorata e gli stessi occhi inquietanti della madre.

L’istinto consigliò alla levatrice di nascondere la sua nuova vista. Si limitò a fasciare il bebè, lo rimise nella culla (che il suo occhio sinistro vedeva come un cigno d’argento tutto panneggiato di mussola blu come la luna), quindi andò a chiamare il padre del neonato, che aspettava fuori dalla porta.

Anche qui la levatrice dovette dissimulare la propria sorpresa per quello che vide. Invece del modesto salottino di poche ore prima, adesso, con l’occhio sinistro, vide un ingresso con una doppia scala e un pavimento di marmo a scacchi. La piccola stufa in fondo alla stanza era diventata un enorme camino dove arrostiva un bue intero, girato su uno spiedo da due rosticcieri. Lì accanto c’era un paio di guardie con l’armatura, tutte in nero e scintillanti; lo straniero che era venuto da lei in cerca d’aiuto se ne stava seduto su un trono dorato, una fascia d’oro intorno ai capelli, capelli della tonalità dell’ala di una falena. Per un istante la guardò. Un occhio era di un curioso azzurro farfalla, l’altro scuro come un favo.

Dopo un po’ l’uomo disse con impazienza: «Allora?».

La levatrice mantenne la calma in volto. Se lo straniero avesse intuito che aveva disobbedito ai suoi ordini, sapeva che non avrebbe mai lasciato quel posto, né rivisto il suo villaggio. Perché la levatrice si era resa conto di trovarsi in mezzo al Popolo della Seta: tessitori di malie, filatori di racconti, più pericolosi delle Fate.

«Madre e figlio stanno bene», rispose. «Adesso, ricordate, avete promesso di pagarmi.»

Lui annuì e le porse una manciata di monete. Dall’occhio destro le sembravano d’oro ma con la nuova vista non scorse che una manciata di auree foglie autunnali. Tuttavia non disse nulla. Si infilò le foglie in tasca e in silenzio seguì l’uomo all’esterno, in un cortile dove aspettava una carrozza d’argento, trainata da quattro cavalli grigi. Era qui che la levatrice, appena qualche ora prima, aveva visto un pony e un calessino. Vi montò senza una parola, ignorando la meraviglia che la circondava. E lo straniero la condusse attraverso campi e foreste, finché non raggiunsero il villaggio e la sua piccola casa mentre il sole si stava alzando.

Era finita. O così credeva. Ma nelle settimane seguenti la levatrice si scoprì incapace di dimenticare le strane cose viste quella notte. L’uomo coronato e la bella donna, il neonato nella culla d’argento. Il palazzo che le era parso una casetta comune sotto il velo di malie. Ora, con la nuova vista, vedeva ogni sorta di cose che nessuno – nessun umano – poteva vedere: piccoli uomini grigi sotto la collina, un uomo scuro con un cappotto maculato di velluto nero e scarlatto, una donna che cavalcava il cielo della sera su un cavallo d’aria e di stracci, una ragazza graziosa, tutta vestita di bianco, sulla betulla della corte. Tutti invisibili a chiunque tranne alla levatrice; tutti che la guardavano in silenzio con quegli strani occhi privi di palpebre. Ma la levatrice non ricambiò mai lo sguardo né diede mai l’impressione di averli visti. E a poco a poco, il Popolo della Seta ritornò alle sue faccende quotidiane.

La levatrice moriva dalla voglia di raccontare a qualcuno la sua strana avventura. Ma sapeva che nessuno le avrebbe creduto. Si sarebbe potuto pensare che fosse pazza o, peggio, posseduta da uno spirito maligno. Imparò a far finta che il suo dono indesiderato non esistesse, finché, un giorno, cinque anni dopo, mentre era al mercato, vide l’uomo con gli occhi inquietanti e la fascia d’oro nei capelli che si muoveva fra le bancarelle, invisibile a tutti ma non a lei.

La levatrice trasalì.

L’uomo la guardò. Quando la riconobbe gli brillò lo sguardo. Poi, con un movimento talmente netto e preciso che lei nemmeno lo sentì, strappò l’occhio sinistro della levatrice con le lunghe dita diafane.

La levatrice visse fino a tarda età. Ma non rivide mai più l’uomo, né qualcuno della sua gente.

foto presa dal web

Joanne Harris, di padre inglese e madre francese, vive nello Yorkshire. Si è laureata al St Catherine’s College di Cambridge, dove ha studiato francese e tedesco medievale e moderno. Oltre a Chocolat, i suoi libri, pubblicati in Italia da Garzanti, sono: Vino, patate e mele rosse (1999), Cinque quarti d’arancia (2000), La spiaggia rubata (2002), La donna alata (2003), Profumi, giochi e cuori infranti (2004), Il fante di cuori e la dama di picche(2005), La scuola dei desideri (2006), Le scarpe rosse (2007), Le parole segrete (2008), Il seme del male (2009), Il ragazzo con gli occhi blu (2010), Il giardino delle pesche e delle rose (2012), Le parole di luce (2013), Un gatto, un cappello e un nastro (2014), Il canto del ribelle (2015), La classe dei misteri (2016), La ladra di fragole (2019) e, con Fran Warde, Il libro di cucina di Joanne Harris (2003), Al mercato con Joanne Harris. Nuove ricette dalla cucina di «Chocolat» (2007) e Il piccolo libro di «Chocolat» (2014).

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"