Sinossi
Febbraio 1519. La brezza mattutina sparge il suo soffio su Roma, avvolgendola in un’atmosfera incantata. Raffaello Sanzio passeggia assorto per via Giulia, lungo l’argine del Tevere, lasciandosi ispirare dai colori che si riflettono nell’acqua e nel cielo, che gli pare una tela color lapislazzuli, arricchita solo da una punta di viola. Agostino Chigi, il banchiere più ricco della città, lo ha convocato al suo servizio per dipingere la loggia di villa Farnesina, un palazzo sontuoso nel cuore di Trastevere, frequentato dai più noti artisti e intellettuali che vivono nell’Urbe. Proprio sotto la loggia si svolgerà presto il matrimonio tra Agostino e Francesca Ordeaschi, la bellissima cortigiana che è riuscita a conquistare il suo cuore e un posto d’onore tra gli scranni del potere. Ma la fantasia di Raffaello non è occupata soltanto dall’arte: è facile perdersi nei gorghi della passione, nella festa continua che si svolge tra i vicoli semibui e i palazzi nobiliari di Roma, e lui non è certo immune dal fascino delle donne che animano la città: Giulia Farnese, Felicia della Rovere, Vittoria Colonna, che tessono con grazia e abilità gli intrighi del tempo. Non sono loro però ad aver acceso il desiderio di Raffaello, ma un’umile e sensuale fanciulla, figlia di un fornaio di Trastevere. È lei la Fornarina, ritratta seminuda e lasciva in una tavola che sdegna e accende d’ira i prelati della Santa Sede. E la passione infiamma non solo Roma; dilaga oltre i confini d’Italia e divampa attraverso l’Europa fino all’Impero Ottomano: Enrico VIII, Francesco I, il sultano Solimano I e Carlo d’Asburgo si contendono, tra scandali politici, intrighi sessuali e guerre di religione, la cupola del potere del mondo allora conosciuto. Con “Il fermaglio di perla”, terzo capitolo della saga “Il secolo dei gigant”i, Antonio Forcellino, studioso di arte rinascimentale, ci regala un affresco di uno dei periodi più affascinanti di sempre: il Rinascimento.
Estratto
A tutti quelli che credono ancora
e crederanno per sempre
alla bellezza e al cuore di questo Paese
LA LOGGIA DELL’AMORE
Il febbraio del 1519 allentava la sua morsa gelida sull’Italia e su Roma, dove i primi mandorli fiorivano negli orti che costeggiavano il Tevere.
Raffaello camminava lungo il fiume di buon mattino, pieno di gratitudine per quel cielo azzurro che incorniciava i muri dei nuovi edifici di via Giulia con la profondità di un’immensa stoffa di seta colorata e ben tesa. Come sempre, giocava a immaginare i pigmenti che avrebbe mescolato per ottenere quella tonalità. Un fondo bianco, una stesura di smaltino di Venezia e sopra, quando era già quasi asciutto, un’acqua appena carica di lapislazzuli frantumato, con una punta di viola. Ma leggerissima, perché il viola faceva presto a illividire la trasparenza dell’aria. Quello per lui era il cielo perfetto, eppure, nella loggia che stava dipingendo per Agostino Chigi nel palazzo di Trastevere, il banchiere gli aveva chiesto di rinforzarlo con un azzurro ancora più acceso, forse, pensava malignamente, per ostentare la sua ricchezza con uno strato di lapislazzuli che nessun altro poteva permettersi. L’avrebbe accontentato. Anche se aveva l’impressione che quello del Chigi sarebbe diventato il firmamento più ricco d’Italia, ma non il più bello. Avrebbe passato sulla volta della loggia, dove Amore e Psiche volavano per vincere le resistenze di Venere, un nuovo strato di lapislazzuli, disciolto nella colla di guanti e steso con pennelli larghi di martora dalla punta mozzata.
Arrivato al cancello della villa di Agostino sentì le risate allegre della sua squadra provenire dalle impalcature. Sorrise tra sé, i suoi assistenti erano la sua gioia, lavorare insieme a loro era un piacere, anche se sempre più raro. I suoi numerosi impegni lo costringevano a frequentare la corte del papa e dei banchieri, le feste e i ritrovi di raffinati intellettuali sottraendo tempo al lavoro con gli allievi.
