“Il gatto e la bambina del ghetto” di Mala Kacenberg

Polonia 1939. Mala ha davanti a sé una casa vuota. La casa in cui ha vissuto e riso per dodici anni con i suoi genitori e i suoi fratelli ora è abitata solo da un’eco silenziosa. Come molti altri ebrei, anche la sua famiglia è stata deportata, e lei è l’unica a essere sfuggita ai rastrellamenti. Ma non è sola. Ha il cuore distrutto e ha finito le lacrime, ma accanto a lei c’è chi riesce a darle la forza di andare avanti e non mollare: è Malach, la sua bellissima gatta. Il suo nome significa «angelo», ed è proprio questo che diventa per Mala giorno dopo giorno: la guida attraverso le campagne intorno alla città dove delle famiglie le offrono cibo e riparo per la notte; la protegge per evitare che raggiunga la sua famiglia nei campi di sterminio. Ma non è facile per la ragazzina nascondersi, anche se Mala si è ribellata ai suoi aguzzini strappandosi la stella di David dal braccio: le sue radici, le sue tradizioni e la sua fede possono più di qualsiasi discriminazione. Anche con la vigile protezione di Malach, però, non arrendersi allo sconforto è difficile. Nella sua mente è ancora vivo il ricordo delle perdite che ha subito e dei divieti a cui è dovuta sottostare, primo fra tutti non poter più studiare e andare a scuola. Mala deve trovare la forza per sopravvivere. E la sua gatta è sempre con lei a ricordarle che ogni cosa è possibile anche se intorno è solo buio. Una storia vera che ha emozionato la stampa di tutto il mondo e scatenato un passaparola senza paragoni. Ci sono parole dal valore universale; ci sono messaggi la cui importanza non tramonta mai; ci sono testimonianze che non si deve smettere mai di ascoltare.

In memoria:

dei miei cari genitori, Yitzchak e Frimchy Szorer,
e dei miei nonni, che mi hanno instillato
un’osservanza religiosa tale da sostenermi
durante tutta la guerra;

di mia sorella maggiore Balla, che ho adorato
e a cui ho sempre guardato per aiuto e consigli;

del mio unico fratello, Yechiel Gershon,
ucciso in modo così barbaro ai miei piedi;

di mia sorella minore, Esther, brillante e matura,
che aveva soltanto tredici anni quando fu anche lei
spietatamente assassinata;

delle mie dolci sorelline, Kresele e Surele,
d’oro come i loro boccoli, e fin troppo piccole per capire
quanto stava accadendo e per chi andassi ogni giorno
a elemosinare il cibo;

delle mie sorelle minori, Freidele e Devoirele,
morte tanto giovani, prima ancora che iniziassero
le devastazioni della guerra;

dei miei cari zii, zie e cugini, e dei numerosi amici,
la cui perdita sarà sempre un dolore e il cui affetto
ricorderò a vita;

dei sei milioni di martiri ebrei,
brutalmente uccisi dai tedeschi.

Dedicato:

al mio caro marito, per il suo incoraggiamento
e la sopportazione con cui ha condiviso il fardello
del mio tragico passato, per la pazienza e la comprensione mentre mettevo per iscritto questi ricordi dolorosi,
e insieme al quale, con l’aiuto di Ha-Shem, sono riuscita
a ricostruire una splendida famiglia ebrea;

ai nostri meravigliosi figli e nipoti, che possano portare avanti la torcia del loro patrimonio spirituale.

Amen

PREMESSA

Avevo solo dodici anni e mezzo quando l’ombra del Terzo Reich si allungò sull’Europa. Mentre iniziava l’incubo dell’invasione tedesca del mio paese indifeso, ero più interessata ai libri di scuola, alla mia famiglia e agli amici che alle conseguenze della guerra. Non avrei nemmeno immaginato l’entità degli orrori a cui avremmo ben presto assistito.

Ero una bambina d’indole molto serena e mi sono goduta immensamente i primi anni della mia vita. In quei giorni allegri dell’infanzia i miei genitori mi proteggevano ancora dalle paure angoscianti, ed ero ignara della catastrofe che si sarebbe abbattuta sugli ebrei e sulla mia famiglia.

Le immagini dell’abisso in cui l’umanità può sprofondare non sbiadiscono via via che quel periodo terribile si allontana nel tempo. Restano indelebilmente e brutalmente impresse nella mia mente. E tuttavia, data l’enormità dei crimini, e se davvero vanno ricordati, sento l’ ’obbligo di riferire la storia della metà del ventesimo secolo così come io, Mala Szorer, l’ho vissuta.

