Sinossi
«Un romanzo che, attraverso le vicende di Rosario e Remedios, ci regala uno sguardo affascinante sulla storia spagnola dell’ultimo secolo.»
XX Siglos
«Basandosi sulla storia dei suoi nonni, Carolina Pobla dipinge perfettamente la Spagna alla vigilia della guerra civile e una coppia di giovani donne che lotta per realizzare i propri sogni. »
Qué Leer
Una saga familiare ispirata a una storia vera.
Due sorelle coraggiose come i gerani che resistono al freddo dell’inverno.
1928. Le sorelle Torres abitano nella villa più bella di Málaga. Il padre l’ha costruita per loro, perché vivessero come delle principesse. Rosario, la maggiore, di una bellezza elegante e decisa, ama il canto ed è la preferita della famiglia. Remedios cresce nella sua ombra, comunque felice di dividere con lei i giochi nel loro posto magico: il giardino della villa, che di volta in volta si trasforma in un’isola deserta infestata dai pirati o in un castello incantato.
Fino al giorno in cui l’idillio finisce. Una delle navi con cui il padre commercia spezie, tessuti e tappeti affonda. La bancarotta è una tragedia dalla quale l’uomo non si riprenderà più. Rosario e Remedios rappresentano il futuro della casata. Un fardello troppo pesante per due giovani donne. Ma, come la pianta simbolo della loro famiglia, il geranio, devono essere forti e coraggiose. Devono pensare alla primavera che, immancabilmente, torna a sbocciare dopo ogni inverno. Ed è proprio un seme di quel fiore che portano con loro a Barcellona, dove decidono di ricominciare. Tra le vie della grande e colorata città, all’inizio si sentono perse e il loro legame è tutto quello che hanno per affrontare il presente. Eppure Rosario e Remedios, anno dopo anno, si scoprono più diverse di quello che immaginavano. Una fa di tutto per trovarsi un lavoro e un marito che possa darle sicurezza, mentre l’altra insegue ancora i propri sogni e si innamora di un uomo ribelle come lei. Ma anche quando sembra che si siano perse per sempre, i balconi e le finestre delle loro case saranno pieni di gerani in fiore. Non è possibile dimenticare le proprie radici. Perché entrambe hanno una missione: restituire l’onore alla famiglia Torres.
I gerani di Barcellona è il romanzo che ha conquistato la Spagna. Ha messo d’accordo i lettori e la stampa più autorevole. Ispirato alla vera vicenda dei nonni dell’autrice, una saga in cui mezzo secolo di storia iberica fa da sfondo alle scelte, agli errori, alle conquiste e alle speranze di due sorelle.
Estratto
A tutti gli sconosciuti le cui storie varrebbe la pena di raccontare.
Ai miei nonni, Teresa e Toribio.
PRIMA PARTE
1928 – 1933
1.
La Macarena era un rigoglioso giardino che la natura aveva creato obbedendo agli ordini di un uomo, don Rafael. Le palme più alte di tutto il litorale di Malaga sfidavano il salnitro e ne uscivano vittoriose insieme alla gran quantità di piante tropicali che il proprietario aveva fatto portare dall’altro capo del mondo. Era tutto un susseguirsi di cantucci, nascondigli, sentieri e ponti. Ogni momento aveva un suo spazio in quel giardino meraviglioso, disegnato per essere perfetto. Non c’era nulla che non vi potesse accadere. Al centro del paradiso si trovava la casa, enorme e magnifica, mimetizzata con ciò che la circondava.