La voce di Giulio Romano sovrastava quella degli altri, doveva aver fatto una battuta licenziosa perché udì scoppiare una risata fragorosa accompagnata da un battito di mani. Senza fare rumore si avvicinò alla scala a pioli che portava all’impalcatura. I pittori stavano parlando tutti insieme mescolando i dialetti dell’Italia intera. Giovanni da Udine inciampava nella sua zeta veneziana cantilenando con la calma abituale. Polidoro da Caravaggio tentava di inserire la sua veloce parlantina bergamasca che nessuno capiva, a parte il suo grande amico Maturino, mentre Perino del Vaga e Gianfrancesco Penni si scambiavano commenti salaci con tagliente accento toscano.
Raffaello aveva raccolto il meglio dell’Italia sotto la sua protezione e lo aveva fecondato con la sua arte raffinata, riuscendo a ridurre a unità lo stile pittorico di ognuno; ma mentre nei dipinti in cui li impegnava le diverse personalità si sforzavano di mimetizzarsi e fondersi nella maniera del maestro, invece nelle discussioni accese, come quella in corso sull’impalcatura, i diversi dialetti esplodevano in una babilonia di suoni che spesso finiva in urla senza senso.
Salì la scala, infilò la testa nella botola e li trovò riuniti sul lato settentrionale della loggia a guardare qualcosa che uno di loro aveva dipinto.
«Posso sapere cosa sta succedendo?» Raffaello si tirò su sull’impalcatura, fingendo un rimprovero a cui nessuno credette.
Giulio gli andò incontro per abbracciarlo, i suoi occhi nerissimi ridevano e i ricci ribelli erano scappati fuori dalla fascia di lino in cui li raccoglieva durante il lavoro. «Maestro, vieni a vedere cosa ha fatto il tuo Giovanni, il tuo devotissimo friulano! E poi vedremo se avrai ancora il coraggio di accusare me di diffondere disegni scandalosi tra gli stampatori di Roma.»
Gli altri intanto si erano scostati dal muro per fare largo a Raffaello. C’era un festone di fiori, frutta e verdure, su cui Giovanni aveva dipinto un catalogo di tutte le specie vegetali conosciute al mondo, incluse quelle che arrivavano ogni mese dal continente scoperto quasi trent’anni prima da Colombo e rapidamente colonizzato dagli spagnoli. Ma tra i fiori e gli ortaggi ora spiccava in maniera evidente una melanzana dritta dalla punta leggermente arrotondata e gonfia appoggiata a un fico aperto, che mostrava una striscia di semi rosa che lasciava pochi dubbi sulla natura dell’allusione.
Raffaello sorrise scuotendo la testa senza troppa convinzione. «Non vi sembra di esagerare?»
Giulio lo incalzò subito. «Proprio tu ci dici questo, maestro? Proprio tu che ti sei perso per settimane tra le gambe della tua amante, costringendo Agostino Chigi a rapirla per portarti al lavoro a ultimare la loggia?»
«Non bisogna sempre seguire i maestri quando danno un cattivo esempio. E poi non è vero, sapete bene che è una fandonia. Mi sono solo ammalato.»
«Di mal di figa» esclamò Penni, al quale usciva sempre il più becero toscano per le sue battutacce.
Giovanni da Udine per un momento temette davvero di aver passato il segno. «Maestro, se ti sembra troppo, butto subito giù l’intonaco e rifaccio un giglio al posto della melanzana. Pensavamo che siccome stiamo celebrando l’amore di Agostino per la bella Francesca forse un omaggio alla…» Non trovò le parole e Raffaello sollevò la mano per fermarlo. «Va bene, faremo decidere ad Agostino se è il caso di tenere questo sconcio. Però ricordatevi che tra qualche mese sotto questa volta sarà il papa stesso a celebrare le nozze di Chigi e ci sarà tutta Roma presente. Non vorrete che mi accusino di pornografia.»