So che molti si chiederanno perché d’un tratto abbia deciso di scrivere questo libro. Vorrei dire loro che ho trascorso numerose notti insonni. Sospesa tra lo stato di coscienza e di incoscienza, una sera ho esclamato: «Cari mamma e papà! Finalmente torno da voi. Voglio rivedervi tutti ancora una volta nella nostra casetta accogliente, con il fiume che scorre placido nelle vicinanze e i ciottoli bianchi sulle sue rive, che mi hanno regalato ore di gioia quand’ero soltanto una bambina. Desidero rivedere di nuovo i campi verdi dove riposavamo e facevamo lunghe passeggiate insieme. Madre adorata, ti prego, invita tutti i miei amici e organizza una grande festa, perché vengo a raccontarti la storia più terribile che tu abbia mai sentito: saprai come in più occasioni sia miracolosamente scampata alla morte e abbia vissuto in solitudine per tanti anni».

«Non entrare a Tarnogród, figlia mia. Là non c’è più nessuno che possa ascoltarti», ha risposto una voce molto familiare che sembrava provenire dal cielo.

Mi sono svegliata da quella visione bizzarra, da quel brutto sogno, con il cuore che palpitava. Recuperata la lucidità, ho ricordato il sogno, e di lì a poco ho deciso di scrivere la mia storia, non solo per la mia famiglia e i miei amici, che ho tanto amato e perso nello sterminio, ma per il mondo intero, perché anche gli altri rammentino e non lascino che il ricordo di quegli eventi agghiaccianti scolorisca come le foglie d’autunno.

Tarnogród. Mentre gli stivali impeccabili dei soldati nazisti calpestavano la tranquillità bucolica di quel paese della campagna polacca, la mia vita stava per cambiare in modo drastico e irrevocabile. Sarei stata strappata dal caldo abbraccio dei miei nonni, dei miei genitori, di mio fratello e delle mie sorelle e costretta a sopravvivere alla bell’e meglio, a lottare contro gli elementi in un mondo sempre più ostile.

Ben presto gli eventi travolsero me e la mia famiglia, e in Polonia cominciò lo sterminio sistematico degli ebrei. Le condizioni atroci in cui si ritrovò il mio popolo e il silenzio del mondo «civile» di fronte a un simile male rimangono vivi nella mia mente come una fotografia ingiallita, l’immagine del capitolo più terribile della storia dell’umanità: l’Olocausto. C’è un vecchio adagio che dice: «Gli altri possono anche temere ciò che porterà il domani, ma io devo raccontare al mondo quello che è successo ieri». La mia storia potrà sembrare fantastica o immaginaria, ma è assolutamente vera. È accaduta a me, nella mia vita, non secoli ma solo una breve generazione fa. Abbiamo il dovere nei confronti dei morti di mantenerne viva la memoria, rammentando al mondo che ha la responsabilità di non dimenticare mai. Perché per affrontare il futuro dobbiamo conoscere il passato.

LIBRO PRIMO
LA FUGA

1.
IL FIUME SCORRE PACIFICO

Sono nata in una famiglia ebrea osservante a Tarnogród, una cittadina nel cuore della Polonia vicino a Lublino. I miei genitori avevano avuto nove figli, tre dei quali morti da piccoli di dissenteria e di influenza, malattie per cui a quei tempi non c’erano cure. Con il senno di poi, posso dire che siano stati loro i fortunati, perché si risparmiarono i tormenti e le sofferenze che sarebbero toccati al resto della mia famiglia.

All’inizio degli anni Trenta mio padre, Yitzchak Szorer, partì per l’Uruguay per avviare un’impresa commerciale. Erano tempi molto duri in Polonia, ed era l’unico in famiglia che portasse a casa il pane. I suoi fratelli Jacob e Meilich erano già là e vi restarono per sempre, scampando in tal modo agli eventi che portarono allo sterminio di tutta la mia famiglia e di sei milioni di persone del nostro popolo.

Circa due anni dopo essere partito per il Sudamerica, mio padre tornò a Tarnogród, da mia madre e da noi figli, da cui non riusciva più a stare lontano. All’inizio aveva creduto di potersi stabilire in Uruguay, ma nel giro di poco comprese che laggiù sarebbe stato troppo difficile crescere i suoi figli secondo il nostro credo religioso, perché all’epoca l’Uruguay non aveva scuole ebraiche e nemmeno una comunità ebraica consolidata.

Per mantenere la sua numerosa famiglia, mio padre mise in piedi diverse piccole attività, ma finì col chiuderle per diventare un grossista di frutta. Cominciò prendendo in affitto alcuni frutteti alla periferia della nostra cittadina. Altri li affittò in seguito dai contadini dei villaggi limitrofi, come Łukowa e Chmielek, e in altri posti di cui non ricordo il nome. Lo faceva quando gli alberi erano ancora in fiore, per poter stimare quanti frutti avrebbero prodotto. Raramente si sbagliava. Benché non fossimo ricchi, riuscivamo a vivere con i proventi delle sue vendite, e inoltre avevamo frutta a sufficienza per noi, il che ci mantenne sani.

«Grazie al cielo non sono rimasto in Uruguay», diceva, perché a Tarnogród potevamo ricevere un’istruzione e osservare pienamente la nostra religione.

Quand’era laggiù, aveva fatto fortuna con la sua impresa ed era riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per costruire una nuova casa, adiacente a quella di mio nonno materno, Reb Yaakov, o Yanchi, com’era affettuosamente noto a tutti.