Don Rafael era un uomo alto, biondo e con gli occhi di un azzurro intenso. Le spalle larghe gli conferivano un’immagine di forza e rispettabilità che l’età e i molti viaggi come marinaio mercantile avevano accentuato. Grazie a un’eredità, era riuscito ad acquistare una nave che gli garantiva ottimi profitti e gli permetteva di vivere al di sopra di quanto gli sarebbe spettato per ceto sociale. Un uomo che si era fatto da sé, che aveva raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissato e che aveva una sola debolezza: i suoi cinque figli. Da qualche tempo don Rafael aveva smesso di navigare e si dedicava esclusivamente alla gestione della tenuta vicino al mare; dall’ufficio curava gli affari e guardava i figli crescere. E tra i suoi figli, Rosario, la maggiore, occupava un posto speciale.
La ragazza emanava la sicurezza di chi, con un po’ di superbia, sapeva che non le sarebbe mai mancato nulla e che, qualunque cosa avesse fatto, ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a rispondere per lei. Adorava suo padre con la stessa intensità con cui disprezzava la madre, una donna innocente che aveva vissuto nella sventura fin dal giorno in cui era nata.
Sfiorita e poco aggraziata, sebbene provenisse da una buona famiglia a cui non mancavano i mezzi, Beatrice aveva immediatamente accettato, a un’età in cui ormai tutti temevano che sarebbe rimasta zitella, l’unica proposta di matrimonio ricevuta, quella del giovane Rafael, che cercava di farsi strada in un ambiente che non conosceva e che considerò quel matrimonio fortunato, per quanto infelice. Non arrivarono mai ad amarsi e, a dispetto di tutti gli sforzi profusi da don Rafael, l’unica gioia che condivisero fu l’arrivo di un figlio dopo l’altro.
A Rosario non piaceva la debolezza della madre, né il modo in cui richiedeva affetto, tantomeno la sua voce mite e lo sguardo triste, che la osservava quasi a supplicare un po’ di attenzione. Quello sguardo la esasperava. La distanza tra loro aumentava sempre più e l’indifferenza di Rosario nei confronti della madre, che non si era mai dedicata troppo ai bambini, cresceva di giorno in giorno, così come cresceva la tristezza di Beatrice nel vedere allontanarsi la figlia maggiore. E insieme a lei, anche gli altri figli.
Rosario passava i pomeriggi in compagnia del padre. Dopo una lunga giornata di studi con l’istitutrice che si occupava di lei e dei suoi fratelli, e che la annoiava a morte, e dopo le lezioni con il professore di francese, andava insieme a don Rafael a parlare con i giardinieri o a controllare i conti della tenuta. Insieme lucidavano anche la collezione di armi antiche di don Rafael. Lei era la sola a cui era permesso toccarle: non poteva farlo nemmeno suo fratello Rafaelito, l’unico maschio, che con una certa invidia li osservava dalla porta socchiusa.
Don Rafael adorava quei pomeriggi. Voleva godersi ogni minuto insieme alla piccola perché presto sarebbe stata in età da marito e se ne sarebbe andata di casa. Una prospettiva che lo rattristava. «Non si preoccupi, papà, io mi sposerò con lei», una battuta che ormai da anni era diventata un tormentone in famiglia; la minore delle sorelle le chiedeva sempre: «Quando ti sposerai con nostro padre, diventerai la nostra mamma?». E alla madre scendeva una lacrima.
La Macarena, don Rafael, Rosario. Non esisteva nient’altro. L’universo si riduceva a quello. E lui avrebbe voluto che fosse eterno, infinito.
L’unica cosa che la ragazza non poteva condividere con il padre erano le riunioni. Quei signori arrivavano proprio all’inizio delle lezioni di canto e, mentre lei faceva vocalizzi e solfeggi, loro discutevano; poi lei cantava e loro decidevano. Erano riunioni lunghe, con calici di brandy e sigari cubani, puntellate da espressioni soddisfatte, nella convinzione di aver preso decisioni importanti. Quando la ragazza cantava, le sorelle e il fratello la ascoltavano. Anche la madre. A volte perfino il padre e quei signori smettevano di parlare per contemplare quella voce, finalmente priva di superbia, che riempiva il silenzio di palpabile bellezza.