Giulio non riusciva proprio a trattenersi, del resto Raffaello gli permetteva ogni cosa. «L’intera corte, a cominciare dal papa, si leccherà i baffi di fronte ai seni della tua Venere, come hanno fatto di fronte alla Galatea. Agostino ha dovuto proibire l’ingresso alla villa per il pellegrinaggio che c’era ai piedi di Galatea. Di certo la melanzana di Giovanni farà meno scalpore dell’uccello svolazzante che Polidoro ha dipinto tra le gambe di Mercurio, non trovi?»
Tutti si girarono verso il pennacchio al centro della parete, dove un Mercurio molto robusto si librava nell’aria coperto soltanto dal suo elmetto alato e dai calzari. Tra le gambe, ben in vista, il sesso pareva sospinto dal vento.
«Era importante dare la sensazione del volo…» volle giustificarsi Polidoro.
Raffaello gli rivolse uno sguardo divertito. «Sì, del volo… Lasciamo perdere adesso, dobbiamo risolvere il problema del cielo.» Si girò verso la volta, dove erano stesi i due finti arazzi con le scene del banchetto degli dèi e della presentazione di Psiche a Giove.
C’erano voluti mesi per realizzare quelle figure e Raffaello aveva dovuto studiare altrettanto a lungo gli scorci dal basso. Dopo la Cappella Sistina, nessuno a Roma si azzardava a dipingere figure in scorcio, a meno che non fossero più che perfette, e Raffaello sapeva che Michelangelo, invidioso del suo successo, aspettava solo che commettesse un errore per criticarlo con il pontefice e la corte. Per fortuna il lavoro era ben riuscito: c’era naturalezza nelle posture, ma c’era soprattutto la grazia nei volti e negli atteggiamenti, una grazia che Michelangelo non aveva e che invece rendeva lui molto ammirato.
Naturalmente si vedevano le mani dei diversi assistenti, e questo era
inevitabile. Da anni infatti Raffaello era impegnato nella costruzione del nuovo San Pietro, dell’immensa villa per il papa sulle pendici di Monte Mario, nella decorazione delle stanze e delle logge vaticane e in mille altri progetti. Insomma, tutta Roma era sotto i suoi pennelli e lui non aveva tempo di dipingere da solo una volta simile. Tuttavia dovette ammettere che le diverse mani si riconoscevano appena e che era stato bravo a guidare i suoi allievi.
«Il fatto è che Agostino lo vuole più azzurro» spiegò, «e dunque bisogna preparare una nuova velatura di lapislazzuli che però non sia troppo scura, altrimenti il cielo si incupisce e il contrasto con il verde del fogliame e il rosa degli incarnati diventa fastidioso.»
Gli allievi si guardarono spaventati. Con tono lamentoso si fece avanti Giovanni. «Vuoi dire che dobbiamo ripassare tutto il cielo con i lapislazzuli?»
«Proprio così» rispose Raffaello, senza spostare gli occhi dalla volta. Capiva bene che contornare il fogliame, i profili dei tappeti e dei fiori sarebbe stato arduo, eppure si doveva fare. Non si dice no al banchiere più ricco del mondo.
«Ma dobbiamo finire la parte inferiore dei pennacchi e mancano pochi mesi alle nozze» replicò l’allievo.
Raffaello alzò le spalle. «È inutile lamentarsi, Giovanni. Preparate piuttosto la colla di guanti per la tempera. Agostino ha mandato un suo corriere a Ferrara a comprare mille ducati di lapislazzuli dai commercianti ebrei. Arriverà entro due giorni. Dovremo essere pronti. Scioglieremo insieme il colore e io vi guiderò all’inizio, poi dovrete proseguire da soli, perché sto ancora concludendo il progetto per le cornici di San Pietro. Duecento operai sono lì in attesa dei disegni per poter cominciare a lavorare.»
Un mormorio preoccupato si stava levando dal gruppo quando sentirono delle voci in giardino che si avvicinavano. Raffaello si sporse dall’impalcatura per guardare in basso. Fermi accanto alla fontana di marmo c’erano il cardinale Giulio de’ Medici, il cardinale Wolsey e Agostino Chigi che discutevano animatamente.