Nonostante fosse anziano, era ancora molto forte e attivo. Lui e suo fratello Issar erano tanto robusti da essere scherzosamente soprannominati i «cosacchi». Gli abitanti della nostra cittadina si scambiavano battute sostenendo che in due avrebbero potuto trasportare un’intera abitazione sulle spalle. Mio nonno era un melamed alla cheder locale, e io imparai molto anche solo ascoltando i suoi racconti. Era vedovo e, a parte cucinare – era la mamma a provvedere per lui –, badava a sé stesso e alla casa alla perfezione. Era sempre molto pulito e in ordine. Ricordo ancora le assi di legno che dispose tutt’intorno alle nostre abitazioni perché potessimo andarlo a trovare senza infangarci le scarpe, soprattutto d’inverno, visto che a quei tempi il calcestruzzo non era ancora disponibile.

Pur avendo ben poco di superfluo, ci consideravamo più fortunati di alcuni nostri vicini perché godevamo in particolare di due lussi che i conoscenti ci invidiavano: un gabinetto esterno e un piccolo pozzo. Permettevamo ai vicini di usare la nostra acqua, che ci serviva soltanto per pulire e lavare la biancheria. Per prendere l’acqua potabile dovevamo invece fare un piccolo tratto a piedi, ma a volte, quando potevamo, ce la facevamo portare a casa, il che ci rendeva la vita un po’ più facile.

La nostra era un’abitazione semplice, come gran parte delle altre nella cittadina, in cui molti erano poveri quanto noi. Una grande stufa al centro di una stanza spaziosa divideva la camera dei miei genitori dalla sala da pranzo. La usavamo per scaldarci nei freddi inverni e anche come forno. Avevamo inoltre una cucina economica per preparare i pasti. Dato che non c’erano gas né elettricità, la legna era l’unico combustibile. Ogni martedì, giorno di mercato, arrivavano i rifornimenti. Mio padre aveva un accordo di vecchia data con un contadino, che dietro compenso ci portava tre tronchi con un carro trainato da un cavallo.

Il fiume Nitka («Filo») scorreva vicino alla nostra abitazione ed eravamo soliti lavare là gli abiti, dal momento che l’acqua del pozzo non bastava per tutte le nostre esigenze. Per miracolo, il bucato usciva sempre straordinariamente pulito. D’estate lavavamo nel piccolo corso d’acqua anche le stoviglie, gli utensili di cucina e le posate, lasciandoli asciugare al sole su casse di legno. Non avendo mai conosciuto il lusso, ci eravamo abituati a quelle condizioni, consapevoli che i nostri genitori lavoravano sodo per sfamarci e vestirci. Cercavano di farci vivere felici. A casa avevamo l’abitudine di recitare le preghiere del mattino prima di colazione. Pregavamo anche prima di andare a dormire la sera e ringraziavamo per il cibo prima di mangiare. Io mi godevo appieno la vita senza mai attendermi più di quanto i miei adorati genitori potessero darmi, senza mai scordarmi di ringraziare l’Onnipotente per tutto ciò che possedevamo.

Il mio passatempo preferito era giocare con i ciottoli che rivestivano il fondo del fiume Nitka, ed ero diventata molto brava: ne lanciavo in aria quattro o cinque alla volta e li afferravo tutti insieme. Al di là del fiume c’erano campi di mais e frutteti. Amavo percorrere gli stretti sentieri erbosi che circondavano quei campi. Soprattutto, adoravo stendermi sotto gli alberi e guardare il meraviglioso cielo azzurro. Gli alberi erano da sempre i miei migliori amici: facevo i compiti sotto le loro fronde e mi davano l’ispirazione per scrivere poesie in polacco o in Yiddish.

Ogni estate fuggivamo dal caldo insopportabile trasferendoci nei frutteti in affitto. Ognuno di essi aveva una piccola capanna nel mezzo; lì portavamo l’occorrente per cucinare, un po’ di provviste, le coperte e altri oggetti indispensabili. Quanto ci piaceva il cibo che mia madre preparava su una piccola cucina a legna all’esterno della capanna! Noi bambini dormivamo sereni nell’ampio terreno, anche se i nostri genitori dovevano stare rigorosamente di guardia per assicurarsi che non rubassimo la frutta matura. L’aria fresca ci metteva un sano appetito, al punto che alla fine dell’estate tornavamo a casa rinvigoriti e di buon umore.

foto presa dal web

Mala Kacenberg è nata a Tarnogród, Polonia, nel 1927. Travolta dallo scoppio della seconda guerra mondiale, è riuscita a sopravvivere – unica della sua famiglia – grazie a coraggio, intelligenza e alla compagnia della sua «gatta custode», Malach. È morta a Londra, all’età di novant’anni. Nel Gatto e la bambina del ghetto ha raccontato la sua storia.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito il corso di formazione "lettura e benessere personale come rimedio dell'anima"