E poi uscivano a passeggiare per i giardini della Macarena. Quei giardini non avevano mai fine; potevano prendere ogni giorno una via diversa, e trovavano sempre una sorpresa: scoprivano un bel fiore di una specie nuova, appese a un albero apparivano caramelle, a volte a metà strada scovavano un tavolino pieno di dolci o un libro dimenticato su una panchina con una bella storia da leggere. A don Rafael piaceva l’entusiasmo mostrato dai figli durante quelle passeggiate e si impegnava in prima persona affinché qualcuno di sua fiducia preparasse qualcosa di speciale; perfino il personale faceva a gara per inventare la sorpresa più originale. Era l’unico momento in cui Rosario condivideva il padre con i suoi fratelli, lei a braccetto e i bambini a correre tutto intorno. Una vera e propria famiglia, osservata da lontano da quella donna malaticcia che, appoggiata alla finestra, scostava le tendine ricordando un’epoca in cui lei aveva avuto un ruolo all’interno di quella felice comitiva, ormai infranto. Sapeva che né suo marito né i suoi figli facevano più affidamento su di lei. A poco a poco si spense, finché non rimase più nulla di quello che era stata.
Rassegnata, aveva capito che il suo compito era terminato. Si lasciò andare. Morì senza che la cosa creasse particolare scompiglio in famiglia.
Remedios osservava la sorella, che aveva solo tre anni più di lei, ma dal giorno in cui aveva lasciato la camera dei bambini le sembrava più distante, più alta e più bella. Le mancavano le notti di confidenze infantili, tutte e due strette nello stesso letto mentre Rocío, «la suora», la seconda delle sorelle, le ascoltava con invidia e disprezzo dal letto vicino. Remedios adorava essere la preferita di Rosario. Rocío invece era troppo seria, troppo assennata, troppo antipatica, e stava sempre a pregare… Non sembravano nemmeno sorelle. Remedios si divertiva a farla arrabbiare e sentiva la mancanza degli abbracci e degli sguardi complici di Rosario. Adesso tutto era diverso, a volte aveva pensato di cercare la compagnia di Rosita, ma era troppo piccola e voleva solo giocare. Aveva la sensazione che le avessero rubato qualcosa. Si sentiva sola.
Da quando la sorella dormiva in una stanza tutta sua, qualcosa in lei era cambiato. Non portava più le trecce né la gonna corta, non rideva e non parlava come prima. Era finito il tempo dei segreti, non correva più a cercarla per raccontarle, bisbigliando, le nuove scoperte. Iniziava a trattarla come facevano gli adulti, e non le piaceva. Era successo tutto troppo in fretta e lo smarrimento iniziale si era trasformato in un misto di risentimento e ammirazione.
Dalla sera alla mattina, Rosario si era trasformata in quella principessa radiosa e irraggiungibile che avevano immaginato insieme leggendo libri di favole.
Il giardino era il luogo magico di Remedios. Lì avevano vissuto avventure incredibili su un’isola deserta, in un bosco incantato, in un palazzo di alti alberi sotto una volta di stelle. Lì avevano immaginato i loro principi azzurri e i pirati dei mari del Sud, si erano sposate infinite volte e avevano viaggiato in luoghi di fantasia. Adesso, passeggiando per La Macarena senza la sua Rosario adorata, non vedeva più né isole, né boschi, né palazzi, non immaginava né principi né pirati, e neppure dava feste, banchetti e ricevimenti. I colori e i profumi di sempre non le erano più di ispirazione per nuove storie. La luce che filtrava tra le palme, disegnando sentieri verso il cielo, non le importava più.