«Come procede la costruzione del vostro palazzo a Londra?» chiese Giulio, che indossava un elegante giubbone di velluto nero operato a fiori viola e cercava di intrattenere la conversazione su un piano di amabile leggerezza. Alto e robusto come un Ercole, aveva la pelle scura perché sua madre era una schiava nordafricana di cui si era invaghito Giuliano, il fratello sfortunato di Lorenzo, poco prima di morire. Era il cugino del papa, nonché il suo più accorto consigliere, per molti era addirittura il vero artefice della politica dei Medici a Roma e a Firenze.
Wolsey, ambasciatore del re d’Inghilterra Enrico VIII, coperto da una cappa scarlatta lunga fino alle ginocchia, invece voleva andare subito al sodo. «Il mio palazzo procede bene, grazie anche ai vostri suggerimenti, tuttavia non è per parlare di questo che ho attraversato la Manica e le Alpi senza mai fermarmi. Il mio re vuole sapere se Leone appoggerà la sua elezione a imperatore del Sacro Romano Impero.» Poi girandosi verso Agostino, che rimestava il terriccio con il piede calzato in un elegante stivale di cuoio borchiato d’oro, aggiunse: «E vuole sapere da messer Agostino se intende finanziare la sua candidatura. Gli elettori sono avidi e servono parecchi soldi. Il giovane Carlo d’Asburgo può contare su un fiume di denaro messo a disposizione dai Fugger».
Nel giardino calò un silenzio pesante. Raffaello si girò verso i collaboratori facendo loro segno di tacere e riprendere il lavoro. Era indeciso se scendere a salutare il padrone di casa e i suoi ospiti illustri o rimanere sulle impalcature senza mostrarsi. Si ritrasse leggermente verso l’interno, ma anche da lì si udiva benissimo la conversazione.
La voce di Agostino era imbarazzata: «I Fugger hanno una potenza economica superiore alla nostra, lo sapete bene. E vogliono a tutti i costi l’elezione di Carlo, la Germania è in grande fermento, quel maledetto monaco agostiniano, quel Lutero, sta incendiando il paese. L’elettore di Sassonia lo protegge con ogni mezzo e i Fugger sono legati a lui».
«Del resto sua santità li ha resi ancora più ricchi appaltandogli la vendita delle indulgenze in tutta Europa» ribatté Wolsey che, sebbene fosse un uomo molto serio, non rinunciava mai a una franchezza che spesso a Roma era ritenuta impertinenza.
«Bisognava pur trovare i soldi per costruire il nuovo San Pietro» disse Giulio, senza riuscire a nascondere il rossore che gli infiammò le guance, nonostante il colorito bruno.
Wolsey non si intimorì. «E dare così a Lutero l’occasione per distruggere la Chiesa, attaccando pubblicamente la vendita delle indulgenze come nel più indecoroso mercato simoniaco. Ho l’impressione che, qui a Roma, il vostro bel cielo azzurro vi trattenga dal comprendere quanto sia grande questo scandalo nelle terre del Nord. Io non sottovaluterei affatto le conseguenze della ribellione di Lutero e di parte della Germania.»
Giulio si indispettì per quella battuta, ma dentro di sé era consapevole che la questione delle indulgenze rischiava di travolgere la Chiesa e che suo cugino aveva fatto un errore a concederne la riscossione ai Fugger. Aveva commesso un errore perfino a metterle in vendita come fossero ciambelle ben cotte. «Siete dunque venuto a parlare della legittimità delle indulgenze?» domandò poi.
«No, non sono così ingenuo e lo sapete. Io servo il mio re e la Chiesa, e per il bene di uno e dell’altra vi chiedo di appoggiare la sua candidatura.»
«Ci sono altri tre elettori oltre al principe di Sassonia. E c’è il vescovo di Magonza che dovrebbe prendere ordini da sua santità» intervenne Agostino Chigi, tentando di smorzare il tono acceso della conversazione.