Al momento di andare a letto, passava ore a fissare il soffitto. Non era sicura di volere la stessa cosa che era successa alla sorella. Sapeva che anche lei sarebbe entrata a fare parte del mondo degli adulti, ma quel momento era ancora lontano, e comunque sarebbe toccato prima a Rocío. Remedios si sentiva protetta, lì, nel suo angolino nella camera dei bambini. Non voleva crescere, non voleva che le cose cambiassero. A volte, quando non riusciva a dormire e la casa gemeva con uno scricchiolio strutturale, o sentiva un rumore strano, guardava verso la porta sperando di vedere Rosario entrare in silenzio, infilarsi nel suo letto e darle un abbraccio rassicurante. Grosse lacrime le cadevano sulle guance mentre attendeva che quel desiderio si realizzasse, e non immaginava che la sua vita, da lì in poi, sarebbe stata una lunga attesa.
Rosario era molto nervosa. Girava voce che stesse per ricevere una lettera dalla giunta comunale in cui le avrebbero comunicato che era stata scelta per essere la reginetta delle feste della città, un’enorme responsabilità. Avrebbe dovuto assistere agli atti ufficiali, inaugurare le danze, presenziare a cene… Non si fermava un attimo, apriva armadi e bauli, ne tirava fuori fazzoletti, cinture e chincaglierie, sfogliava riviste e cataloghi. Le servivano vestiti nuovi, accessori e gioielli, doveva pensare alle acconciature, al portamento, prepararsi alle conversazioni. Era l’occasione perfetta per il debutto in società, la vetrina ideale per il suo ingresso nel mondo. E non aveva intenzione di lasciarsi scappare una tale opportunità. Sicura di sé, sapeva esattamente come fare, e il primo passo sarebbe stato convincere il padre che quell’investimento era una benedizione. «Buongiorno, padre», diceva a mo’ di prova mentre andava verso il suo ufficio. La cosa migliore sarebbe stata dirglielo senza giri di parole, e lui avrebbe subito preso in mano le redini di una situazione tanto importante. Entrò nello studio senza titubanze. Non aveva mai avuto bisogno di chiedere il permesso, e non lo fece nemmeno in quel caso.
«Adesso no, Rosario!»
La ragazza rimase pietrificata sulla soglia della porta, la mano ancora stretta intorno alla maniglia. Non capiva che cosa stesse succedendo.
«Adesso no, ti ho detto! Vattene!»
Don Rafael non ebbe bisogno di ripeterlo di nuovo. Rosario non lo aveva mai sentito parlare in quel modo. Don Tomás, che se ne stava seduto tutto serio dall’altra parte della scrivania, doveva avergli detto qualcosa di veramente importante, perché suo padre reagisse in quel modo. Chiuse piano la porta, con lo sguardo basso, senza far rumore e senza riconoscere l’uomo che le aveva dato quell’ordine. Aveva ancora la mano sulla maniglia quando venne investita da un’ondata di rabbia e fu quasi sul punto di rientrare e pretendere spiegazioni. L’istinto, però, le raccomandò prudenza. Stava succedendo qualcosa di epocale e non era il momento migliore per trovarsi lì.
Era una bella mattina di sole e per don Rafael si prospettava una giornata tranquilla. Si era sorpreso all’annuncio di quella visita inaspettata.
«Buongiorno, don Rafael.»
«Buongiorno, don Tomás. Che bella sorpresa! Qual buon vento? Non mi aspettavo di vederla prima della prossima settimana. Avanti, si accomodi. Posso offrirle un brandy, un cubano?»
«No, grazie. Mi dispiace presentarmi così, ma non ho buone notizie.»
Non serviva essere degli acuti osservatori per rendersi conto che qualcosa non andava. Don Tomás teneva lo sguardo fisso sul pavimento. Era l’incarnazione perfetta dello sconforto. Si era lasciato cadere sulla poltrona davanti alla scrivania come se pesasse il doppio del normale e, alzando con un immenso sforzo lo sguardo, aveva guardato don Rafael.
«Non so come dirglielo, don Rafael, ma… abbiamo perso la nave.»