«Enrico ha quasi trent’anni ed è un alleato affidabile per la Chiesa, gli altri contendenti non hanno neppure vent’anni e sono manovrati dai loro consiglieri, oltre a essere invasati da suggestioni cavalleresche che potrebbero rivelarsi fatali per l’Italia» rispose Wolsey con la voce ragionevole del fine diplomatico.
Raffaello, anche se aveva preso in mano un pennello e una ciotola di calce disciolta in acqua per lumeggiare la figura di Venere in volo sul carro trainato da quattro colombe, non riusciva a non tendere l’orecchio, e si stupì di comprendere perfettamente il punto di vista di Wolsey. Difatti la sua amicizia con Bembo, Castiglione, Navagero e con gli altri intellettuali che gravitavano intorno alla corte del papa gli aveva permesso di farsi un quadro chiaro della situazione politica europea, mentre a Roma si mormorava che Francesco I avesse fatto proposte generosissime alla casa Medici per ottenere l’appoggio di Leone X.
Gli amici di Raffaello invece propendevano per un appoggio, seppure segreto, al giovane Carlo, però sapevano anche che l’ambizione dei Medici li avrebbe spinti nelle braccia di Francesco I, il quale aveva addirittura promesso a sua santità di dare il suo secondogenito in sposo alla prima nipote del papa che fosse venuta alla luce. Tuttavia anche appoggiare la candidatura del re inglese poteva essere una buona mossa: sarebbe stato difficile per quel sovrano usurpare i territori della lontana Italia.
I tre uomini fermi quasi sotto l’impalcatura non rinunziavano a giocare la loro partita. Un gioco che avrebbe deciso le sorti del mondo futuro.
Giulio pensò che a volte il suo ruolo diplomatico era davvero difficile, in ogni caso decise che doveva difendere l’ambiguità di suo cugino e le ambizioni di famiglia, nonostante fosse ben consapevole di trovarsi di fronte a un abile stratega che sapeva leggere le vere intenzioni dei suoi interlocutori al di là delle molto ipocrite formule rituali di cortesia che si usavano a Roma. «Sua santità è il padre di tutti i cristiani d’Europa e di tutti i principi cristiani. Non può prendere posizione per nessuno di loro, come un genitore non può mostrare di amare un figlio più di un altro. Leone non interverrà nell’elezione dell’imperatore, manterrà un atteggiamento imparziale pregando lo Spirito Santo affinché illumini la mente degli elettori e suggerisca la scelta migliore. Il pontefice prega affinché il nuovo imperatore possa finalmente unirsi a lui nella guerra contro i turchi che rappresentano la minaccia peggiore per i cristiani.»
Agostino guardò verso l’impalcatura come cercando aiuto tra le assi di legno, dove sentiva muovere i pittori di Raffaello. Immaginava che la risposta del cardinale Medici avrebbe irritato enormemente Wolsey perché era una bugia madornale. Leone infatti si era già schierato con il re di Francia scegliendo gli interessi della famiglia contro quelli dell’intera cristianità e di questo tutti erano al corrente. Ma Agostino non era protetto dalla santità della cotta cardinalizia né dalla vicinanza al papa, perciò la sua replica doveva essere meno ipocrita di quella del cardinale, anche perché Wolsey lo fissava, rosso in viso come il colore della sua cappa. «Potete dire a sua maestà Enrico VIII che i miei banchi in Inghilterra sono a sua disposizione per un prestito fino a trecentomila ducati. Il tasso d’interesse sarà il più basso possibile. Persino per me non è facile trovare liquidità in questo momento.»
Wolsey scandì bene le parole cercando di trattenere la rabbia. «Siamo contenti che sua santità abbia deciso di mantenersi imparziale in questa contesa. Allo stesso tempo siamo certi che sia perfettamente consapevole del fatto che nel caso violasse la sua neutralità a favore di uno o dell’altro candidato, la collera di Enrico VIII e del popolo inglese non sarà facile da arginare. E questa collera potrebbe essere fatale alla Chiesa e alla casa Medici.»
«È una minaccia?» domandò Giulio, di nuovo arrossito.
«No. È solo la verità. Qualche volta fa bene dirla, anche sotto il cielo azzurro di Roma.»