Don Rafael aveva dovuto farselo ripetere. C’era stato un temporale, il carico si era spostato. Lo spostamento aveva fatto inclinare lo scafo a dritta superando il limite di stabilità. Il capitano e due membri dell’equipaggio erano dispersi, gli altri erano riusciti a salire sulla scialuppa di salvataggio ed erano a terra, sani e salvi, però la nave era affondata.
Silenzio.
Don Rafael era sconvolto. L’espressione stralunata, le orecchie che gli fischiavano e un mal di testa tanto acuto quanto improvviso che lo aveva obbligato a chiudere gli occhi. Gli dispiaceva aver cacciato Rosario in quel modo, ma non poteva occuparsi di lei in quel momento. Nella sua testa era un incessante sbattere di bauli, botti, alberi e vele, era tutto un pensare alle possibili conseguenze (che cosa poteva fare?), alle responsabilità e alle cause (che cosa doveva fare?). Dispiacere, tristezza, paura. L’uomo imponente, sicuro di sé, grande, forte e pacato stava crollando. Si era alzato, si era avvicinato alla finestra e aveva guardato oltre il giardino, oltre la spiaggia e oltre il mare, ed era riuscito a vedere i resti della sua nave scomparire, portandosi appresso il futuro della sua famiglia.
Gli ci era voluto qualche minuto per ricomporsi nell’immagine di sé che voleva offrire al prossimo. In realtà da qualche anno le cose non andavano bene quanto aveva voluto far credere a familiari e conoscenti e, senza consultare nessuno, aveva deciso di rischiare e di chiedere un prestito per caricare sulla Santa Teresa spezie, tele e profumi acquistati in Nord Africa. Portare a buon fine quell’operazione significava assicurarsi una piccola fortuna che gli avrebbe garantito qualche anno di tranquillità e la possibilità di acquistare un’altra nave per ampliare il giro di affari. Ma tutti i suoi progetti erano colati a picco. Non poteva far fronte al prestito che aveva chiesto e le fondamenta del suo mondo iniziavano a sgretolarsi.
Con la forza che solo l’orgoglio è in grado di dare, si era voltato verso don Tomás, che da un po’ se ne stava in silenzio con lo sguardo sempre fisso per terra, aveva sospirato e gli aveva chiesto del tempo per riflettere.
«Non si preoccupi, don Tomás. Vada a casa, prendo in mano io la situazione.»
Non appena si era chiusa la porta, don Rafael, con movimenti lenti, si era seduto sulla poltrona, aveva appoggiato i gomiti sulla scrivania e, coprendosi il viso con le mani, aveva pianto tutte le lacrime che non aveva più versato da quando era piccolo.
Rosario si rimirava allo specchio e l’immagine riflessa le piaceva: il vestito era esattamente come lo aveva immaginato, l’acconciatura le donava e la fascia in diagonale che le ornava il petto non lasciava dubbi sul fatto che fosse lei la protagonista. Sembrava più grande, e ne era entusiasta.
Da un momento all’altro suo padre avrebbe bussato alla porta, le avrebbe offerto la mano e l’avrebbe accompagnata all’automobile per andare al municipio dove c’erano tutte le autorità della città ad attenderla per dare inizio alla settimana di feste. Aveva pregustato quella scena un’infinità di volte.
Sul letto c’erano altri due abiti e per terra due paia di scarpe a far da completo. I professionisti venuti a pettinarla e truccarla erano usciti da poco, al termine di un lavoro magnifico. Già da parecchio tempo era davanti allo specchio a provare pose diverse. Solo il battito del cuore accelerato la costringeva ad ammettere di essere un po’ nervosa, ma non avrebbe mai permesso che qualcuno potesse accorgersene…
L’autrice
Carolina Pobla ha studiato pedagogia all’università di Barcellona e per più di trent’anni ha lavorato nel mondo della danza come docente, coreografa e regista. I gerani di Barcellona è il suo romanzo d’esordio.